lunedì 17 marzo 2008

Il Paradiso dei poveri

La storia alpinistica del Vallone d’Eugio è di nessuna importanza ma compensata da un’aneddotica di vita, lavoro e transumanza da far apparire i Malavoglia una famiglia fortunata. Abbandonato ormai da mezzo secolo dai montanari, dismesso da alpinisti ed escursionisti, solamente il tempo si prende cura di questo vallone, che si presenta ai rari visitatori nello splendore della sua rovina.

Il ghiacciaio che a suo tempo si è preso il disturbo di modellare il Vallone, scivolando da nord verso sud, ha preso le mosse dal Moncimour (3167 m), Punta Gialin (3270 m) e dalla Piata di Lazin (3108 m).

Nel fuoco costituito dalla triangolazione delle 3 montagne, la superficie del Lago Gelato interrompe il grigio dominante di pietraie infinite. Le rive sono inagibili anche per chi ama gli scogli, tranne che lungo la sponda meridionale dove le rocce montonate formano una piccola spiaggia e uno dei rari tratti pianeggianti di tutta la valle. È uno dei laghi naturali più grandi del Parco del Gran Paradiso, ma anche uno dei meno visitati poiché per giungervi occorre superare un dislivello di 1.800 o di 1900 metri, a seconda che si scelga di penare passando dalla Val Soana o patire attraverso il Vallone di Piantonetto, Valsoera, e passo di Moncimour.

Di arrivare dal basso non se ne parla.

Seguendo le tracce dei danni provocati dal ghiacciaio durante la discesa, ci si accorge presto che l'orario di visita del Vallone è finito già da molto tempo. Ne è prova la mancanza di un sentiero o quanto meno di una traccia. Avvistare un ometto di pietre è un’esperienza esaltante, ma non particolarmente utile perché un punto, senza un altro punto a cui unirlo, non serve per tracciare una rotta. Con il sopraggiungere quotidiano della nebbia, la discesa si complica e, a consuntivo, presenta un conto salato: due ore abbondanti per quattrocento metri di dislivello.

Intorno ai 2500 metri, dove l’erba comincia a insinuarsi tra le rocce, appaiono i due laghi Bort, uniti da un magro rio che non sa se essere l’emissario del primo o l’immissario del secondo. Poco dopo si tocca il solitario lago Bocutto. Se il vallone d’Eugio fosse un’ostrica, il lago Bocutto sarebbe la sua perla. Il vallone è più una cozza che un’ostrica, ma il lago è ugualmente un gioiello e la sua vista vale, da sola, i graffi e le fatiche del viaggio.

Dal lago Bocutto il sentiero dovrebbe portare all’alpe dei Fons, ma sul posto il sentiero non c’è. L’unico metodo per orientarsi consiste allora nell’immedesimarsi nei pastori di un tempo e chiedersi dove si potrebbe edificare una baita. Ma anche così l’Alpe dei Fons appare solamente quando si è ormai rinunciato a cercarla. Le capanne di pietra sono solo pietre tra le pietre.

Nel tratto successivo i rododendri si insinuano tra le rocce celandone i crepacci, non c’è sentiero e i ruscelli scorrono sotto la vegetazione, rendendo viscida l’erba di superficie. Verso il basso si intuisce un salto di cento e più metri sopra il lago Nero.

Superato anche il Lago Nero, lungo il Piano d’Eugio macigni di enormi proporzioni giacciono spaccati su un pianoro prativo. Proprio qui, dove non servirebbe, il sentiero ricompare e si fa strada tra gli ontani fino all’alpe Savolere che resiste ancora in buono stato. Il nome dell’alpeggio probabilmente richiama la vicinanza con l’acqua. La radice del toponimo Savolere, è la stessa di Savara, il torrente della Valsavarenche. Saular, inoltre, in franco provenzale significa insabbiare e può indicare un luogo in cui il torrente, straripando, ha portato della sabbia.

La diga del lago d’Eugio è una fortezza Bastiani nella solitudine del vallone. L’invaso è presidiato da alcuni guardiani che abitano a turno in una palazzina di pietra costruita su uno sperone naturale al centro della diga. Vi giungono a bordo di un carrello a rotaia, trainato a fune su un piano inclinato, una comodità che evita la fatica e i tempi di salita da Rosone, 1000 metri più in basso, ma cancella anche ogni speranza di mantenere agibili i sentieri.

Un sentiero in verità c’è, è il gta, una riga rossa sulla cartina che proviene dall’adiacente vallone di Praghetta, attraversa la valle ai piedi della diga, e risale sul versante opposto per sparire oltre il monte Arzola. Un sentiero ben segnato, ma poco frequentato e con l’erba che lo invade ovunque, soprattutto lungo i tratti a mezzacosta che richiederebbero più larghezza e pulizia per evitare vertigini e passi pericolosi.

I morti, tuttavia, non si trovano sotto il gta, ma disseminati alla fine degli anni ‘50 lungo il piano inclinato del carrello, ai piedi di qualche salto di roccia o dentro le montagne. All’epoca della sua costruzione, la diga dell’Eugio, insieme a quelle di Ceresole Reale, Teleccio, Valsoera e al complesso di opere idriche, che portano l’acqua alle turbine delle centrali elettriche di Villa, Rosone e Bardonetto, sono state teatro di decine di incidenti mortali. False micce, prive del filo di seta, che facevano esplodere le mine senza ritardo, crolli e cadute erano gli incidenti più comuni. Per non dire della silicosi che ancora oggi uccide i minatori che hanno realizzato decine di chilometri di gallerie.

Visto dalla banchina della diga, il terzo inferiore del Vallone d’Eugio è un mare di chiome mosse, sul cui fondo si trovano i relitti di numerose frazioni. La prima ad apparire, continuando la discesa, è Case Uggetti, posta in un bel piano a 1250 m. Il nome è probabilmente quello di una famiglia. Resta da verificare se è il vallone d’Eugio che ha battezzato gli Uggetti o viceversa.

Il sentiero, quando si vede, scende di poco sulla destra orografica della valle, dove costeggia un canale che un tempo portava l’acqua alle frazioni sottostanti, e conduce quasi in piano a Veso, la frazione che era sede di scuola elementare. A Veso vivevano stabilmente agli inizi del ‘900 15-20 famiglie per una stima di circa 100 anime, curate dal medico condotto quando c’erano i soldi e dal prete di Locana per le festività. I pantaloni della festa, così come quelli di tutti i giorni erano prodotti con tela di canapa tinta con un pigmento marrone, ottenuto dalla bollitura del mallo delle noci. Il guardaroba invernale era a base di lana, filata e poi lavorata di notte alla luce del fuoco o delle lampade ad acetilene.

Il sentiero giunge a Balmetta, dove nel 1931 nacque Mariuccia e dove sua madre morì di polmonite pochi mesi dopo. In quegli anni il messo comunale contava ancora 80 vacche nella valle, per non dir di pecore e capre. Si producevano toma e burro, che si portavano, insieme alla legna di faggio, al mercato di Locana il mercoledì. Si ritornava con sale, farina gialla e qualche pezzo di pane per i bambini. Il vino si comprava per Natale: un decalitro non di più. Fu in occasione di uno dei viaggi a Locana, che la madre di Mariuccia, sudando sotto il peso della cesta colma, si ammalò e morì in tre giorni. Fu portata a valle legata su una scala che fungeva da barella. Non c’era altro modo per trasportare i defunti. Il padre di Mariuccia, invece, scese a valle trasportato dentro una cesta, piegato in due per i dolori, asciugato e rinsecchito dalla febbre, ma ancora vivo. Tuttavia i medici non poterono nulla contro il tifo nero che aveva contratto qualche giorno prima, quando era sceso al piano per la raccolta della meliga.

Oggi, a Veso e Balmetta non splende più il sole, perché faggi e castagni sono cresciuti alti e forti, concimati dalla fatica accumulata tra queste pietre. Radicano nelle cantine, sfondano travi marcite e si contendono l’un l’altro la luce del sole, annegando in un’ombra perenne i resti delle case.

Tra questi viottoli, con un briciolo di fantasia non è difficile immaginare il maestro elementare che si intrattiene con la madre di qualche alunno, magari per dire che il bambino non deve più fare assenze, che se no non si sa come va a finire. Alla scuola di Veso aspettano il maestro 55 alunni nel 1888, 16 nell’inverno del 1937-38 e solamente 9 nel 1950. Per mettere insieme questi ultimi si deve attingere da tre diverse borgate. 

L’emigrazione compie la sua opera devastatrice a cavallo della prima guerra mondiale. Chi partiva per le Americhe non diceva nulla in famiglia. Quando la moglie riceveva una cartolina da Genova, capiva e aspettava di essere chiamata. Forse.

Nel ’52 Mariuccia si sposa a Locana e non torna più nella valle. Le case costruite pietra su pietra, senza cemento, tenute insieme da sacrifici, bestemmie, preghiere e calce di poca qualità, rovinano presto. In alcuni casi il fuoco accelera i crolli.

A valle di Balmetta, dove lo zelante esposimetro impedisce alla macchina fotografica di scattare, il bosco si infittisce, ma si intuisce che la fine è vicina. Scorrono i titoli di coda, l’angoscia si scioglie. Il sentiero è ripido, ma non c’è più rischio di perdersi. Scalini e svolte in breve portano sotto il tiro di un gigantesco masso che spunta nel fitto del bosco. Si erge più alto degli alberi più alti, ma diversamente da questi è sprovvisto di radici, e prima o poi scivolerà giù, chiudendo per sempre l’antica strada per l’Eu
gio.

È solo questione di tempo, ma qui il tempo è l’unico padrone.