domenica 11 dicembre 2016

Lottery

Sono quello che ha vinto 43 milioni, due anni fa.
I soldi me li hanno accreditati dopo 90 giorni. Praticamente non ho dormito per tre mesi: avevo paura che mi fregassero e intanto facevo progetti, più che altro definivo la lista dei capricci che mi sarei tolto.
Quando li ho avuti sul conto... beh, prima cosa mi sono comprato un impianto che starebbe bene in una discoteca, ma poi ho continuato a usare il vecchio ipod. Da sempre volevo una moto da strada. Tuttavia, nel momento in cui tutti quei soldi sono arrivati, non ci tenevo più. Così il plastico del trenino. Ora che posso avere la casa sul golfo, quella con i tre cipressi... uff... che sarà mai? Ho la stessa auto di prima e sto ancora in affitto.
Posso avere tutto e non ho voglia di niente. Mi si sono spenti i desideri, come i motori dell'aereo quando raggiunge il terminal, avete presente? Non è silenzio, è vuoto di rumore.
Non lavoro più e ho tutto il giorno per me. Ma non lo voglio. Sapete cosa desidero davvero? Ve lo dico? Che la notte arrivi presto.

Learning

Ci sono stati 8 funerali questa mattina. Purtroppo ne ho persi tre. Ma se anche fossi riuscito a seguirli tutti, non so. Non sto facendo progressi. Nutrivo qualche speranza nella sepoltura di un giovane. Da quel che ho capito se l'è preso una malattia di quelle rapide che non ci puoi fare niente.
I parenti erano smembrati dal dolore. Chi non singhiozzava aveva gli occhi gonfi e rossi. Il  padre era piegato come se fosse stato colpito da una spranga. La sorella... la sorella la dovevano sostenere le amiche. Soffrivano. Tanto, credo. Mi sono confuso tra di loro. Ho abbracciato i genitori, tutti, ma niente. Ho guardato, ho ascoltato. Ho persino annusato, ci credete? Ho sperato di trovare l’odore del dolore. Ma non  ho sentito nulla. Eppure devo! Devo! Devo! Se non imparo il dolore  come potrò conoscere l’amore?

Fiducia

Dopo 8 minuti di attesa, decide di passare sotto le sbarre. Evidentemente sono abbassate per errore. Oppure il convoglio si è fermato perché la nebbia è troppo fitta anche per i treni. 8 minuti che si sommano al suo ritardo. E se invece il treno fosse appena dietro il muro di nebbia? No, non è possibile: si sentirebbe lo schiocco dei fili che si frustano, le rotaie vibrerebbero. Ci sarebbe nell'aria la tensione che sempre precede il treno. A meno che la nebbia non assorba anche quella.
Un passo oltre la sbarra fradicia ed ecco apparire il primo binario, affogato nell'asfalto. Il secondo è soltanto il riflesso, vago, di fanali fumanti oltre la seconda sbarra. Perché rischiare? Perché lui certamente sarà già arrivato da lei. Non si fida di lui. E non si fida di lei.
Tre passi. Metà strada. Un rumore. Sì, i fili si sono toccati. Gelo nella schiena. Il cuore, prima stupido, adesso pazzo. Indietro o avanti? Lei. Lei è avanti, quindi avanti.
No, peccato, era indietro.

domenica 4 dicembre 2016

Sully

È un'americanata? Sì è un'americanata. Ma quanto sono bravi gli americani a fare le americanate? Sully è l'ultima in ordine di uscita: per capirci ti prende appena si spengono le luci in sala. 
È come quando ti lasci andare su uno scivolo ai giardini (provate almeno a ricordarvi com'era) Non è che ci si può fermare a metà. Giù fino a quando i piedini toccano la buca nella terra.
Uguale, qui, il volo Cactus 1549 della American Airways ti imbarca già dalla prima scena e poi scivola sull'aria a motori spenti, fino ad ammarare nel fiume Hudson 208 secondi dopo, il 15 gennaio del 2009.
È una storia vera, ricostruita da Clint Eastwood, regista, e Tom Hanks protagonista. Direi che nel cast c'è anche la città di New York stretta nel gelo dell'inverno.
Check list al decollo:
Azione? Ok
Emozione? Ok
Indignazione? Ok
Tensione? Full
Fin troppa tensione, tanto che ieri sera, al cinema Ambra2 di Valperga mi chiedevo: "Ma perché mi sto strappando i peli della barba come un deficiente?"
Chiedo scusa per un entusiasmo che normalmente tendo a nascondere, ma quando un lavoro creativo è fatto bene, l'effetto è questo.
Se ieri sera non avete potuto, fate in tempo anche oggi, usciti dal seggio. Io, intanto, per un po' non prenderò aerei.

venerdì 25 novembre 2016

Tre camere a Manhattan

Stava filando dritto verso la massima valutazione perché non meritava di meno. Ma, arrivato al finale, ha ceduto. Non è la prima volta che lo fa. Simenon racconta storie bellissime, dipinge malinconia e solitudine in modo superbo (molti lettori ci vanno a nozze con queste cose) inserisce degli specchi nelle pagine in modo che ciascuno ci trovi se stesso, ma verso la fine dei suoi libri smette di riflettere.
Così è ne “La casa sul canale” e ne “La Marie del porto” dove le rispettive protagoniste quando mancano poche pagine al retro copertina prendono decisioni incomprensibili, prive di coerenza. Qui è un po' diverso. In “Tre camere a Manhattan” François più che altro difetta di logica. Non ragiona: sda.
Attenzione. Sto parlando di un romanzo che mi è piaciuto tantissimo, di quelli che mentre li leggi la sera ti dici: “ma che bello!” e la pagina dopo lo ripeti: "che bello! che bello!" finché una voce dall'altra parte del letto protesta: "basta, domani si lavora! Qui vogliamo dormire!"
L'ambientazione, così lontana dalle nebbie europee, dai bar nei porti, dalle chiatte che risalgono i fiumi, non fa rimpiangere nulla dei Simenon classici. La quinta strada, percorsa e attraversata mille volte, è l'alterego di certe camere di altri romanzi. Ciò che manca è un finale semplice e verosimile.
Ecco, sembra che Simenon conduca i suoi personaggi fino al penultimo capitolo, poi si fermi e li lasci finire da Bob Dylan pensando che magari questi faccia cose sensate. Lo stesso errore che fece mio cugino quando mi insegnò ad andare in bici, Mi teneva per la sella e poi ad un trattò mi lanciò nella vita. E ancora adesso la gente mi chiede perché nelle foto di quell'epoca non abbia i denti.

martedì 8 novembre 2016

La regola dell'amico

Dico subito che è andata malissimo.
Sale sulla Panda e la prima cosa che dice è:
- La barba ti sta male -
Cioè, questo non mi vede da un anno, la macchina con cui si viaggia, come sempre è la mia e la prima cosa che mi dice è “la barba ti sta male”? A parte che non mi sta male, vorrei sapere: ma sono l'unico ad avere un amico immaginario stronzo?
Per tutta la risalita in auto, invece di chiacchierare, si lamenta perché pensava di attaccare il suo i-pod all'impianto della Panda ma è così vecchio che al massimo accetta nastri. Poiché non riesce a sentire quello che vuole, ogni tanto canticchia. Sta attraversando un periodo revival perché continua a nominare e canticchiare Max Pezzali. Va beh, arriviamo a Forzo e scendiamo.
Il sole, il cielo e i colori del vallone fanno dimenticare l'inizio difficile. Anche la temperatura è mite. Fino a Boschietto parliamo poco perché il sentiero è stretto, non si riesce a camminare affiancati. E io sul momento non mi rendo conto che è una grande fortuna, perché appena finisce lo strappo si mette a cantare:
- … Quasi esplodo quando mi dici dai: vieni su da me che tanto non ci sono i miei, io mi fermo a prendere una bottiglia perché voglio festeggiare questa figata con te anche se...”-
All'inizio rido, ma poiché la canta tutta non rido più.
Per fortuna dopo Boschettiera ricomincia la salita secca e il fiato gli serve per altre cose.
Appena fuori dal bosco, nel piano di Lavina, ci aspetta un vento polare che ci fa a fettine. Attraversiamo il lungo tratto in falsopiano, tra pietre ed erba secca. Ogni tanto sento qualche strofa che riconosco “È un po' come nel calcio: è la dura legge del gol”. Per fortuna il sentiero si impenna dopo un alpeggio e lui smette. Invece il vento rinforza e si raffredda ulteriormente. Siamo un bel po' sotto zero. Ci mettiamo addosso tutto quel che abbiamo e in quel momento, rovistando nello zaino per prendere la giaccavento, l'amico immaginario si accorge e mi comunica di aver dimenticato il sacco coi panini.
- Problemino - dico io.
- Dividiamo quel che c'è. - dice lui.
- Dovrei dirlo io. - ribatto.
- Dillo tu. -
Sono senza parole. Ha ragione lui, naturalmente, si divide quel che c'è, ma mi rompe il cazzo. È sempre così. Ogni volta! Dividerei con una marmotta se solo potessi, darei tutto ai camosci, ma le marmotte sono in letargo e i camosci latitano. Comunque è presto per mangiare, saliamo ancora. Dovremmo arrivare al bivacco Davito, ma la vedo male: ghiaccio e neve sul sentiero nei versanti all'ombra, freddo porco, vento, gambe molli e lui che canta.
Attraversiamo un ruscello e ci fermiamo a ragionare.
- Che facciamo? - domando.
- Decidi tu. - Dice.
- Ok, andiamo avanti fino a mezzogiorno, se per quell'ora siamo al Davito bene, se no mangiamo dove siamo e torniamo giù. -
- No, preferisco mangiare già a Boschettiera. - dice lui.
- Allora perché mi dici decidi tu? -
Lui risponde con un'altra domanda:
- Perché hai un cerotto in faccia? -
Al che mi girano proprio tanto.
- Perché? Mi sta male? -
Si riparte, ma arrivati ad un alpeggio a quota 2030 decidiamo che ci basta così. Mancherebbe una
mezz'ora al Davito, ma con il ghiaccio che c'è in terra, cadere è un attimo. Cioè se cade lui... ma se cado e mi faccio male io sono cazzi. Dietro front.
In un'ora e un quarto siamo in salvo a Boschettiera dove occupiamo abusivamente il giardino di una delle bellissime baite rimesse a posto. Dividiamo la bellezza di due panini e una scatoletta di Insalatissima Rio mare, poi lui si ficca gli auricolari chiude gli occhi e sparisce nei suoi ascolti. Tra l'altro il volume è altissimo e sento tutto.
- Io non capisco che gli fai, quando arrivi in mezzo a noi. Tutti i miei amici si dileguano... - dice Pezzali e io penso a quanto sia vero se riferito all'amico immaginario.
- La regola dell'amico non sbaglia mai -
Anche questa è sacrosanta: la regola dell'amico immaginario è: scrocca benzina, scrocca pranzo, scrocca tutto.
Dopo un po' apre gli occhi, vede che ho aperto il libro che mi sono portato dietro (tra l'altro devo girare le pagine con i guanti di pail che fa freddissimo) e mi fa:
- Che fai, leggi? -
- Non devo? Il libro mi sta male? -
- No, ma se leggi non possiamo parlare. -
- Spegni quel cazzo di i-pod allora se vuoi parlare. -
- Non ti piace Pezzali? -
- … -
- Non so mica perché ti voglio bene. - dice.
- Perché sai che ho il thermos con il caffè caldo, ecco perché - Lo penso ma non lo dico.
Sta aspettando solo quello. Ha mangiato il mio panino con l'insalata russa e ben più di metà della mia Insalatissima farro riso e tonno e adesso giustamente aspetta il caffè.
È caldo perché l'ho versato bollente questa mattina. Non ha il coraggio di chiedere, il faccia di merda sa che lo porto sempre e infatti mi tiene d'occhio, guarda il mio zaino. Si domanda perché non lo caccio fuori.
E io che faccio? Rinuncio al calore, alla carica e al piacere del caffè pur di dargli un dispiacere. Ecco che faccio.
- Andiamo? - gli chiedo.
Mi guarda deluso, poi, rassegnato, fa sì con la testa. È proprio abbattuto, infreddolito. Vorrebbe il caffè.
Dio quanto godo!
Scendiamo.
- Come mai, ma chi sarai? Per fare questo a me? Notti intere ad aspettarti, ad aspettare te...-
Arriviamo alla Panda e poi giù lungo la valle.
Mi fermo per farlo scendere. Non mi aspetto che mi offra qualcosa per la benzina e infatti non lo fa. Ci salutiamo.
Riparto. Il bilancio della gita è magro: meta non raggiunta, animali avvistati zero, mangiato pochissimo, preso tantissimo freddo e ho i coglioni fracassati.
Mi vien da dire che la prossima volta piuttosto andrò da solo, ma so già che ci ricascherò.

domenica 9 ottobre 2016

Scozia 2016

Sesto viaggio in Scozia. Avrei dovuto scriverne prima, adesso sarebbe un casino ripescare tutti i ricordi e metterli giù con onestà. Cominciamo da questo 2016 poi si vedrà. I testi che seguono e le immagini sono un semplice e rapido copia e incolla da facebook.
2 ottobre
dunkel abazia
Dunkel, parco
Primo giorno di viaggio. La poliziotta dell'aeroporto di Edimburgo esaminando la mia carta di identità mi chiede a cosa corrisponde 'luglio'. "Seven" le rispondo. Lei allora rilancia: "july?" "Yes!" Allora, visto che sono nato il 4 mi viene da aggiungere: "there is a famous movie: born the july four. With Tom cruise...". Lei mi guarda e mi sento incoraggiato:" but he (Tom) was born the three. I was born the four!!!" Da come mi guarda capisco che non gliene frega un cazzo. La macchina della Hertz è super tecnologica. Trovo subito il dispositivo per limitare la velocità ai 60 ma non trovo più il modo di toglierlo. E non trovo nemmeno il comando per accendere le luci e sì che ce ne sarebbe bisogno. Va beh dopo metto foto di oggi. Seguiteci ma non troppo da vicino perché ci fermiamo spesso a fare pipì e foto. E poi abbiamo le luci spente.

secondo giorno
Oggi tempo asciutto ma terreno fangoso, buoni propositi ma pigrizia vincente, sole presente ma luce tiepida. La birra però è in frigo.


Aultbea
 terzo giorno
Sole - pioggia 0 a 0. In compenso ho scoperto tre comandi nuovi nell'auto super tecnologica: lo scalda sedile, lo scalda volante e un piccolo bottone sul padiglione. L'ho premuto ed è partita una chiamata automatica di soccorso al 911. Panico. Quelli rispondono subito! "Can I Help you?" In viva voce! "No cazzo, no!" Ora io parlo bene l'inglese, ma non capisco una beata minchia quando parlano loro, per di più al telefono e credi di aver acceso una lucina non di aver scatenato un allarme nucleare. Ho sentito solo la parola helicopter al che me la sono fatta davvero sotto. Ho spento tutto, messo in moto e sono scappato. Intanto i comandi per accendere i fari non li ho ancora trovati, ma basta arrivare a casa prima che faccia buio. Nelle foto, casa, haggis e fish and chips.

quarto giorno

Stanotte ho sognato che dovevo fare benzina con la macchina super tecnologica della Hertz. Per aprire il tappo dovevo scaricare un'app ma dovevo avere come minimo iOS 8.0 mentre il mio iPhone arriva al massimo al 6meno meno Ero angosciato. L'unica soluzione per fare il pieno sarebbe stata comprare un nuovo telefono. Per fortuna era un incubo: la macchina super tecnologica ha un tappo benzina che non ha nemmeno la serratura. Trovato il comando luci!!! Ho anche scoperto oggi che ha la sesta marcia.
Oggi abbiamo avuto cool come si dice qui: un sole così tutto il giorno, per cui, niente avarizia di foto.

 Il testo continua dpo le foto.
Razza highlander

lago a poche miglia da Poolewe

Shieldaig
Quinto giorno
Premesso che scrivo dopo aver bevuto la terza An teallach Ale e che quello che pubblico non potrà essere usato contro di me, oggi la macchina super tecnologica ha fatto poco. Il lavoro lo hanno fatto i poco tecnologici piedi: 21 km divisi in due gite. Le foto testimoniano che non c'era il sole, c'è n'erano due! Non sono sicuro che la birra sia la terza o la quarta. Cambia qualcosa?


Sesto giorno
Restituita intatta lamacchina super tecnologica ala hertz. È ogni volta come rinascere perché essendo scozzesi non facciamo mai l'assicirazione casco e rischiamo 900 sterline ogni viaggio. Oggi abbiamo preso un po' di pioggia verso sera. Solo 76 gocce ma bagnate. Con la multipla ho due scelte: lo spalma insetti intermittente o il veloce spalmature di cacche di uccello. Invece la macchina della hertz mi ha stupito ancora una volta. Alla terza goccia i tergicristalli sono partiti e hanno sterminato le gocce una a una, poi si sono messo a riposo. Meno male perché non avrei saputo trovare i comandi.


 Pesci e scozzesi
 Vorrei parlare degli scozzesi e dei salmoni. Gli scozzesi sono squisiti (anche i salmoni per la verità) ma gli scozzesi di più. Qui, la maggior parte delle strade è "single track", significa che passa una macchina per volta. In queste strade single track ci sono tantissimi passing, che sono nient'altro che piazzole più o meno asfaltate, più o meno sul ciglio del burrone dove chi arriva primo si ferma per lasciar passare l'altro. E gli scozzesi cosa fanno? Cercano sempre di essere loro a fermarsi per lasciare il passo e quando tu passi, ti ringraziano ancora! Come non amarli?
Ma parliamo dei salmoni. Vedendo diversi allevamenti nelle acque interne ho pensato molto ai salmoni, che sono pesci nostalgici. Si trovano dall'altra parte del mondo e all'improvviso gli viene questa nostalgia di casa. Partono di corsa, attraversano gli oceani, risalgono i fiumi e i torrenti per tornare dove sono nati. Lì, trovano uova e uova in attesa di fecondazione. I salmoni non trombano (perché non trombano, credetemi) fecondano le cazzo di uova e poi muoiono. Io mi sento molto salmone. Non nuoto, ma mi capita spessissimo di essere nostalgico. Basta un niente. Sento "C'era un ragazzo che come me..." e mi viene da correre su a Ceresole Reale dove ho passato un'infanzia forse troppo felice. È un guaio essere felici da bambini. A volte lo faccio davvero. Salgo a Ceresole spinto dalla nostalgia, non trombo, e ricerco i luoghi che mi hanno visto allevare girini, far navigare pezzi di legno nel lago, accendere focherelli tra le pietre.
Se c'è un po' di nebbia, meglio. Ecco, i salmoni mi fanno un po' questo effetto. 







sabato 1 ottobre 2016

Una pistola come la tua

Quinto episodio della serie de “Les italiens” che conferma quanto i migliori fossero il primo e il secondo. Al quinto e ultimo posto metto il terzo, mentre al quarto ci sta il quinto, di conseguenza, il quarto lo classificherei terzo. Primo forse il secondo e secondo il primo. Se non fosse chiaro, posso fare uno schemino, ma se mi ascoltate, vi leggete i primi due e vi fermate lì. Vi fermate anche se è difficile non seguire le sorti degli eroi di cui ci si “innamora”. A me è capitato con Harry Hole, con l'ispettore Rebus e con Frank Bascombe, per non parlare di Harry Potter. Qualcuno si è affezionato addirittura a Renzo Cremona. Io ammetto di essermi lasciato prendere anche dal commissario Mordenti e dai suoi flic della brigata criminale di Parigi. (Non mai e non certo da Zara Bosdaves, l'altro personaggio ideato da Pandiani). Cosa dire in particolare di questo “Una pistola come la tua” quinto episodio? Che è certamente meglio del terzo ma non del quarto, per cui è quarto.

Café Society

 

Uguale! Woody Allen dirige Jesse Eisenberg guardandosi allo specchio. Eisenberg gli assomiglia persino un po': ebreo come lui, imbranato come lui, si muove e recita come se fosse lui: stessa semi balbuzie, frasi brevi, nervose, incatenate come in un cruciverba.
Insomma, con il pretesto di raccontare una storia, Allen mette in scena se stesso.
Chi si è occupato dei costumi di questo film ha come obiettivo l'oscar. Idem per la fotografia e il trucco: gli anni 30 erano esattamente quelli, erano così! “Ma tu c'eri?” potrebbero chiedermi. No, ma siccome me li immagino con quelle tinte, quelle facce, quello swing, dico che erano quelli.
Visto che il testo non mi decolla, faccio una cosa che non ho mai fatto: rinuncio a essere presuntuoso, vi mando al cinema e vi rimando al commento di Marzia Gandolfi (non so chi sia ma secondo me c'azzecca)  http://www.mymovies.it/film/2016/cafesociety/

martedì 30 agosto 2016

Il ritorno di Coniglio di John Updike

Quando avevo 20 anni andai in vacanza in auto con tre amici. Appena passato il confine italiano al Monginevro, sulle fiancate della Ritmo grigia avevamo incollato con lettere fosforescenti arancioni, alte 15 centimetri, il nostro obiettivo: Torino - Dakkar.
Presuntuosissimi. Con la Ritmo poi. :)
Arrivati in Marocco, trascorremmo tre giorni nel porto di Casablanca, (immaginate che figata) chiedendo un passaggio in Senegal a tutti i mercantili ormeggiati in banchina, perché di passare il “Sahara Spagnolo” in auto non c'era modo: strade impraticabili e soprattutto c'erano quelli de “il Polisario” che rapinavano o rapivano tutti quelli che passavano.
Conoscemmo così il comandante di un peschereccio italiano, sequestrato dalle autorità locali e bloccato lì da due mesi per aver pescato nelle loro acque. Il comandante del Mascaretti primo di San Benedetto del Tronto ci disse: “Perché Dakkar? È un posto di merda, andate alle Canarie”.
E noi cosa facemmo? Ringraziammo per il caffè e andammo alle Canarie. Tre giorni a vomitare noia in una cabina di ultima classe, afosa e sotto il livello di
galleggiamento. A prua. Ogni ondata scariche di panico.
C'entra con il libro? Sì, perché è successa la stessa cosa. Avevo appena aperto “L'angioletto” di Simenon con tutte le intenzioni di gustarmelo, quando un altro navigato comandante, con un equipaggio di centinaia di volumi nella sua libreria, uno che stimo insomma, mi ha detto : leggi “Il ritorno di Coniglio”. E io cosa ho fatto? Ho mollato Simenon e l'ho letto. Grazie! Libro dell'anno 2016.

sabato 18 giugno 2016

Julieta

Per prepararvi bene alla visione di Julieta, (pronuncia Qulieta) vi consiglio di fare prima qualcosa di cui vi pentirete, così potete entrare in sala pregustando un bel senso di colpa. Il film ci sguazza nei sensi di colpa e voi vi troverete a vostro agio.
L'ultimo Almodovar che avevo visto era stato “Gli amanti passeggeri” una puttanata totale.
Con Qulieta, se non altro, Almodovar torna a fare Almodovar (come direbbe Renzi) anche se il livello di “Donne sull'orlo di una crisi di nervi”, “Tutto su mia madre” e “Parla con lei” se lo scorda.
Qulieta com'è? All'inizio direi maluccio. Il regista cura così poco la recitazione e il direttore del doppiaggio cura così poco la qualità del doppiaggio che viene la nausea, come quando leggi sul cellulare in auto. Ma la storia c'è e dopo poco prende e a come recitano gli attori, non pensi più. Segnalo un filo di omosessualità che non guasta mai e che nei film di Almodovar viene prima della pellicola, una buona tensione per una vicenda che si delinea poco per volta e un finale che va bene così. Il film finisce prima di scadere. Come quelle canzoni che invece di ripetere il rif in dissolvenza, chiudono con un buon giro armonico. Insomma, voto? Tra il 6 e il 7, se non fosse che ad un tratto appare Adriana Ugarte (anche io non la conoscevo, è l'attrice che interpreta Qulieta da giovane) e in un paio di scene di vedono pure le tette. E che tette! Insomma 10.

sabato 7 maggio 2016

Truman, un vero amico è per sempre.

Se aveste l'ulcera, prendereste due aspirine a stomaco vuoto? E se foste già di pessimo umore, andreste a vedere un film che parla di un uomo che sta morendo di cancro e del suo amico che è venuto a salutarlo? Due ore di commiato? Ecco. A me piace molto sbagliare, ma quello di ieri sera non è stato un errore, è stato un suicidio. Il film non è brutto, ma ha il peso atomico del Torio, la densità del Piombo e il sapore del Bactrin forte. Se, quando fumate, usaste cartine di amianto patireste conseguenze meno devastanti della visione di “Truman, un vero amico è per sempre”. Per la prima volta nella mia carriera di spettatore ho sperato che ci fosse un intervallo pop corn o, meglio ancora, che scoppiasse un incendio in sala, che l'incendio non ha colesterolo. Potevo uscire prima della fine, è vero, tanto più che ero anche da solo, ma dovevo far venire mezzanotte e aspettare nella Multipla parlando al contachilometri non sarebbe stato meno triste.
Io non so perché un regista deve prendere in considerazione l'idea di girare un film così tragico. Questo regista si chiama Cesc Gay. Me lo segno, caso mai dovessi andare ancora al cinema nella vita. Consiglio la visione a chi volesse farla finita e non avesse il coraggio dell'ultimo passo. Portatevi i barbiturici direttamente in sala. Io, purtroppo, li avevo lasciati a casa.

giovedì 28 aprile 2016

Parcheggio di cortesia

Interrompo un bel silenzio, per il quale nessuno si è lamentato, per scrivere un post che nessuno mi ha chiesto. Oggi sono andato al Gigante come quasi tutti i giorni. Ho parcheggiato nel sotterraneo, come sempre. E come sempre, passando accanto alla fila di posti riservati a donne in gravidanza e/o con bambini piccoli, mi sono incazzato. Sono 8 – 10 posti contrassegnati da strisce rosa in terra e da un cartello appeso in alto. Si trovano vicini agli ascensori e al tappeto mobile che conducono al piano di sopra e alla piattaforma commerciale. Lo scopo è evidente: agevolare un minimo la vita di chi si porta appresso una pancia o si trascina un bambino piccolo.
In un paese in cui il tasso di natalità è il più basso del mondo, i 10 posti riservati alle donne incinta all'urban Center di Rivarolo alle 11 sono tutti occupati. Ogni tanto, non più di una volta a semestre, quando mi gira, attacco briga.
La donna che oggi sta scaricando il carrello nel baule della sua 500 sta fumando (vietato nel garage) e non sembra incinta.
- Auguri per la gravidanza – le dico.
Mi guarda senza capire per mezzo secondo. Nel mezzo secondo successivo, la mano con la sigaretta fa il tipico gesto italiano che vuol dire: “cazzo vuoi”?
- Ah scusi, pensavo fosse in gravidanza - dico.
Mi rendo conto di due cose, forse più di due:
a) non ha capito la provocazione o, se ha capito, la cosa non la sfiora.
b) io passo per un deficiente, ma non mi sento tale. Più che altro mi sento impotente. Sapete quante volte ho già esposto il problema alla Direzione del Gigante? Mi hannno detto che il garage fa parte del centro commerciale e non del supermercato. È un po' come dire che il condomino X, titolare di 15 dei 18 alloggi del condominio Y non ha nessuna responsabilità se i marciapiedi sono sconnessi. Come se in assemblea
c) la mia scena non serve a niente.
Finita la spesa, scendo, stessa situazione di prima. Questa volta è un uomo, grosso ma basso, più vecchio di me, ma affatto disabile. Sta salendo, anche lui su una 500. Che sia - escluso l'amico Vittorio naturalmente - l'auto degli stronzi?
Evidentemente non posso fare la stessa battuta di prima. Allora gli chiedo semplicemente, con tatto e delicatezza e persino con un sorriso, se ha visto il cartello.
Lui non mi risponde. Ha sentito, ha capito, semplicemente non mi risponde. Non mi guarda nemmeno, sono trasparente come una merda di falena.
So cosa pensa lui e cosa pensate voi: “ma qualcuno ti ha eletto paladino delle donne? Pensi di essere una bella persona?”
No, no, no. Non è come pensate. L'incazzatura è solo in parte per le donne. È soprattutto una questione di regole. Se io non metto la macchina lì, se non ce la mettono le persone per bene, trattandosi di posti riservati a una categoria precisa, perché cazzo devi metterla tu? Soprattutto quando il resto del parcheggio è vuoto a metà. Non è sabato e non è domenica quando il supermercato è pieno (sulle aperture domenicali ne parliamo un'altra volta). Ci sono posti liberi a sei, sette passi da quelli riservati. Se non rispetti regole così facili da rispettare, cosa non fai nel resto della vita?
Non sto parlando di morale personale, di etica o educazione, sto parlando di regole, senso civico o senso dello Stato, quello che hanno, per esempio, i tedeschi. Qui manca e al Gigante non è mai sugli scaffali. Gli italiani lo confondono con la patria, che è quella per la quale tifano davanti alla televisione.
Oggi non mi è venuto in mente, ma la prossima volta, domani o quando sarà, farò qualche foto con il telefono e ve le mostrerò, alla faccia della privacy: che se la mettano nel culo.
di condominio non avesse nessun potere.
c) la mia scena non serve a niente.
Finita la spesa, scendo, stessa situazione di prima. Questa volta è un uomo, grosso ma basso, più vecchio di me, ma affatto disabile. Sta salendo, anche lui su una 500. Che sia - escluso l'amico Vittorio naturalmente - l'auto degli stronzi?
Evidentemente non posso fare la stessa battuta di prima. Allora gli chiedo semplicemente, con tatto e delicatezza e persino con un sorriso, se ha visto il cartello.
Lui non mi risponde. Ha sentito, ha capito, semplicemente non mi risponde. Non mi guarda nemmeno, sono trasparente come una merda di falena.
So cosa pensa lui e cosa pensate voi: “ma qualcuno ti ha eletto paladino delle donne? Pensi di essere una bella persona?”
No, no, no. Non è come pensate. L'incazzatura è solo in parte per le donne. È soprattutto una questione di regole. Se io non metto la macchina lì, se non ce la mettono le persone per bene, trattandosi di posti riservati a una categoria precisa, perché cazzo devi metterla tu? Soprattutto quando il resto del parcheggio è vuoto a metà. Non è sabato e non è domenica quando il supermercato è pieno (sulle aperture domenicali ne parliamo un'altra volta). Ci sono posti liberi a sei, sette passi da quelli riservati. Se non rispetti regole così facili da rispettare, cosa non fai nel resto della vita?
Non sto parlando di morale personale, di etica o educazione, sto parlando di regole, senso civico o senso dello Stato, quello che hanno, per esempio, i tedeschi. Qui manca e al Gigante non è mai sugli scaffali. Gli italiani lo confondono con la patria, che è quella per la quale tifano davanti alla televisione.
Oggi non mi è venuto in mente, ma la prossima volta, domani o quando sarà, farò qualche foto con il telefono e ve le mostrerò, alla faccia della privacy: che se la mettano nel culo.

mercoledì 13 aprile 2016

La scopa del sistema

Mi è piaciuto? Sì.
Perché? Non lo so.
Ha molte pagine inutili, molte pagine incomprensibili, molte difficili, molte divertenti e molte geniali.
Ha molte pagine.
L'ho capito? Mica tanto. Eppure, nonostante una trama che non saprei riportare e personaggi che non saprei collocare, sono contento di averlo letto. È+ un po' come dire che non è fondamentale comprendere qualcosa per apprezzarlo. Del resto, a parte “Michelle”, che non offre difficoltà, perché è un po' come la stele di Roseta, con le frasi in francese e in inglese (Sont des mots qui vont tres bien ensemble... these are words that go together well) a parte “Michelle”, dicevo, non capisco i testi delle canzoni in inglese. Eppure la amo: ho la casa piena di musica anglofona, con raccoglitori di CD, giga di mp3 sul computer e in cantina ci sono scatole di C90, probabilmente smagnetizzate.
Con le arti figurative è lo stesso: non sono in grado di spiegare cosa volesse dire un De Chirico in certe sue opere, eppure starei settimane, in piedi, a osservarle.
Viene un po' fuori la differenza che esiste tra un romanzo e un noir.
Se alla fine di un noir o di un thriller non ho capito chi era l'assassino o come hanno fatto a incastrarlo, so di aver perso tempo e sonno. In un romanzo come questo invece, posso accontentarmi di stare a guardare senza essere obbligato a sapere, perché c'è della bellezza.
Mettiamola così: “La scopa del sistema” mi è piaciuto, non posso premiarlo troppo perché oggettivamente poteva aiutarmi un pochino. Ha il pregio di avermi sbloccato il livello successivo che si chiama “Infinite Jest”. Ho già cominciato a cercarlo, usato, nelle bancarelle di via Cernaia, ma non ho fretta. Adesso vorrei leggere qualcosa di diverso (leggi: facile) che mi ricarichi l'autostima perduta, che mi rapisca e mi porti da qualche parte. Qualcosa di leggero, che non serva a nulla se non a conciliarmi il sonno, la sera. La scelta è fin troppo ampia.

sabato 19 marzo 2016

Susanna, Michela e Marina

Chiedeva memoria. Diceva di non averne abbastanza. Mi domandava spazio, altrimenti non avrebbe potuto - avvertiva - installare certi aggiornamenti. E così, infastidito dai continui avvisi che si succedevano con la stessa ottusa insistenza di certi operatori di call center, un giorno mi sono deciso e l'ho accontentato. Svuota qui, cancella là. In breve mi sono trovato a premere con sadica pressione su questo e su quello. Cancellare? Sì! Siete sicuri? Sì!
È andata così: preda di un orgasmo crescente, cancellavo, svuotavo, distruggevo e intanto a voce alta esprimevo la mia frustrazione: “Va bene adesso? Hai abbastanza spazio? Ne vuoi ancora?”
No, non gli bastava: nonostante la strage perpetrata, per i nuovi aggiornamenti lo spazio non bastava ancora e certe applicazioni non potevano funzionare.
Sconsolato e rassegnato, ho riconquistato un poco di calma immaginando di rivolgermi all'assistenza. Ma in quel momento un piccolo dubbio si è mostrato. L'ho visto solo con la coda dell'occhio, ma l'ho visto. Ho pensato per un istante di aver fatto troppo, di aver esagerato. Come un chirurgo che rivivendo nella mente stanca l'operazione appena conclusa, si rende conto di aver inciso troppo profondamente e teme di aver arrecato un danno al paziente. Mi sono quindi rivisto in quel minuto di follia mentre eliminavo delle icone che, come unica colpa, ostentavano una pingue dimensione. Tra quelle, anche una il cui nome, così semplice e immediato, avrebbe dovuto farmi riflettere: “contatti”.
Ne occupava di spazio quell'applicazione! Un mega e forse più! Birra fresca per la sete di memoria del misero telefono. Però quel nome... il dubbio cresceva e io lo conoscevo bene. È quello che mi ronza intorno con pigri cerchi quando so - non ancora coscientemente - di aver fatto qualcosa di sbagliato. Io lo vedo così, come un grumo che descrive delle orbite, che definirei basse. Per capirci, se io sono in piedi, il pensiero mi nuota intorno, al largo, all'altezza delle caviglie. Quando si trova dietro di me non lo vedo e non lo sento, ma quando passa davanti e le orbite si fanno più strette e più alte, è impossibile non notarlo. E non molla, non molla mai. Nessuno molla mai: non molla il telefono, non mollano i call center, non mollano i sensi di colpa: solo io cedo. Cedo e alla fine lo prendo in considerazione.
Il dubbio di aver sbagliato. Perché poi chiamarlo dubbio quando ormai è una certezza? Certo che non dovevo eliminarlo quel programma che si chiamava “contatti”. Come è potuto venirmi in mente? Perché non ho contato fino a tre, non dico dieci, ma almeno fino a tre prima di premere ELIMINA? Lo sapevo quello che stavo facendo. Quindi? Adesso non resta che verificare, ma c'è poco da scoprire.
Apro la rubrica e scopro con un sollievo che non credevo possibile che i nomi e i numeri ci sono ancora! Mi sembra di aver ricevuto la grazia quando il boia aveva già posato la mano sulla leva che alimenta la sedia elettrica. Non li ho persi i miei numeri di telefono! Sono ancora lì!
Ma il sollievo è effimero e dura pochi secondi. I nomi rimasti sono forse dieci, dodici a dir tanto e sono quelli che si erano nascosti, chissà perché, in qualche memoria secondaria.
Saranno stati tre o quattrocento i miei contatti e non ci sono più.
Va bene. Ce li faremo ridare. Amici, conoscenti, parenti... tramite le email li richiederò e in qualche settimana avrò ricostruito l'archivio. È un danno più che altro per il morale. Una spia che si è accesa per avvertirmi che il mio equilibrio è in riserva.
Improvvisamente, però, mi rendo conto che, insieme ai numeri davvero utili, che saranno stati al massimo una cinquantina, si sono estinti anche plotoni di sconosciuti. “Madre Bu” Ma chi era “Madre Bu”? E “Piero Castel”? "Castel” sta per Castellamonte? Conosco un Piero a Castellamonte? Io non riconosco i volti delle persone, figuriamoci se ricordo i nomi. Non tutto è male, quindi: la cancellazione ha igienizzato la memoria del telefono e anche la mia.
C'erano però dei nomi, che conoscevo benissimo, che mi dispiace aver perso, nonostante fossero i più inutili di tutti. Quei numeri non li avrei mai utilizzati, né avrei mai ricevuto chiamate da loro. Erano quelli di Susanna, Michela e Marina. Li ho conservati per anni e sono sopravvissuti a revisioni e cambi di telefono. Si presentavano ogni tanto, in occasione di qualche ricerca. Digitavo “Su” e spuntava Susanna. Non era lei che cercavo, ma mi faceva piacere vederla apparire tra i suggerimenti, visto che sui sentieri della Val Soana non l'avrei più incontrata. Digitavo “M” e magari saltavano fuori Michela e Marina.
Perché tenere nella memoria del telefono nomi e numeri di un'amica e di due carissime cugine che non ci sono più?
Io non li avrei mai cancellati. È stato un dito isterico a recidere, in vece mia, quel legame.
Un amico, al quale ho raccontato questa storia, evidentemente ascoltandomi con stoica attenzione, nonostante la noia che l'aneddoto porta con sé, alla fine mi ha detto: “le hai lasciate andare”.
Ho sorriso con lui, ringraziandolo per il pensiero, che è moto bello. Mi piace pensare che sia così. In realtà non è vero che le ho lasciate andare: Susanna, Marina e Michela continuano a essere con me, tanto quanto prima, anche se non ci telefoniamo mai.

martedì 8 marzo 2016

perfetti sconosciuti

Orgoglioso di essere italiano? Posso arrivare a dire che mi vergogno un po' meno di un paio di anni fa, ma da qui a ostentare la mia cittadinanza c'è un abisso. Eppure, uscendo dal cinema di Candelo (Biella) dove ho visto “Perfetti sconosciuti”, il primo pensiero è stato: “come sarebbe bello se all'estero vedessero il film e ci giudicassero per questo o per opere di intelligenza, arte e cultura come questa”. Vorrei che l'ammirazione che io sento per gli autori di questo film (tra poco entrerò nei dettagli) potesse arrivare, appunto, anche dall'estero, che so, dalla Germania, dalla Francia, dalla Gran Bretagna o dalla Svezia e fosse distribuita, oltre che agli autori, anche a tutti gli italiani e quindi, per osmosi, anche a me, che sono cittadino come Paolo Genovese, il regista. O come Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello. Questi italiani sono i co-autori, che hanno saputo cucire dialoghi come se ne sentono raramente nel corso di una vita da spettatore. Le battute, la mimica, la scelta delle parole e delle pause, ti apparecchiano un posto a tavola, ti invitano in mezzo a un gruppo di amici seduti per la cena. L'effetto coinvolgente è tale che viene spontaneo pensare a delle risposte, a delle battute ironiche e divertenti per contribuire. Ma non c'è solo questo, c'è un montaggio chirurgico: stacchi e inquadrature creano un ritmo che prende e porta via. Non parlo degli attori perché non voglio esagerare, non parlo della trama perché non è mia abitudine. Mi basta testimoniare divertimento, intelligenza e bellezza. Insomma si può andarne fieri.

sabato 23 gennaio 2016

Carol

Io non ho nulla contro le lesbiche. Perché mai dovrei?  Dirò di più: se rinasco, voglio rinascere bambina, ragazza, donna e sicuramente lesbica. Anzi, faccio coming out: io sono già una lesbica, purtroppo imprigionata nel corpo sbagliato.
Ora sapete con che occhi ho visto Carol ieri sera a Torino.
Le due donne si conoscono in un grande magazzino.
Il regista Todd Haynes per far capire in pochi fotogrammi che si tratta di un film impegnato e che è inutile aspettare l'entrata in scena di Checco Zalone, utilizza un trucco geniale: fa chiudere di 3 diaframmi l'obiettivo della macchina da presa, in modo da creare l'atmosfera “cucina di sera” con lampade a risparmio energetico. Anche negli “esterno giorno” il sole sembra al neon.
Notevole anche l'idea di far finire ogni scena con l'inquadratura del finestrino di un'auto, appannato e rigato di pioggia. Dietro potrebbe esserci un elettricista che si fa una canna o un viale di Central Park. Non si saprà mai, perché quel che si vede è scuro. La colonna sonora è adeguata, commissionata a un musicista depresso a cui è stata appena sterminata la famiglia.
La storia ovviamente è tragica. Dico solo che le due donne si innamorano. E qui mi immedesimo totalmente. Un po' di sesso? Sì, ma solo dopo metà film, quindi se, come me, avete dormito la prima mezz'ora vi è andata bene. Le tette si vedono? Sì si vedono e vale la regola per cui se si vedono le tette, il film ha almeno il 6. Per cui, voto finale: 6

sabato 16 gennaio 2016

Il terrazzo

Nel disordine del suo terrazzo, la donna bionda si sedette al sole di aprile.
Sul tavolo di ferro, coperto con una tovaglia a quadretti, poche cose si contendevano la superficie:un piatto con alcune briciole, una ciotola bianca, vuota, la caraffa con qualche dito d'acqua e un vasetto che aveva contenuto marmellata o miele. Era di vetro, con un'etichetta minuscola. Recava ancora sulle pareti i segni del dito che si era immerso fino al fondo per recuperare un po' di nettare negli angoli.
L'aroma del caffè combatteva con quello della primavera, in una lotta equilibrata tra forze del bene.
Chiunque avesse vinto, avrebbe ricevuto l'alloro, un bacio e gratitudine.
Lassù al sesto piano, i rumori della città arrivavano sgrossati da ringhiere, balconi e piastrelle. Quel che rimaneva scivolava sui bordi arrotondati dei tetti, ricoperti di zinco e di rame. La donna adorava il suo terrazzo. Si era innamorata di quell'appartamento, anni prima, appena aveva visto quel minuscolo spazio sotto il cielo e si era immaginata là seduta a fare colazione.
Era poco più di un balcone ed era densamente popolato di vasi e oggetti da giardino. Oltre al piccolo tavolino, lo arredava una semplice sedia, quella sulla quale stava la donna.
L'estuario non era visibile, nascosto dal tetto della casa di fronte, poco più alto. Non si vedevano neppure le mura del castello, che era sì molto vicino, ma si trovava alle spalle, sul lato opposto del palazzo. Tuttavia, non occorreva vedere il fiume né alcun monumento per orizzontarsi e capire di
trovarsi nella capitale.
Chiuse gli occhi, abbandonando le spalle contro lo schienale, una mano sul manico della tazza colma di caffè, l'altra pigramente appoggiata nell'aria, vicino al seno.
Se un momento avesse potuto rappresentare la perfezione era quello.
La mente non generava pensieri, ma sensazioni, il sole non produceva calore, ma tepore, la luce non era un fastidio, ma una carezza.
Una carezza.
La mano destra, libera e lasciata a se stessa sfiorò il seno, per caso o per sbaglio. E il seno reagì.
Perché non avrebbe dovuto? Era stato un contatto inatteso, involontario ma piacevole. La donna aveva sentito la punta ritrarsi istantaneamente, come le fragili antenne delle chiocciole quando le si sfiora o vi si indirizza anche soltanto un alito. Un riflesso. Era stato un riflesso, non un movimento, il riflesso ad un contatto.
Il secondo contatto forse non fu casuale, forse non fu uno sbaglio.
Il dorso della mano destra sfiorò di nuovo la punta del seno che, forse perché già pronta, reagì irrigidendosi ulteriormente e coinvolgendo in quel gioco di allarmi e falsi allarmi anche la gemella, distante appena una spanna o due.
La donna poté immaginare, più piccolo il destro, appena più grande il sinistro, i piccoli fiori rosa che coltivava fin da bambina. Li immaginò mentre si restringevano, definivano i contorni e si arrotondavano un poco verso l'esterno.
Sorrise al sole, mentre la mano, di tanto in tanto, sfiorava il cotone bianco e teneva accesa la piccola fiamma.
La perfezione è donna. Il suo corollario è il caffè, lungo, caldo, nero.
I piedi scalzi non rimpiangevano gli zoccoli di legno, lasciati tra porta e stipite, per impedire alla serratura di scattare e chiuderla fuori. Era già successo una volta e non era stato semplice rientrare.
Con i piedi nudi si appoggiò e spinse contro la ringhiera in ferro battuto. L'aveva ridipinta lei stessa alcune settimane prima, con lo smalto antiossidante. Non aveva avuto voglia di grattare via la ruggine prima di passare il pennello e ora ne era pentita, perché alcune piccole schegge color gambo di geranio si stavano già staccando e impolveravano le piastrelle lucide e un po' sconnesse del pavimento.
Cominciò a dondolarsi. Ora era il corpo che si muoveva contro la mano morta e non più il contrario.
La sensazione era, se possibile, più piacevole, perché aveva un vago senso di casualità. Era il gioco di una bambina che sa e non sa quello che sta facendo.
Ad ogni passaggio, il seno, rilassato e libero nella camicia bianca, riceveva una carezza e per via della generosità che è nella sua natura di seno, alimentava di benessere il resto del corpo.
Finì il caffè. Per averne ancora si sarebbe dovuta alzare, entrare in casa, versarne del nuovo e scaldarlo nel fornetto. Troppe cose. A conti fatti, stava bene anche così.
Ora che anche la mano sinistra era libera dalla tazza, potè raddoppiare la sensazione e creare la simmetria che mancava.
Anche la geometria è donna e le curve ne sono la prova.
Lo schienale faceva un po' male dove le braccia si appoggiavano fino ai gomiti, ma i ricavi di quel contatto intermittente, compensavano e superavano i costi.
Aprì per un attimo gli occhi e si lasciò ferire dal sole. Non c'era nulla da vedere e comunque non avrebbe potuto, con quel faro acceso sul volto. E poi non voleva. Al contrario, era sua intenzione accecarsi, macchiare la retina e godere del caleidoscopio di forme cangianti, che si formavano, scomparivano e si muovevano con lei.
Dopo poco portò la mano destra dove era destinata ad andare. Strisciò pigramente sopra il ginocchio, percorse la coscia verso l'alto e si insinuò sotto il camicione bianco, fino a trovare l'orlo della biancheria. Ne seguì il filo, soffermandosi a solleticare per qualche momento le pieghe delicate dell'attaccatura della gamba.
Che ora era?
Non aveva importanza. Qualunque impegno avrebbe potuto aspettare.
Con le lunghe dita della mano superò l'effimero ostacolo dell'elastico. Le falangi si distesero ed avanzarono, come denti di un pettine, lungo le trame del suo naturale tessuto. Infine giunsero a destinazione, dove si piegarono e separarono per distinguere, spostare e scegliere, come ballerine che eseguono a memoria una coreografia.
Il sole era caldo ora, forse cominciava a sudare.
Scivolò con la mano un poco oltre per esplorare la soglia del suo corpo e rendere i polpastrelli più morbidi e adatti allo scopo.
Non aveva fretta. C'erano delle volte, ma non erano molte, in cui consumava quei rapporti con se stessa con rabbia e rapidità, cercando il culmine con frenesia, quasi come se dovesse tagliare un traguardo e battere qualche primato. Allora si inarcava per cercare un contatto più proficuo oppure si stringeva in se stessa per moltiplicare e accelerare le sensazioni.
Non era il luogo. E non era una di quelle volte.
Al contrario, avrebbe potuto anche alzarsi e prendere quella aggiunta di caffè di cui sentiva la
mancanza, poi tornare e ricominciare. O non ricominciare affatto. Non era una necessità, era un piacere mattutino, la scelta di trasformare un momento unico in un momento perfetto.
Anche il piacere è donna e coltivarlo è un suo segreto esclusivo.
Mosse la mano sotto la camicia con movimenti brevi, pigri, circolari. L'altra mano sfrontata e impudica si era atteggiata a coppa, premeva sul cotone dove conteneva per intero un seno.
La fantasia lasciò il balcone e si trasferì in un letto, non il suo, un altro. Sul letto vide la schiena di uomo, poi i fianchi muscolosi. I lombi. Avrebbe voluto che lui si voltasse, ma la regia, che nelle donne come negli uomini è spesso imprevedibile e maldestra, volle mostrarle un'altra scena: questa volta era una donna a petto nudo. Aveva i seni piccoli con le punte scure. Le sorrideva. Non sapeva chi fosse. Poi osservò se stessa, come si sarebbe vista in quel momento dal palazzo di fronte. Si immaginò mentre si accarezzava con un ritmo veloce. Ormai non si dondolava più e aspettava soltanto che il momento si consumasse.
Aprì gli occhi, aspettandosi, forse, di vedersi davvero.
In un attimo fu in piedi.
Da quanto tempo era lì?
L'aveva vista?
Cazzo! Certo che l'aveva vista: stava guardando proprio verso di lei.
E aveva capito cosa stava facendo?
E certo che aveva capito, non c'era nulla da interpretare.
In due passi rientrò in casa. Si gettò in camera senza sapere cosa fare. Cominciò a scegliere i capi con cui vestirsi, come se vestirsi, ora, fosse servito a qualcosa. Come se avesse potuto cancellare gli ultimi cinque minuti.
Le venne da urlare. Prese in mano un cuscino e morsicò quello per non mordersi le labbra. Era furibonda. Aveva offerto uno spettacolo gratis. Idiota! Idiota! Idiota!
Ma quello, aveva in mano il telefono o, peggio, una macchina fotografica? No, non le era sembrato.
No, stava lì affacciato all'abbaino di fronte e la guardava, Non aveva nulla in mano.
Ma chi era? Non aveva mai visto nessuno, lì. Quell'abbaino, proprio di fronte al suo terrazzo era sempre stato chiuso. L'avevano affittato? Era una mansarda abitabile? Ma come aveva potuto commettere un errore così idiota? Perché non era stata più attenta?
Uscì dalla camera, percorse pochi passi nel breve corridoio e si bloccò. Se fosse avanzata ancora di un niente avrebbe potuto vedere il palazzo di fronte e l'abbaino.
Si mosse con estrema cautela, come se poco più avanti la aspettasse un cecchino con un fucile puntato.
Eccolo! Era ancora lì! Ma cosa aspettava? Il secondo tempo?
Ma non aveva vergogna? No, perché avrebbe dovuto? Era lei che era sprofondata in un abisso di imbarazzo.
Sentì di odiare quello sconosciuto persino più di quanto odiava se stessa.
Fosse almeno stato un vecchio o un ragazzino. Invece era uno sguardo, lo sguardo di un uomo.
E adesso? Si rappresentò il peggio: il resto della sua vita senza uscire mai più sul suo terrazzo.
No, avrebbe cambiato casa. Subito.
Un piccolo tram attraversò l'incrocio in quel momento, sei piani più sotto, lei ne approfittò per urlare contro il muro la sua rabbia.
Si infilò un paio di jeans, si tolse la camicia. I seni liberi, in quel momento erano due conoscenti scomodi e pesanti. Indifferenti e vagamente nemici. Li costrinse in un reggiseno bianco. Poi infilò una camicia nuova, bianca e vi poggiò sopra un golfino di cotone dello stesso colore, che abbottonò per intero.
Si infilò anche le calze corte, bianche.
Ora era vestita, ma non era cambiato nulla: se fosse uscita o anche soltanto passata vicino al terrazzo, dal quale sarebbe stata visibile, si sarebbe sentita nuda.
Peggio che nuda: nuda e con le mani dentro il sesso.
Urlò ancora per la rabbia! Che lui la sentisse pure e immaginasse quello che voleva.
Quanto era stata stupida, imprudente e presuntuosa. Soprattutto presuntuosa. E illusa. Aveva pensato che la città fosse sua, di essere sola al mondo.
Non riusciva a stare ferma. Sarebbe uscita. Uscita a fare la spesa. Al supermercato si sarebbe calmata. Sicuro. Si sarebbe comprata qualcosa di buono. Della frutta. Ecco della frutta e si sarebbe preparata una macedonia che avrebbe consumato in cucina, perché certo non poteva mangiare in soggiorno. E un dolce, una pasteis. No, due.
Mai più! Mai più! Non avrebbe mai più fatto una cosa del genere!
Batté forte i piedi sul pavimento di cotto. Aveva voglia di piangere, ma gli occhi erano secchi.
Non se la sentiva di uscire. Non ancora.
Si sedette in bagno sul coperchio della tazza. Si sarebbe curata le unghie dei piedi, ecco cosa avrebbe fatto.
Cercò le forbicine. Di solito erano sulla mensola sotto lo specchio.
Ma chi era?
Ma perché proprio un uomo? Perché non una donna o un vecchio? E perché un uomo con quegli occhi?
Rischiava di farsi male con le forbicine. Le rimise a posto e si guardò allo specchio.
Inaspettatamente, del tutto inaspettatamente, si piacque.
L'immagine nello specchio è quasi sempre donna ed è sempre stronza.
Aveva il viso arrossato, gli occhi lucidi e lo sguardo feroce. C'era odio in quegli occhi, tutto l'odio di cui disponeva, mischiato in un torbido amalgama con l'orgasmo che aveva dovuto ricacciare indietro. Respirò forte. Una, due volte.
Non aveva deciso nulla, ma qualcosa o qualcuno aveva deciso per lei, perché anche l'istinto è donna e sa quello che fa.
Percorse il corridoio a grandi passi.
Aprì la porta del terrazzo e fu di nuovo colpita dal sole.
Tuttavia, non chiuse gli occhi, non sbatté le palpebre nemmeno una volta.
Lui era ancora lì e continuava a guardarla, dall'altra parte della strada, con i gomiti appoggiati al davanzale del suo abbaino. Le imposte, che dovevano essere state lilla, erano impolverate.
Incorniciavano l'uomo dipingendogli addosso un'aria antica. Erano potenti quegli occhi. Con una dozzina di passi camminati nell'aria la donna avrebbe potuto raggiungerlo e ucciderlo. Lo avrebbe ucciso scavandogli via quegli occhi colpevoli e terribili dalle orbite.
Si fermò contro la ringhiera, le mani serrate sul bordo verde ganbo di geranio e lo fissò.
Anche lui la fissava.
Lo avrebbe ucciso, era deciso, ma soltanto dopo averlo fatto soffrire.
Lo avrebbe circuito, si sarebbe spogliata davanti a lui. Con le labbra lo avrebbe portato a quel punto in cui un uomo non è più titolare dei propri pensieri, lo avrebbe condotto a quel momento in cui è possibile ordinargli di uccidersi, con la certezza di essere obbedite.
Poi sarebbe scesa su di lui e lo avrebbe accoltò in sé. Lo avrebbe dominato e torturato per alzarsi e correre via un secondo prima della fine, lasciandolo stupito, indifeso e solo a contemplare la sua esplosione sprecata nel nulla.
Poi lo avrebbe gettato dal terrazzo, godendo del suo urlo per sei lunghi piani, raggiungendo il piacere massimo quando avesse sentito il suono del suo corpo che si frantumava sulle tessere bianche del marciapiede.
Lo fissò.
Anche lui la fissava.
Se lui avesse sorriso, lei lo avrebbe fatto: lo avrebbe ucciso.
Se avesse solo provato a sorriderle, sarebbe scesa in strada, sarebbe risalita al sesto piano e gli avrebbe piantato un coltello in mezzo al petto. Lo giurò a se stessa.
Sorridi! Gli ordinò con la mente, con gli occhi, con le labbra bianche, serrate.
Ma lui non sorrise.
Sorridi! Ripeté nella sua mente.
Ma lui non sorrise. Mai.
E lei si calmò.

domenica 10 gennaio 2016

Perdere i contatti

Giuro che è la verità, tutta la verità.
7 gennaio, ieri, alla cassa n. 6 del Pam. Stavo mettendo le cose sul nastro quando mi suona il telefono. Chi chiamava non è tra i miei contatti perché appariva un 349... ma non vuol dire perché sono riuscito a cancellare la rubrica del telefono un mese fa.
Io: Pronto?
Voce. Buongiorno dottor Costa, sono Sacco (l'unica invenzione in questa cronaca sono i nomi). Ci aveva messi in contatto il dottor Peroglio, ricorda?
Io: Buongiorno, certo. (Hanno sempre ragione gli altri, inutile manifestare dubbi, meglio mostrarsi pronti e lucidi. Non riconosco i volti delle persone, figurarsi i nomi.)
Sacco: Volevo sapere quando possiamo vederci per parlare di quella iniziativa sui medici, quella di cui le accennavo prima di Natale.
Cassiera: Ha la tessera?
Io: Sì
Sacco: Quando le fa comodo? (dalla voce il dottor Sacco dimostra più o meno la mia età)
Io: dottor Sacco, potrebbe richiamarmi tra dieci minuti? In questo momento sono un po' in difficoltà.
Cassiera: non ha pesato i cavolfiori.
Io: ha ragione. (panico)
Sacco: non si preoccupi, la richiamo io, dottore.
Ora, siamo nel 2016. Quest'anno a luglio, Dio volendo, compirò 57 anni. Nemmeno troppi. Però la memoria già adesso mi difetta. Più che memoria si tratta di concentrazione. Non riesco a concentrarmi su niente, poi per forza mi dimentico le cose. E di questa iniziativa sui medici io proprio non ricordo un cazzo. Ho un vago ricordo di una telefonata di lavoro ricevuta prima di Natale, ma che valore ha una telefonata prima di Natale quando le frasi che ci si scambia sono “ne parliamo dopo le feste”? Chissà a cosa stavo pensando. C'è anche la possibilità che Sacco voglia vendermi qualcosa. Magari prima di Natale mi hanno proposto qualche installazione e io li ho rimandati a dopo le vacanze. Ma dal modo di parlare di Sacco, non mi sembra.
Peso i cavolfiori, pago, arrivo a casa e subito suona il telefono.
Sacco: dottor Costa, disturbo? Sono Sacco.
Io: niente affatto dottore, adesso sono tutto suo.
Sacco: Niente, vorrei sapere quando posso venire da lei.
Io: da me...
Sacco: Sì mi dica quando le fa comodo, la prossima settimana?
Io: Sì la prossima settimana va bene.
Sacco: Mi dica lei, io ho ampia disponibilità
Io. No no, dottore mi dica lei, escluso mercoledì 13 che sono a Milano (mi piace da morire dire che vado a Milano ché mi fa sentire importante) sono libero.
Sacco: Allora mi dica lei.
Io: allora facciamo il 12?
Sacco: Il 12 va benissimo, da lei.
Io: Da me...
Sacco: Sì vengo io.
Io: Lei lo sa che non ho un ufficio, posso riceverla in casa... (veramente preferirei di no, dovrei passare aspirapolvere e mocio dappertutto)
Sacco: Mi può fare anche un caffè? (simpatico Sacco)
Io: Ma certo!
Sacco: Se venissi verso le 9?
Io: Perfetto, martedì 12 alle 9, lo sa l'indirizzo?
Sacco: No, se cortesemente mi dice...
Io gli do l'indirizzo e gli spiego anche come arrivare.
Sacco: Bene dottore, allora a martedì.
Io: Ah, dottore, di cosa parleremo esattamente?
Sacco: di quella card curata dal Dottor Peroglio, quella Card che permette di accedere a diversi servizi della sanità privata con sconti fino al...
Io, fingendo di ricordare, ma non ricordando nulla: ah, sì sì...
Sacco: tramite lei potremo appoggiare la distribuzione a tutta la rete degli agenti della Reale.
Io: Reale...
Sacco: Lei è Presidente degli agenti della Reale, no?
Io non dico mai no a nessun lavoro, ci mancherebbe, coi tempi che corrono, ma da questo a millantare di essere il Presidente degli agenti della Reale ce ne vuole. Cioè io gli posso anche dire di sì, ma poi come ne esco?
Io: Dottor Sacco, io sono un pubblicitario.
Sacco: Non è mica una colpa!
Io: No, però non so nulla degli agenti della Reale.
Sacco: No? Nemmeno dell'Unipol?
Io: No.
Sacco: Ma è un medico, almeno?
Io: No, lei mi ha chiamato dottore e io l'ho lasciata fare perché sono laureato in legge, ma non sono un medico.
Sacco: Eppure il dottor Peroglio...
Io: Forse non conosco nemmeno il dottor Peroglio...
Sacco: Forse?
Io: Io non sono mai sicuro di niente, dottor Sacco.
Il dottor sacco ride.
Io: Credo ci sia un errore, sa? (rido anch'io?)
Sacco: lo penso anch'io, adesso chiamo il dottor Peroglio e gli tiro le balle!
Io: Gliele tiri anche da parte mia.
Sacco: Mi scusi tanto per l'equivoco dottore.
Io: Ma le pare? è stato un piacere.

Giuro che è tutto vero.