sabato 23 gennaio 2016

Carol

Io non ho nulla contro le lesbiche. Perché mai dovrei?  Dirò di più: se rinasco, voglio rinascere bambina, ragazza, donna e sicuramente lesbica. Anzi, faccio coming out: io sono già una lesbica, purtroppo imprigionata nel corpo sbagliato.
Ora sapete con che occhi ho visto Carol ieri sera a Torino.
Le due donne si conoscono in un grande magazzino.
Il regista Todd Haynes per far capire in pochi fotogrammi che si tratta di un film impegnato e che è inutile aspettare l'entrata in scena di Checco Zalone, utilizza un trucco geniale: fa chiudere di 3 diaframmi l'obiettivo della macchina da presa, in modo da creare l'atmosfera “cucina di sera” con lampade a risparmio energetico. Anche negli “esterno giorno” il sole sembra al neon.
Notevole anche l'idea di far finire ogni scena con l'inquadratura del finestrino di un'auto, appannato e rigato di pioggia. Dietro potrebbe esserci un elettricista che si fa una canna o un viale di Central Park. Non si saprà mai, perché quel che si vede è scuro. La colonna sonora è adeguata, commissionata a un musicista depresso a cui è stata appena sterminata la famiglia.
La storia ovviamente è tragica. Dico solo che le due donne si innamorano. E qui mi immedesimo totalmente. Un po' di sesso? Sì, ma solo dopo metà film, quindi se, come me, avete dormito la prima mezz'ora vi è andata bene. Le tette si vedono? Sì si vedono e vale la regola per cui se si vedono le tette, il film ha almeno il 6. Per cui, voto finale: 6

sabato 16 gennaio 2016

Il terrazzo

Nel disordine del suo terrazzo, la donna bionda si sedette al sole di aprile.
Sul tavolo di ferro, coperto con una tovaglia a quadretti, poche cose si contendevano la superficie:un piatto con alcune briciole, una ciotola bianca, vuota, la caraffa con qualche dito d'acqua e un vasetto che aveva contenuto marmellata o miele. Era di vetro, con un'etichetta minuscola. Recava ancora sulle pareti i segni del dito che si era immerso fino al fondo per recuperare un po' di nettare negli angoli.
L'aroma del caffè combatteva con quello della primavera, in una lotta equilibrata tra forze del bene.
Chiunque avesse vinto, avrebbe ricevuto l'alloro, un bacio e gratitudine.
Lassù al sesto piano, i rumori della città arrivavano sgrossati da ringhiere, balconi e piastrelle. Quel che rimaneva scivolava sui bordi arrotondati dei tetti, ricoperti di zinco e di rame. La donna adorava il suo terrazzo. Si era innamorata di quell'appartamento, anni prima, appena aveva visto quel minuscolo spazio sotto il cielo e si era immaginata là seduta a fare colazione.
Era poco più di un balcone ed era densamente popolato di vasi e oggetti da giardino. Oltre al piccolo tavolino, lo arredava una semplice sedia, quella sulla quale stava la donna.
L'estuario non era visibile, nascosto dal tetto della casa di fronte, poco più alto. Non si vedevano neppure le mura del castello, che era sì molto vicino, ma si trovava alle spalle, sul lato opposto del palazzo. Tuttavia, non occorreva vedere il fiume né alcun monumento per orizzontarsi e capire di
trovarsi nella capitale.
Chiuse gli occhi, abbandonando le spalle contro lo schienale, una mano sul manico della tazza colma di caffè, l'altra pigramente appoggiata nell'aria, vicino al seno.
Se un momento avesse potuto rappresentare la perfezione era quello.
La mente non generava pensieri, ma sensazioni, il sole non produceva calore, ma tepore, la luce non era un fastidio, ma una carezza.
Una carezza.
La mano destra, libera e lasciata a se stessa sfiorò il seno, per caso o per sbaglio. E il seno reagì.
Perché non avrebbe dovuto? Era stato un contatto inatteso, involontario ma piacevole. La donna aveva sentito la punta ritrarsi istantaneamente, come le fragili antenne delle chiocciole quando le si sfiora o vi si indirizza anche soltanto un alito. Un riflesso. Era stato un riflesso, non un movimento, il riflesso ad un contatto.
Il secondo contatto forse non fu casuale, forse non fu uno sbaglio.
Il dorso della mano destra sfiorò di nuovo la punta del seno che, forse perché già pronta, reagì irrigidendosi ulteriormente e coinvolgendo in quel gioco di allarmi e falsi allarmi anche la gemella, distante appena una spanna o due.
La donna poté immaginare, più piccolo il destro, appena più grande il sinistro, i piccoli fiori rosa che coltivava fin da bambina. Li immaginò mentre si restringevano, definivano i contorni e si arrotondavano un poco verso l'esterno.
Sorrise al sole, mentre la mano, di tanto in tanto, sfiorava il cotone bianco e teneva accesa la piccola fiamma.
La perfezione è donna. Il suo corollario è il caffè, lungo, caldo, nero.
I piedi scalzi non rimpiangevano gli zoccoli di legno, lasciati tra porta e stipite, per impedire alla serratura di scattare e chiuderla fuori. Era già successo una volta e non era stato semplice rientrare.
Con i piedi nudi si appoggiò e spinse contro la ringhiera in ferro battuto. L'aveva ridipinta lei stessa alcune settimane prima, con lo smalto antiossidante. Non aveva avuto voglia di grattare via la ruggine prima di passare il pennello e ora ne era pentita, perché alcune piccole schegge color gambo di geranio si stavano già staccando e impolveravano le piastrelle lucide e un po' sconnesse del pavimento.
Cominciò a dondolarsi. Ora era il corpo che si muoveva contro la mano morta e non più il contrario.
La sensazione era, se possibile, più piacevole, perché aveva un vago senso di casualità. Era il gioco di una bambina che sa e non sa quello che sta facendo.
Ad ogni passaggio, il seno, rilassato e libero nella camicia bianca, riceveva una carezza e per via della generosità che è nella sua natura di seno, alimentava di benessere il resto del corpo.
Finì il caffè. Per averne ancora si sarebbe dovuta alzare, entrare in casa, versarne del nuovo e scaldarlo nel fornetto. Troppe cose. A conti fatti, stava bene anche così.
Ora che anche la mano sinistra era libera dalla tazza, potè raddoppiare la sensazione e creare la simmetria che mancava.
Anche la geometria è donna e le curve ne sono la prova.
Lo schienale faceva un po' male dove le braccia si appoggiavano fino ai gomiti, ma i ricavi di quel contatto intermittente, compensavano e superavano i costi.
Aprì per un attimo gli occhi e si lasciò ferire dal sole. Non c'era nulla da vedere e comunque non avrebbe potuto, con quel faro acceso sul volto. E poi non voleva. Al contrario, era sua intenzione accecarsi, macchiare la retina e godere del caleidoscopio di forme cangianti, che si formavano, scomparivano e si muovevano con lei.
Dopo poco portò la mano destra dove era destinata ad andare. Strisciò pigramente sopra il ginocchio, percorse la coscia verso l'alto e si insinuò sotto il camicione bianco, fino a trovare l'orlo della biancheria. Ne seguì il filo, soffermandosi a solleticare per qualche momento le pieghe delicate dell'attaccatura della gamba.
Che ora era?
Non aveva importanza. Qualunque impegno avrebbe potuto aspettare.
Con le lunghe dita della mano superò l'effimero ostacolo dell'elastico. Le falangi si distesero ed avanzarono, come denti di un pettine, lungo le trame del suo naturale tessuto. Infine giunsero a destinazione, dove si piegarono e separarono per distinguere, spostare e scegliere, come ballerine che eseguono a memoria una coreografia.
Il sole era caldo ora, forse cominciava a sudare.
Scivolò con la mano un poco oltre per esplorare la soglia del suo corpo e rendere i polpastrelli più morbidi e adatti allo scopo.
Non aveva fretta. C'erano delle volte, ma non erano molte, in cui consumava quei rapporti con se stessa con rabbia e rapidità, cercando il culmine con frenesia, quasi come se dovesse tagliare un traguardo e battere qualche primato. Allora si inarcava per cercare un contatto più proficuo oppure si stringeva in se stessa per moltiplicare e accelerare le sensazioni.
Non era il luogo. E non era una di quelle volte.
Al contrario, avrebbe potuto anche alzarsi e prendere quella aggiunta di caffè di cui sentiva la
mancanza, poi tornare e ricominciare. O non ricominciare affatto. Non era una necessità, era un piacere mattutino, la scelta di trasformare un momento unico in un momento perfetto.
Anche il piacere è donna e coltivarlo è un suo segreto esclusivo.
Mosse la mano sotto la camicia con movimenti brevi, pigri, circolari. L'altra mano sfrontata e impudica si era atteggiata a coppa, premeva sul cotone dove conteneva per intero un seno.
La fantasia lasciò il balcone e si trasferì in un letto, non il suo, un altro. Sul letto vide la schiena di uomo, poi i fianchi muscolosi. I lombi. Avrebbe voluto che lui si voltasse, ma la regia, che nelle donne come negli uomini è spesso imprevedibile e maldestra, volle mostrarle un'altra scena: questa volta era una donna a petto nudo. Aveva i seni piccoli con le punte scure. Le sorrideva. Non sapeva chi fosse. Poi osservò se stessa, come si sarebbe vista in quel momento dal palazzo di fronte. Si immaginò mentre si accarezzava con un ritmo veloce. Ormai non si dondolava più e aspettava soltanto che il momento si consumasse.
Aprì gli occhi, aspettandosi, forse, di vedersi davvero.
In un attimo fu in piedi.
Da quanto tempo era lì?
L'aveva vista?
Cazzo! Certo che l'aveva vista: stava guardando proprio verso di lei.
E aveva capito cosa stava facendo?
E certo che aveva capito, non c'era nulla da interpretare.
In due passi rientrò in casa. Si gettò in camera senza sapere cosa fare. Cominciò a scegliere i capi con cui vestirsi, come se vestirsi, ora, fosse servito a qualcosa. Come se avesse potuto cancellare gli ultimi cinque minuti.
Le venne da urlare. Prese in mano un cuscino e morsicò quello per non mordersi le labbra. Era furibonda. Aveva offerto uno spettacolo gratis. Idiota! Idiota! Idiota!
Ma quello, aveva in mano il telefono o, peggio, una macchina fotografica? No, non le era sembrato.
No, stava lì affacciato all'abbaino di fronte e la guardava, Non aveva nulla in mano.
Ma chi era? Non aveva mai visto nessuno, lì. Quell'abbaino, proprio di fronte al suo terrazzo era sempre stato chiuso. L'avevano affittato? Era una mansarda abitabile? Ma come aveva potuto commettere un errore così idiota? Perché non era stata più attenta?
Uscì dalla camera, percorse pochi passi nel breve corridoio e si bloccò. Se fosse avanzata ancora di un niente avrebbe potuto vedere il palazzo di fronte e l'abbaino.
Si mosse con estrema cautela, come se poco più avanti la aspettasse un cecchino con un fucile puntato.
Eccolo! Era ancora lì! Ma cosa aspettava? Il secondo tempo?
Ma non aveva vergogna? No, perché avrebbe dovuto? Era lei che era sprofondata in un abisso di imbarazzo.
Sentì di odiare quello sconosciuto persino più di quanto odiava se stessa.
Fosse almeno stato un vecchio o un ragazzino. Invece era uno sguardo, lo sguardo di un uomo.
E adesso? Si rappresentò il peggio: il resto della sua vita senza uscire mai più sul suo terrazzo.
No, avrebbe cambiato casa. Subito.
Un piccolo tram attraversò l'incrocio in quel momento, sei piani più sotto, lei ne approfittò per urlare contro il muro la sua rabbia.
Si infilò un paio di jeans, si tolse la camicia. I seni liberi, in quel momento erano due conoscenti scomodi e pesanti. Indifferenti e vagamente nemici. Li costrinse in un reggiseno bianco. Poi infilò una camicia nuova, bianca e vi poggiò sopra un golfino di cotone dello stesso colore, che abbottonò per intero.
Si infilò anche le calze corte, bianche.
Ora era vestita, ma non era cambiato nulla: se fosse uscita o anche soltanto passata vicino al terrazzo, dal quale sarebbe stata visibile, si sarebbe sentita nuda.
Peggio che nuda: nuda e con le mani dentro il sesso.
Urlò ancora per la rabbia! Che lui la sentisse pure e immaginasse quello che voleva.
Quanto era stata stupida, imprudente e presuntuosa. Soprattutto presuntuosa. E illusa. Aveva pensato che la città fosse sua, di essere sola al mondo.
Non riusciva a stare ferma. Sarebbe uscita. Uscita a fare la spesa. Al supermercato si sarebbe calmata. Sicuro. Si sarebbe comprata qualcosa di buono. Della frutta. Ecco della frutta e si sarebbe preparata una macedonia che avrebbe consumato in cucina, perché certo non poteva mangiare in soggiorno. E un dolce, una pasteis. No, due.
Mai più! Mai più! Non avrebbe mai più fatto una cosa del genere!
Batté forte i piedi sul pavimento di cotto. Aveva voglia di piangere, ma gli occhi erano secchi.
Non se la sentiva di uscire. Non ancora.
Si sedette in bagno sul coperchio della tazza. Si sarebbe curata le unghie dei piedi, ecco cosa avrebbe fatto.
Cercò le forbicine. Di solito erano sulla mensola sotto lo specchio.
Ma chi era?
Ma perché proprio un uomo? Perché non una donna o un vecchio? E perché un uomo con quegli occhi?
Rischiava di farsi male con le forbicine. Le rimise a posto e si guardò allo specchio.
Inaspettatamente, del tutto inaspettatamente, si piacque.
L'immagine nello specchio è quasi sempre donna ed è sempre stronza.
Aveva il viso arrossato, gli occhi lucidi e lo sguardo feroce. C'era odio in quegli occhi, tutto l'odio di cui disponeva, mischiato in un torbido amalgama con l'orgasmo che aveva dovuto ricacciare indietro. Respirò forte. Una, due volte.
Non aveva deciso nulla, ma qualcosa o qualcuno aveva deciso per lei, perché anche l'istinto è donna e sa quello che fa.
Percorse il corridoio a grandi passi.
Aprì la porta del terrazzo e fu di nuovo colpita dal sole.
Tuttavia, non chiuse gli occhi, non sbatté le palpebre nemmeno una volta.
Lui era ancora lì e continuava a guardarla, dall'altra parte della strada, con i gomiti appoggiati al davanzale del suo abbaino. Le imposte, che dovevano essere state lilla, erano impolverate.
Incorniciavano l'uomo dipingendogli addosso un'aria antica. Erano potenti quegli occhi. Con una dozzina di passi camminati nell'aria la donna avrebbe potuto raggiungerlo e ucciderlo. Lo avrebbe ucciso scavandogli via quegli occhi colpevoli e terribili dalle orbite.
Si fermò contro la ringhiera, le mani serrate sul bordo verde ganbo di geranio e lo fissò.
Anche lui la fissava.
Lo avrebbe ucciso, era deciso, ma soltanto dopo averlo fatto soffrire.
Lo avrebbe circuito, si sarebbe spogliata davanti a lui. Con le labbra lo avrebbe portato a quel punto in cui un uomo non è più titolare dei propri pensieri, lo avrebbe condotto a quel momento in cui è possibile ordinargli di uccidersi, con la certezza di essere obbedite.
Poi sarebbe scesa su di lui e lo avrebbe accoltò in sé. Lo avrebbe dominato e torturato per alzarsi e correre via un secondo prima della fine, lasciandolo stupito, indifeso e solo a contemplare la sua esplosione sprecata nel nulla.
Poi lo avrebbe gettato dal terrazzo, godendo del suo urlo per sei lunghi piani, raggiungendo il piacere massimo quando avesse sentito il suono del suo corpo che si frantumava sulle tessere bianche del marciapiede.
Lo fissò.
Anche lui la fissava.
Se lui avesse sorriso, lei lo avrebbe fatto: lo avrebbe ucciso.
Se avesse solo provato a sorriderle, sarebbe scesa in strada, sarebbe risalita al sesto piano e gli avrebbe piantato un coltello in mezzo al petto. Lo giurò a se stessa.
Sorridi! Gli ordinò con la mente, con gli occhi, con le labbra bianche, serrate.
Ma lui non sorrise.
Sorridi! Ripeté nella sua mente.
Ma lui non sorrise. Mai.
E lei si calmò.

domenica 10 gennaio 2016

Perdere i contatti

Giuro che è la verità, tutta la verità.
7 gennaio, ieri, alla cassa n. 6 del Pam. Stavo mettendo le cose sul nastro quando mi suona il telefono. Chi chiamava non è tra i miei contatti perché appariva un 349... ma non vuol dire perché sono riuscito a cancellare la rubrica del telefono un mese fa.
Io: Pronto?
Voce. Buongiorno dottor Costa, sono Sacco (l'unica invenzione in questa cronaca sono i nomi). Ci aveva messi in contatto il dottor Peroglio, ricorda?
Io: Buongiorno, certo. (Hanno sempre ragione gli altri, inutile manifestare dubbi, meglio mostrarsi pronti e lucidi. Non riconosco i volti delle persone, figurarsi i nomi.)
Sacco: Volevo sapere quando possiamo vederci per parlare di quella iniziativa sui medici, quella di cui le accennavo prima di Natale.
Cassiera: Ha la tessera?
Io: Sì
Sacco: Quando le fa comodo? (dalla voce il dottor Sacco dimostra più o meno la mia età)
Io: dottor Sacco, potrebbe richiamarmi tra dieci minuti? In questo momento sono un po' in difficoltà.
Cassiera: non ha pesato i cavolfiori.
Io: ha ragione. (panico)
Sacco: non si preoccupi, la richiamo io, dottore.
Ora, siamo nel 2016. Quest'anno a luglio, Dio volendo, compirò 57 anni. Nemmeno troppi. Però la memoria già adesso mi difetta. Più che memoria si tratta di concentrazione. Non riesco a concentrarmi su niente, poi per forza mi dimentico le cose. E di questa iniziativa sui medici io proprio non ricordo un cazzo. Ho un vago ricordo di una telefonata di lavoro ricevuta prima di Natale, ma che valore ha una telefonata prima di Natale quando le frasi che ci si scambia sono “ne parliamo dopo le feste”? Chissà a cosa stavo pensando. C'è anche la possibilità che Sacco voglia vendermi qualcosa. Magari prima di Natale mi hanno proposto qualche installazione e io li ho rimandati a dopo le vacanze. Ma dal modo di parlare di Sacco, non mi sembra.
Peso i cavolfiori, pago, arrivo a casa e subito suona il telefono.
Sacco: dottor Costa, disturbo? Sono Sacco.
Io: niente affatto dottore, adesso sono tutto suo.
Sacco: Niente, vorrei sapere quando posso venire da lei.
Io: da me...
Sacco: Sì mi dica quando le fa comodo, la prossima settimana?
Io: Sì la prossima settimana va bene.
Sacco: Mi dica lei, io ho ampia disponibilità
Io. No no, dottore mi dica lei, escluso mercoledì 13 che sono a Milano (mi piace da morire dire che vado a Milano ché mi fa sentire importante) sono libero.
Sacco: Allora mi dica lei.
Io: allora facciamo il 12?
Sacco: Il 12 va benissimo, da lei.
Io: Da me...
Sacco: Sì vengo io.
Io: Lei lo sa che non ho un ufficio, posso riceverla in casa... (veramente preferirei di no, dovrei passare aspirapolvere e mocio dappertutto)
Sacco: Mi può fare anche un caffè? (simpatico Sacco)
Io: Ma certo!
Sacco: Se venissi verso le 9?
Io: Perfetto, martedì 12 alle 9, lo sa l'indirizzo?
Sacco: No, se cortesemente mi dice...
Io gli do l'indirizzo e gli spiego anche come arrivare.
Sacco: Bene dottore, allora a martedì.
Io: Ah, dottore, di cosa parleremo esattamente?
Sacco: di quella card curata dal Dottor Peroglio, quella Card che permette di accedere a diversi servizi della sanità privata con sconti fino al...
Io, fingendo di ricordare, ma non ricordando nulla: ah, sì sì...
Sacco: tramite lei potremo appoggiare la distribuzione a tutta la rete degli agenti della Reale.
Io: Reale...
Sacco: Lei è Presidente degli agenti della Reale, no?
Io non dico mai no a nessun lavoro, ci mancherebbe, coi tempi che corrono, ma da questo a millantare di essere il Presidente degli agenti della Reale ce ne vuole. Cioè io gli posso anche dire di sì, ma poi come ne esco?
Io: Dottor Sacco, io sono un pubblicitario.
Sacco: Non è mica una colpa!
Io: No, però non so nulla degli agenti della Reale.
Sacco: No? Nemmeno dell'Unipol?
Io: No.
Sacco: Ma è un medico, almeno?
Io: No, lei mi ha chiamato dottore e io l'ho lasciata fare perché sono laureato in legge, ma non sono un medico.
Sacco: Eppure il dottor Peroglio...
Io: Forse non conosco nemmeno il dottor Peroglio...
Sacco: Forse?
Io: Io non sono mai sicuro di niente, dottor Sacco.
Il dottor sacco ride.
Io: Credo ci sia un errore, sa? (rido anch'io?)
Sacco: lo penso anch'io, adesso chiamo il dottor Peroglio e gli tiro le balle!
Io: Gliele tiri anche da parte mia.
Sacco: Mi scusi tanto per l'equivoco dottore.
Io: Ma le pare? è stato un piacere.

Giuro che è tutto vero.