sabato 25 novembre 2017

Jane Eyre

Mia nonna parlava con la televisione. Stravedeva per Andreotti e quando qualcuno lo attaccava durante un dibattito televisivo, lei lo difendeva dalla sedia della sua cucina urlando al televisore.
Ho sempre sorriso di questa cosa, chiedendomi se alla sua età (andava per i 90) avrei fatto la stessa cosa.
Ebbene, ci sono arrivato prima. È successo ieri, ascoltando gli ultimi capitoli dell'audiolibro Jane Eyre di Charlotte Brontë.
Quasi ogni sera percorro 7 chilometri di buon passo tra i viottoli di campagna dietro casa. Mi infilo gli auricolari e mi immergo nella lettura di un paio di capitoli. Si può dire “lettura” riferendosi a un audiolibro? Credo di sì. Intanto perché c'è qualcuno che legge, nel mio caso Silvia Ceschini, alla quale attribuisco una gran parte di merito nell'avermi trascinato nella storia, con una lettura precisa e una voce dolce e melodiosa. E poi perché, comunque, la sera, nel letto, vado avanti per conto mio con il libro vero e proprio.
I passi che mi hanno fatto irritare li ho vissuti con un pungente odore di letame nel naso, scansando migliaia di macchie sospette sulla strada, perse da qualche trattore sparpagliamerda. “Ma ammazzati!” urlavo. E poi: “Ma basta, ma mandalo a fare in culo!” “Ma taci, stronzo di merda!” Questo dicevo nel buio, figurandomi di alzare le mani su Saint John, uno dei predicatori più insopportabili della letteratura di sempre. Ora, arrivare a imprecare contro personaggi immaginari significa due cose: essere ormai rincoglioniti (e ci sta), ma soprattutto che chi ha scritto ha saputo fare meravigliosamente bene il suo lavoro. Charlotte Brontë non è celebre per caso fortuito e questa storia, resa con poetica semplicità è un capolavoro che merita tutta la fama di cui gode. Chi si diletta a scrivere, come io faccio, quando ritiene di aver raggiunto una buona qualità nelle proprie righe, dovrebbe rileggersi qualche pagina a caso di Jane Eyre utilizzandole come benchmark, anche se, se davvero si procedesse così, si finirebbe per non riuscire a scrivere più nulla.

lunedì 13 novembre 2017

The place

Ci sono dei film che mi lasciano addosso un po' di febbre perché superano la barriera schermo/spettatore e mi arrivano addosso, si insinuano persino sotto la felpa e sotto la maglietta.
Il talento, in dosi importanti e versato denso sullo schermo, una volta ingerito, resta lì a fare bene un po' male. 
Paolo Genovese conferma di essere una distilleria di questo elisir, ma non aveva bisogno di dimostrarlo, avendo guadagnato la mia stima già due anni fa con “Perfetti sconosciuti”.
Oggi immagina e scrive una nuova storia, semplice, profonda e terribile, e la circoscrive in una sola location. Non ci si muove mai da quel “place”, il tavolino di un bar. Le inquadrature si ripetono spesso, non so quante siano, una dozzina forse, ma di lì non ci si schioda. Eppure, con l'immaginazione si possono vedere e seguire i diversi altri rami che la storia racconta, ma che la pellicola non mostra.
Anche per dirigere gli attori occorre talento. Non parliamo poi per sceglierli e tenerli insieme.
Valerio Mastrandrea è il protagonista. Sempre in scena. Sempre perfetto, un'interpretazione con cui potrebbe chiudere la carriera perché di più non potrà fare. Sabrina Ferilli... chi avrebbe mai detto che Sabrina Ferilli...? E invece, Sabrina Ferilli c'è. C'è soprattutto una scena con la quale, se fossi al suo posto, chiederei di essere ricordata per sempre. E poi gli altri interpreti, nessuno tacciabile per qualche sbavatura o imperfezione. Insomma, finalmente un film italiano, fatto con poco, ma bello, bello, bello.
Il sito Mymovies gli attribuisce due stelle e mezza. Mi stupisce una valutazione così bassa, ma non sto nemmeno a leggere il commento perché sicuramente sbaglia. 
Le altre due stelle e mezza le aggiungo io. 
Vi invito a fidarvi e andare a vederlo dimenticando le mie parole. Andateci prevenuti, come ci sono andato io: un film italiano... niente tette... piove e fa freddo... c'è Muccino... la Ferilli... mah... la critica lo valuta così così... Ecco siete pronti per "The place".

domenica 5 novembre 2017

Blade runner 2049

Il fatto che ci siamo addormentati, io nei primi dieci minuti e mia moglie sui tre quarti, non deve far pensare che sia un film noioso o che i sedili del cinema Reposi siano troppo confortevoli.
In verità, i sedili del Reposi fanno schifo e la cassiera - che non si fida della mia parola, cioè non crede che io abbia 65 anni e quindi non mi concede la riduzione - è indisponente.
Ci siamo addormentati perché abbiamo un'età, anche se la stronza non ci arriva.
Veniamo al film.
È un sequel e se lo guardiamo come tale merita 10 perché è ben fatto e ci sono delle tette. Ma proprio perché è un sequel manca di freschezza e preso a sé vale poco. Le atmosfere sono curate, perfette. Sembra di ripartire esattamente da dove ci siamo lasciati con il primo episodio. Ma è proprio questo il punto. A parte la trama che cambia un po', non ci sono idee nuove. Il lavoro grosso e sporco lo ha fatto Ridley Scott nell'82 inventandosi e regalandoci un mondo.
Ryan Goslin è un buon replicante, un “lavoro in pelle” che piace molto alle donne. La sua fidanzata virtuale è arrapante ancorché virtuale. Harrison Ford è ancora guardabile. Il film però paga il peccato di non essere originale.
Vederlo era un obbligo, così come ho visto la serie di Indiana Jones, di Jurassic park, di Guerre Stellari. Certo far uscire un episodio ogni 35 anni è un bel rischio. Per dire, se la media è questa, il prossimo io mica lo vedo eh. Ma se per caso ci fossi ancora (avrei 93 anni) quella stronza della cassiera mi deve baciare il culo, altro che biglietto ridotto!