I Grandi come Dino Zoff sono rari. Dopo aver vinto i Campionati del Mondo nel 1982, all’apice della carriera, Zoff si ritirò. La sua immagine non è stata mai sfiorata dal declino. Per questo rimarrà grande per sempre e per questo ha il rispetto di tutto il mondo (tranne che di Berlusconi che lo ha definito “indegno”).
La premessa perché non c’è molto da dire sul film “Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo”. Harrison Ford, alias Indiana Jones, ci ha entusiasmato dall’arca perduta del 1981 fino all’ultima crociata del 1989, che - il titolo lo diceva con estrema chiarezza - doveva essere proprio l’ultima. Averlo resuscitato venti anni dopo è un’idea balorda sposata con un’ispirazione malata. Il risultato che si ottiene assomiglia a quello stato in cui ci si trova, svegliandosi da un bellissimo sogno e cercando di perpetrarlo nel dormiveglia. Si pasticcia con la fantasia, si fa lavorare male il cervello e quel che se ne ricava, insieme al danno fatto al sogno vero, è un mal di testa da cervicale.
Il film sta in piedi grazie migliaia di effetti speciali, ma la trama è così scontata che se hai avuto la sfiga di vedere “il mistero dei templari” con Nicolas Cage, riusciresti a scrivere la sceneggiatura direttamente al cinema, col T9, anticipando tutte le scene. Il giovane attore non protagonista, Shia LaBeouf, (per un attimo nelle ultime scene ti viene il terrore che la serie continuerà con lui) è simpatico come un Cicchetto a cena e convincente come il miele su un panino di wurstel e crauti.
Il fonico di doppiaggio si chiama Carlo Ricotta. Perché nominarlo? Perché magari la prossima volta si ricordi che una voce che parla da una sala di registrazione insonorizzata è diversa da una voce che urla in un sotterraneo, o nella Giungla. Povero Ricotta, in fondo il minore dei mali, in un film che non doveva essere concepito. Spielberg si è dimenticato il profilattico e Harrison Ford avrebbe fatto bene a non darsi. Lo avranno fatto per soldi? Difficile. Più probabile che abbiano tentato di protrarre ancora un po’ lo loro vita di divi del cinema, senza accorgersi che, come tutti coloro che rincorrono l’eterna giovinezza, la stanno perdendo per sempre.