venerdì 25 settembre 2015

1978

Per la mattina in cui rapirono Aldo Moro, ho un alibi: ero con la mia classe alla GAM (Galleria d'Arte Moderna) di Torino dove era di passaggio la collezione Guggenheim. Ci aveva portato non so più quale insegnante e tutto quello che ricordo è un quadro di... Oddio, mi viene da dire Quasimodo ma Quasimodo è un poeta. Vabbeh. Non è questo il punto. Tra le sale girava un mormorio, era successo qualcosa, le Brigate Rosse avevano ucciso qualcuno. Non era la prima volta.
Quando tornammo a scuola, era fine mattina e ora di tornare a casa. Io avevo la patente da poco tempo e una Fiat 600 grigia. Era una 600 dismessa dalla Guarda di Finanza, passata per diverse mani, tra cui quelle di mio nonno, ed era arrivata a me. Ritargata, adesso era TOP0. Andavo in giro con una 600 da buttare, grigio topo, targata topo.
In quel periodo portavo i capelli lunghi. Ma lunghi lunghi. Avrei potuto mimetizzarmi tra i cugini di campagna, e se avessi cantato con loro in playback, non se ne sarebbe accorto nessuno. Invece cazzeggiavo in giro con la mia 600. 
In quel periodo carabinieri e polizia mi fermavano spesso. Non dico tutti i giorni ma quasi. Ma non è questo il punto.
Quel giorno, come è facile immaginare, erano fuori di testa per via del rapimento. Io imbocco via Gorizia e vedo i coni in terra che restringono la carreggiata. “Ahia!” penso.
Le due 127 davanti a me le lascianto passare, quando arrivo io, un carabiniere con mitraglietta mi fa segno di accostare. L'altro si piazza sulla destra: sono spacciato.
Sorrido, avevo la faccia da bravo ragazzo e gli dico che mi ha già fermato ieri. Era vero: avevo riconosciuto il carabiniere che mi aveva fermato il giorno prima in corso Agnelli.
Quello ripete il gesto con rabbia.
Mi fermo, prendo il libretto e scendo. Scendo sempre quando mi fermano polizia e carabinieri. In segno di rispetto. Quando mi fermano i vigili, no.
Il carabiniere esamina il libretto, esamina la patente, mi guarda un po' schifato, poi mi dice di voltarmi e mi perquisiscono. Uno dei due si siede in macchina e guarda cosa c'è nel portaoggetti. Cosa volete che ci fosse? C'era una collezione composta da 115 pacchetti di MS finiti e accartocciati. Li tenevo lì perché non ho mai buttato un pacchetto dal finestrino e, sinceramente, chiederei la pena di morte per quelli che lo fanno.
- Cosa sono questi? -
Cosa dovevo rispondere? Cosa avreste risposto? Non me la sentivo di rispondere che erano pacchetti di sigarette accartocciati perché, per esperienza, so che i carabinieri si incazzano per questo tipo di risposte. “Non so” sarebbe stato peggio, per cui mi avvalsi, senza saperlo, della facoltà di non rispondere.
- Cosa c'è nel cofano? -
- Niente. -
I carabinieri non ammettono che in un cofano ci possa essere niente. Quello di destra si avvicina e alza un po' la canna dell'M12. L'altro mi ordina di aprire il cofano. Mentre cerco la leva tra i pacchetti di MS accartocciati, penso di tagliarmi i capelli. Mi dispiace, ma creano troppi problemi. E dovrei anche cambiare auto.
Apro il cofano.
- E quella cos'è? -
- La ruota di scorta. -
- No, quella. - indicando col mitra una scatoletta di metallo.
- Gesù! - Me l'ero dimenticata. Adesso sono nei guai.
Se dico cos'è, si incazzano, se non lo dico, non so cosa succede.
Lentamente, per non farmi fucilare, prendo la scatoletta e, sempre lentamente, la raddrizzo perché per qualche motivo era finita a testa in giù. Appare così il foglietto di carta applicato con nastro adesivo sul coperchio, che indica il contenuto. La scritta non lascia spazio a dubbi: “Cassetta della cagata felice”.
I due carabinieri si guardano.
- Cos'è? -
Di nuovo: cosa dovevo rispondere?
- La apra. -
Sono contento, così capiscono e la finiamo.
Apro con delicatezza e appare il contenuto: un estratto dell'Intrepido con un racconto a fumetti di Billy Bis (che ovviamente non avevo mai letto, se no dove stava la felicità?) una sigaretta Marlboro (Marlboro non MS se no dove stava la felicità?), un accendino usa e getta quasi scarico e un bel po' di carta igienica. (Morbida, se no...)
Il carabiniere si convince che non sono un terrorista, ma valuta di arrestarmi perché sono un coglione.
- Perché si porta dietro di 'ste sciocchezze? -
- Può sempre servire. -
Avessi detto: “La luna e il falò” o “Altafini gioca a Monopoli” o “So dove tengono Moro”, la sua reazione sarebbe stata le stessa: un gesto di stizza, un “se ne vada” pronunciato con disprezzo più dalla canna della mitraglietta che dalla bocca. Come se gli avessi fatto perdere tempo. Come se mentre controllava me, gli fosse scappato Renato Curcio sotto il naso. E forse è andata proprio così.
E io?
Con le gambe che tremano un po', risalgo in macchina e riparto, con la mia cassetta della cagata felice appoggiata sul sedile del passeggero, quello che non si poteva usare, perché il fondo arrugginito della 600 non avrebbe retto il peso.

Accesi quell'unica sigaretta Marlboro, rientrando nel traffico filtrato dal posto di blocco. Non so che fine fece la cassetta. Forse rimase nella 600 quando la vendetti per 250.000 lire. Mi dispiace perché quel racconto di Billy Bis non lo lessi mai. Questo è il punto.

Sangue e neve

Il Jo Nesbo dei romanzi seri (quelli pubblicati in Italia prima di passare a Einaudi), non tornerà più. Dopo aver scritto roba come “il gattopardo”, “lo spettro” e “Polizia” della serie con Harry Hole avrebbero dovuto attaccarlo allo scappamento di una Volkswagen e lasciarlo lì. Ma la Norvegia è influenzata dalla corrente di Babbo Natale e lo hanno graziato. Allora lui ha rilanciato con “Sangue e neve” e “scarafaggi”. Di scarafaggi non voglio sapere niente. “Sangue e neve”, invece, l'ho letto ieri in due ore e - guardate - mi è piaciuto. Abbastanza inverosimile, ma non tanto come i sopracitati, “Sangue e neve” è anche o soprattutto un libro scritto bene. Nesbo crea un personaggio nuovo, un criminale del tutto atipico al quale è inevitabile affezionarsi e lo mette nei guai dopo poche pagine. Poi c'è la storia d'amore. Questa potrebbe essere la condanna definitiva per Nesbo. “Ma come? Un thrillerista che imbastisce un romanzo rosa?” Rosa un cazzo: Sangue e Neve è bello splatter, con sparatorie e teste tagliate. Ma poi, se anche fosse? Se l'amore si fa
sentire, voi che fate? Riattaccate come fosse un call center di ENI Gas e Luce? Decidete voi, ma prima, almeno, leggete “Sangue e neve”.

lunedì 21 settembre 2015

Soffocare


Non è un libro. È un amico. Cioè: “Soffocare” è il libro; l'amico è Chuck Palahniuk. Non posso definire diversamente uno che mi capisce e mi conosce al punto da farmi fare quello che vuole. Chuck sa perfettamente come funzionano i miei due schemi mentali e mezzo, sa cosa mi fa ridere, cosa mi diverte, cosa mi fa ridere tanto, cosa mi manda in ipossia dalle risate, cosa mi fa desiderare di indossare un Tena Lady.
Mi rendo conto che Chuck mi prende in giro con amore, perché mentre scrive sa esattamente a quale punto della pagina e della riga comincerò a ridere. Non solo: mi dà la sensazione (probabilmente vera) che se ci incontrassimo, io e lui saremmo davvero amici e Chuck riderebbe delle mie battute come io delle sue.
Naturalmente lui parla a tutti, ma io ho la presunzione che si rivolga proprio a me. Poi, però, scopro che anche altri uomini lo conoscono e hanno la stessa sensazione. E allora? Siamo forse gelosi per questo? Ma no: siamo tutti più amici.

Ecco, non credo che le donne possano apprezzare con lo stesso slancio il libro e l'amico Chuck. Per quanto possano conoscere bene il pisello (intorno al quale ruota tutto quanto) hanno con esso un rapporto diverso, mediato. La differenza è un po' quella tra un proprietario e una semplice utilizzatrice. Per dirla in altre parole, mi potete spiegare finché volete la fisica quantica ma non ci arriverò mai. Il rapporto di un uomo col sesso è la stessa cosa: può capirlo veramente soltanto un altro uomo.
Intendiamoci: io metto la donna sopra ogni altro essere vivente. Vorrei una donna per tutto: per amare ed essere amato, per ragionare, piangere ed essere consolato, per capire le cose, essere trasgressivo, per viaggiare, farmi insegnare e farmi dirigere, per ascoltare e imparare tutto quello che c'è da sapere nella vita.
Ma per ridere tanto, per sentirmi “penetrare” da un'altra anima ridens voglio un uomo, perché per quanto una donna possa essere brava, gli uomini lo fanno meglio.

domenica 13 settembre 2015

Ricalcolo


Svolta a destra, poi di nuovo a destra.
Io la ignoro ma non mi sento mica a posto. È possibile che mi dispiaccia? È soltanto una voce.
Alla rotonda, prendi la quarta uscita.
Che sarebbe come dire: torna indietro. Non lo farò, anzi tiro dritto. Sbaglia senza sapere di sbagliare. Ed è colpa mia. Non le ho detto che non voglio prendere l'autostrada. E non ho voglia di fermarmi per cercare l'opzione “evita pedaggi”. È nascosta in un menu difficile da trovare e ci perderei un sacco di tempo.
Esci dalla rotonda.
Hai ragione, ma vado dritto. Adesso sono certo che mi dispiace ignorarla. È un sentimento irrazionale, (tutti i sentimenti lo sono, ma questo di più) L'ho isolato: sembra faccia parte della famiglia dei sensi di colpa. Non è questione di sensibilità, probabilmente ho la corteccia cerebrale consumata come il battistrada dei miei pneumatici. O forse è davvero sensibilità. A me, a volte, danno fastidio delle cose che altri nemmeno considerano.
Tra trecento metri, alla rotonda, prendi la seconda uscita.
Mi sta dicendo di proseguire dritto e lo fa con un certo entusiasmo. Sembra che sorrida mentre lo dice. Tra l'altro, questa volta siamo perfino d'accordo. Ha cambiato idea, ma non perché abbia ceduto. Ha fatto i suoi calcoli. Evidentemente i chilometri da percorrere per tornare al casello precedente, sommati alla tratta autostradale tra i due caselli è superiore alla distanza che devo percorrere andando avanti fino al prossimo casello. È logica. La ammiro.
È solo una pausa, ma questo accordo mi porta un poco di sollievo. Come una pausa, appunto.
Prendi la seconda uscita.
È un piacere accontentarla. Mi ritorna in mente il tempo in cui pagavo i pedaggi con il bancomat, prima del Telepass. Anche allora era una voce sintetica a dirmi cosa dovevo fare. Terminato il pagamento mi diceva: “Arrivederci e grazie”. E io? Io rispondevo sempre. Con una battuta spiritosa se ero con qualcuno in macchina. Con un arrivederci se ero da solo. E quando guidava un altro e non diceva nulla? Mi trattenevo dal suggerire all'autista di rispondere, per non rendermi ridicolo. Intanto quella persona perdeva una piccola parte della mia considerazione. Purtroppo non è possibile perdere soltanto una piccola parte di considerazione. Quando cade, la stima cade tutta.
Proseguire per 4 chilometri.
Per un po' non dirà più nulla, ma tra quattro chilometri c'è una nuova entrata per l'autostrada.
Tra trecento metri, alla rotonda, prendi la prima uscita.
Eccoci. Io andrò dritto, naturalmente.
Esci dalla rotonda.
No. Non sono uscito dove diceva lei, adesso però c'è un'altra rotonda; perché non mi dice di percorrerla tutta e tornare indietro? Si è offesa, stancata, o semplicemente ignora l'esistenza di questa rotonda? O non si è accorta che ho disobbedito? Se fosse così, mi dispiacerebbe: non voglio fare le cose di nascosto.
Non parla più. Rallento. Del resto c'è il limite dei 50.
Ho appena passato un'altra rotonda e non ha fiatato! Perché? Le luci del casello sono ancora visibili dietro di noi. Questa rotonda non sembra nemmeno nuova. Deve sapere che c'è! Di qualcosa!
Dimmi di tornare indietro o di tenermi leggermente a destra. Di una di quelle cose che mi dici sempre.
Accosto. Una fila di auto ne approfitta per passare. Se sto fermo, certo non parla. Controllo che ci sia il segnale gps. Sembrerebbe di sì. E allora?
Riparto, forse se mi muovo, dirai qualcosa.

Dimmi qualunque cosa: questa volta obbedirò. Svolto a destra e poi di nuovo a destra? Tu dillo e io eseguo. Parlami, per favore. Dimmi che sai che sono qui, in un punto di questa statale nera. Dimmi che conosci le mie coordinate. Nel buio di questa notte senza stelle che mi possano orientare o dare un po' di conforto, dimmi che ho una rotta da seguire. Ti prego, dimmi che devo fare.

sabato 12 settembre 2015

Dalle nove alle nove

Sì che mi è piaciuto. No che non è bello.
La coerenza qui difetta perché il racconto è costruito intorno a un'idea notevole e originale (che costituisce la sua forza) ma la storia è proprio brutta. Il personaggio fa perdere la pazienza. Si comporta come uno dei Cesaroni, (non vorrei che sembrasse che me la tiro con le citazioni dotte) i quali rendono assurde e complicate situazioni che si potrebbero risolvere in modo molto semplice. Riesce impossibile immedesimarsi e questo è un guaio in un racconto. Riesco a immedesimarmi totalmente persino coi personaggi di Piperno, che sono delle vere merde. Qui, non ci riesco proprio, perché Demba è troppo coglione.
Però, alla fine si scopre che non è affatto così. C'era un perché. Si palesa l'idea di cui parlavo all'inizio. Allora perché non fare marcia indietro e rivedere il proprio giudizio? Perché il gioco è durato troppo e il sentimento anti Demba ormai è bello e consolidato. Sarebbe come ricredersi su Renzi, la Boschi e pensar bene del PD. Non so voi. A me pare impossibile.