sabato 25 febbraio 2017

Indignazione

Potrei essere utilizzato come orologio da cucina. Mi mettete un libro in mano la sera e non appena mi casca sul naso, potete spegnere sotto i fagiolini nella pentola a pressione. Preciso.
Non però ieri sera, né la sera prima. 
In questi due giorni ho letto Indignazione di Philip Roth. Ho smesso dopo due ore, la prima sera, giusto per non scolarmelo in una sola bevuta, e un'altra ora ieri, fino alla fine, perché oltre la nota storica non si può andare. 
Non parlerò dei contenuti del romanzo, quindi non dell'indignazione di Roth e del giovane Messner, ma della mia ammirazione per come l'indignazione è espressa, e anche per come è tradotta da Norman Gobetti. I dialoghi sono di una potenza misurabile in kilotoni. Mi sono sentito persino umiliato, perché nell'assistere alle discussioni, viene spontaneo anticipare delle frasi, delle risposte, come se si potesse essere veramente lì, davanti al rettore, ma le ho sbagliate tutte, per piccolezza, per scarsa lucidità, per pigrizia o codardia. Molti che hanno commentato, affermano che questo non sia uno dei migliori romanzi di Roth. Per rispondere mi immergo nella vasca da bagno e dico: “meno male”. **

** citazione dallo spot tv ING Direct

sabato 18 febbraio 2017

I complici

Lambert si chiude porte alle spalle. Non fa altro per tutto il breve percorso che Simenon traccia per lui. Non è una novità: pressoché tutti i personaggi di Simenon si comportano allo stesso modo. Se inciampano non sono più in grado di individuare la rotta corretta e sbandano, sbandano sempre più, incespicando nei propri piedi e ripetendo gli stessi errori. Se hanno qualcosa di prezioso fanno in modo di perderlo o rovinarlo.
Ne “I complici” Simenon mostra il momento in cui Lambert compie il suo primo, fatale, errore già in prima pagina. Le restanti 113 non sono altro che la maturazione dei fatti e l'accavallarsi di decisioni sbagliate. Uno sviluppo che per un neofita di Simenon può apparire forzato o assurdo. Ma se di questo autore si accetta il metodo di ricerca, che rende estreme le situazioni per ricercare il senso ultimo di fatti, persone, emozioni e sentimenti, allora si accetta anche che i personaggi non possano salvarsi e che i romanzi possano chiudersi soltanto con un finale malinconico nella migliore delle ipotesi, tragico in tutte le altre.

sabato 11 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge

Scrivete “sergente” su Google. Subito dopo il sergente Garcia vedrete apparire il “Sergente Hartman”. Perché? Perché il sergente Hartman è il protagonista di una delle scene più potenti nel cinema, dai fratelli Lumiere a oggi. Lo trovate in “Full metal jacket” di Stanley Kubrick. Regista e sceneggiatori hanno scritto per il sgt. Hartman dialoghi da imparare a memoria e ripetere sgranando il rosario. “I tuoi genitori hanno anche figli normali, Palla di Lardo?! Giusto per capirci.”
Ora, solo un regista stupido, pazzo, ingenuo o ignorante può pensare di inserire nel suo film una scena analoga, con un sergente istruttore che tenta di spaventare le reclute. Mel Gibson lo ha fatto. Ha preso come sergente Vince Vaughn che non farebbe paura a un tosapecore a batteria e gli fa dire battute che potrebbe scrivere un editorialista di Libero. Ma come gli è venuto in mente? È come se Frizzi si mettesse a cantare Image spacciandola per nuova. Se avete visto Full Metal Jacket il paragone vi farà venire una voglia pazzesca di scappare dal cinema, tornare a casa e rivedere il film di Kubrick. Se non avete mai visto Full Metal Jacket e non conoscete il sergente Hartman (ci hanno fatto pure le suonerie con i suoi dialoghi) non so che vivete a fare.
Per il resto, il film è un insieme di buoni sentimenti e macello. Le scene crude sono veramente crude, per cui se non siete vegani, vi piaceranno. Il fatto che si racconti una storia vera di un vero eroe non è un'attenuante. La battaglia di Hacksaw Ridge potrebbe essere una buona americanata se non pagasse il peccato originale di quella scena tra seregente e reclute. Purtroppo non c'è acqua battesimale che lo possa salvare. Potrebbe avere il 6 se almeno si vedessero le tette della davvero gnocchissima Teresa Palmer. E invece niente.

mercoledì 8 febbraio 2017

Fai bei sogni

Non so con precisione quando la mia ammirazione per Massimo Gramellini e i suoi buongiorno su “La Stampa” sia evaporata, né perché. Credo cinque o sei anni fa e forse perché gli ho scritto un paio di volte e lui non mi ha risposto, o forse perché seguire uno che ha sempre ragione dopo un po' annoia, o forse anche perché non sbrocca mai. E poi, più di due o tre buoni sentimenti la settimana mi fanno sbocciare chiazze rosse sulla pelle. Fatto sta che ho smesso di leggerlo e ho cominciato ad arricciare il labbro ogni volta che lo incontravo. Adesso, poi, è passato al Corriere e le occasioni di incrociare i suoi scritti saranno poche o nulle.
Ieri sera ho visto “Fai bei sogni” il film che ne ha tratto Bellocchio con Valerio Mastandrea nella parte di Gramellini, appunto. Non ci sarei mai andato di mia iniziativa, ma il film apre una rassegna di 8 pellicole in abbonamento e quindi... E poi l'alternativa sarebbe stata la prima serata di Sanremo.
Il problema è che il film mi è entrato dentro. Subito. Dalle prime scene, e questo non era affatto previsto. È facile commuovermi. Due canzoni a cavallo tra gli anni 60 e 70, un po' di riferimenti alla Torino di quell'epoca e la nostalgia viene su come bagna caoda. Quel bambino (attore Nicolò Cabras, non bravo: bravissimo), figlio unico, che gioca con la sua mamma sarei potuto essere io: stessi anni, stesso tipo di casa, addirittura stesso quartiere, Santa Rita. La faccio breve: dicono che libro e film siano diversi, che il film sia più introspettivo e angosciante e il libro più leggero e autoironico. Libro e film raccontano comunque una storia vera nella quale si fa riferimento alla felicità soltanto per contrapporla alla perdita e alla mancanza. Si vedono e si intuiscono un'infanzia e un'adolescenza davvero pesanti, come non mi aspettavo. Il dramma che si consuma, poi, è di una semplicità tale da apparire credibile, quasi tangibile. 
Ora che ho visto il film, cambia qualcosa? Probabilmente sì. Toccandomi da vicino, ha avuto l'effetto di una doccia e mi ha lavato via un po' di spocchia polverosa. Mi sento come dopo una visita a un conoscente in un brutto reparto di un brutto ospedale: pieno di buoni propositi e pronto a iniziare un nuovo ciclo con un tasso di cinismo più contenuto. Finché dura.