martedì 11 settembre 2018

lavera triste storia dei miei libri

La triste storia dei miei libri.

Perché 'Non è vero' non si trova di carta?
Non lo so, ma tenterò di raccontare come è andata e vi farete un'idea visto che in tanti me lo chiedete.
Immaginail'incipit di quel libro una mattina mentre mi lavavo i denti.
C'erano un bambino e una bambina che dialogavano fitto parlando di una candela. No, non se lo ricorda quasi nessuno immagino, però era un bel dialogo tra due bambini e il libro si intitolava 'Si è fatta la luna'.
Mi ricordo che fui affascinato da quel dialogo perché non è facile far parlare due bambini senza dire banalità, e piacque anche ai lettori perché non si lamentò mai nessuno.
Quelle pagine erano venute così bene che decisi di proporle a qualche editore. Ma come? Spedendo un file word?
No, ebbi un'idea migliore. Andai avanti nel racconto fino a concludere il mio primo romanzo giallo con Serena Ainardi e Renzo Cremona.
Il titolo era si è fatta la luna e fa riferimento a fenomeni meteorologici perché, a quanto pare, la luna nuova può influire sul clima del mese entrante e, siccome ci aspettavano clamorose tempeste, mi fece comodo intitolarlo così, e inoltre non era neanche un brutto titolo.
L'amico Ivan Barra fece una bellissima copertina grafica e io presi accordi con uno stampatore e tirai seicento copie. Sembrava davvero un libro fatto e finito, con la bellissima copertina in cartoncino lucido, e aveva persino un prezzo: tipo 14 euro.
Alla Piemme (e ad altri editori) mandai un'unica copia scrivendo che le copie erano pochissime, tipo 199.
Mentivo ovviamente. Perché più copie avessi distribuito io, meno ne avrebbero vendute loro.
In Piemme un giorno, racconta la storia, si trovarono la direttrice editoriale Maria Giulia Castagnone ed il critico letterario del Sole 24 Ore Giovanni Pacchiano, collaboratore esterno di Piemme: si divisero i primi due pacchi della montagna di libri che avevano davanti ed il mio “Si è fatta la luna” toccò a lui che se lo portò a casa.
Dopo pochi giorni Pacchiano convinse Piemme a comprare i diritti di pubblicazione del libro.
In questi casi l'editore non ti scrive una lettere dicendo “Abbiamo ricevuto il suo scritto e ci è piaciuto molto”, no, di solito ti scrivono per dirti che l'hanno ricevuto, ti ringraziano ma non sono interessati.
Quando invece interessa ti telefonano.
Fu così che, tra lacrime di gioia, ricevetti la telefonata di Francesca L. un pomeriggio: mi confermava di ave ricevuto il manoscritto, che era piaciuto molto e che erano interessati alla pubblicazione.
Cosa dovevo fare oltre che piangere?
Firmare il contratto.
E andò esattamente così. Nel 2010 cedetti i diritti di pubblicazione di Si è fatta la luna alla Piemme, gruppo Mondadori.
I diritti d'autore sono intoccabili e saranno miei per sempre, ma i diritti di pubblicazione furono ceduti quel giorno di ormai otto anni fa, non mi appartengono più.
Nell'occasione mi fu assegnata una editor (L.G.) per la messa a punto del testo definitivo, lavoro si sarebbe dovuto concludere entro l'estate.
Invece, pochi giorni dopo, la curatrice della collana, Francesca, andò in maternità, lasciandomi completamente nelle mani della giovane L.G., la quale, sospetto fin da allora, non amasse per nulla il mio romanzo.
Alla giovane ediror piaceva il Salone del Libro, avere per amici gli scrittori famosi e frequentare il “giro”, ma non il mio libro.
Passano i giorni, i mesi e se li conti anche i minuti,(cit. De André) e non succede nulla. E nessuno mi chiama più.
Vengo invece a sapere che, oltre a Francesca in maternità, anche la direttrice di piemme Maria Giulia Castagnone aveva lasciato Piemme e che non c'era nemmeno più il collaboratore esterno giovanni Pacchiano.
Insomma, hanno comprato i diritti di pubblicazione di un libro e in Piemme non lo sa più nessuno. E a nessuno frega niente.
Ovviamente, ogni qualche settimana mi faccio vivo io con la giovane L.G. chiedendo quando si inizia l'editing...lei mi rimbalza di settimana in settimana senza offrirmi risposte.
Passa quasi un anno quando mi chiama l'editor, chiama lei stavolta. Una chiamata che non mi aspettavo più.
Mi dice che si inizia? No, mi comunica che non ci sono spazi editoriali nel prossimo futuro per il mio romanzo e che la casa editrice è disposta a restituirmi i diritti di pubblicazione a titolo gratuito, che è come dire “il tuo libro non ci interessa, ti restituiamo i diritti e non vogliamo soldi indietro”.
Voi, che cosa avreste fatto?
Io scoppiai a piangere.
Sbagliavo, avrei dovuto accettare e ricominciare da capo. Però pensate alla scala della delusione che mi colse quel giorno: essere scelto tra decine di migliaia di aspiranti autori da Piemme e poi scartato. Per questo piansi invece che accettare.
Per questo oggi non ho i diritti.
Fu soltanto due anni dopo, che la stessa L.G. mi disse “però il tuo romanzo può uscire come ebook Piemme original”.
Cosa significava ebook Piemme original? Semplicemente è una collana di ebook, quindi solo in formato elettronico, non mutuati in libri di carta (sai che valore aggiunto!).
ovvio che accettai. Avevo scelta?
Quell'anno andai al Salone del Libro di Torino e per puro caso mi sedetti in una sala presso la quale, pochi minuti dopo, il nostro professor Pacchiano avrebbe presentato il suo nuovo romanzo.
Mi sedetti tra il pubblico in attesa. Dopo poco, una elegante ed autorevole signora seduta davanti a me cominciò a fotografare con suo cellulare alcuni dei manifesti che adornavano la sala, affissi
lungo tutto il perimetro.
Di che cosa si trattava? Di micro racconti lunghi massimo mille caratteri; micro thriller fatti e finiti da me inventati e redatti e per allestire lo stand del cioccolato Gobino.
Le feci tap tap sulla spalla incuriosito dalla sua curiosità per i racconti e lei mi confermo che li trovava interessanti.
Le domandai se per caso lei fosse un'agente letterario in incognito e lei mi domandò se per caso fossi l'autore dei micro racconti. Lo eravamo entrambi.
Finita la presentazione del libro di Pacchiano mi avvicinai all'autore per congratularmi e averne una copia. Il professor pacchiano mi disse “ma che fine ha fatto il suo romanzo?, perché non l'ho visto pubblicato? Era veramente un buon testo”. Gli confessai che purtroppo ne sapevo quanto lui, anzi meno, e vagamente umiliato accettai in regalo una copia del suo lavoro appena presentato.
“Ma lei non doveva cedere”, mi redarguì Pacchiano. Naturalmente aveva ragione, anziché riprendermi i diritti mi ero lasciato prendere dallo sconforto immaginando che un autore non potesse avere due occasioni nella stessa vita.
La domanda successiva che mi rivolse fu: “ma ha scritto altro?” ed io, che nel frattempo avevo già finito, impaginato e stampato Giulia dorme gli dissi “certo” e gliene consegnai una copia cartacea.
Già che c'ero gli diedi anche una copia di Destini incrociati, anche quello fresco di autostampa, naturalmente autocertificando in perfetta malafede una tiratura falsa di poche centinaia di copie.
Passano pochi giorni e mi richiama direttamente Pacchiano, anzi, mi scrive una mail che ho il piacere di riportare integralmente:

Caro Aldo, ho finito di leggere ora il suo romanzo, che ho trovato bellissimo, come del resto il primo.
Ho già espresso con molta decisione per telefono il mio parere a Francesca L., che peraltro non è responsabile della sorte del primo libro, visto che era in maternità.
Ora, sto parlando privatamente, sorge secondo me un problema.
Questo secondo libro, benché lei riassuma per sommi capi la vicenda del prima, a mio mparare avrebbe bisogno di lettori che avessero letto il primo. Perchè, senza averlo letto, la prima parte può risultare un po' troppo vaga nei riferimenti. Forse all'inizio, dunque, occorrerebbe fare un intervento più deciso di riassunto, per così dire di quanto è successo nel primo libro, e non presentarlo a spizzichi.
Se Francesca fosse orientata a pubblicare in cartaceo questo secondo libro, come io le consiglierò, se ne potrebbe parlare.
Altri commenti o impressioni ce li siamo già scambiati, io e lei, per telefono. Un'altra soluzione potrebbe essere quelle di pubblicare entrami i libri nello stesso volume in cartaceo, ma non vorrei che fosse impraticabile per via della anomalia dell'operazione stessa.
Devo però assolutamente farle i miei complimenti: lei è uno scrittore di valore, e sa tenere il lettore col fiato sospeso.
Un caro saluto, e con amicizia.
Giovanni P.

Caro Aldo, sono a metà di destini incrociati che trovo storia eccezionale e di sorprendente tensione narrativa.
Ho già detto più volte in questi giorni in Piemme il mio parere sulla decisione di accedere direttamente al kindle per il primo romanzo.
Mi lasci finire il libro e ne parliamo.
Un caro saluto.
Giovanni

Cominciate a capirci qualcosa?
Valentina Balsarotti, la distinta signora che fotografava i miei racconti, oggi è la mia agente: mi diede poche ore per decidere, o con noi o con noi; io accettai e secondo me feci un buon affare. Oggi i miei diritti sono rappresentati da dei professionisti capaci di stendere delle clausole contrattuali a me favorevoli.

Pacchiano, facendo seguito a quanto promesso via mail, si è mosso pesantemente in Piemme per far pubblicare in cartaceo sia Giulia dorme (col titolo Non dormirai mai più) che Destini incrociati (col il titolo di Fate presto e mirate al cuore).
Questo di cambiare i titoli dei miei romanzi è un'abitudine che hanno tutti i miei editori.
Tanto è vero che anche il mio nuovo editore, Marsilio, mi ha chiesto di cambiare il titolo al prossimo thriller. Ci sto lavorando anche se non trovo nessuna solidarietà da parte del mio zoccolo duro di lettori che invece apprezza molto il titolo provvisorio Nero e amaro.
Infatti chiedo aiuto a chiunque abbia letto il romanzo che mi dia una mano a trovare un titolo nuovo.
A questo punto avrete capito tutti cosa è successo e perché Non é vero non esiste di carta, nonostante tutti lo vorrebbero; non devo aggiungere nulla sui motivi per cui non esiste la versione cartacea, io non ho nessuna responsabilità in merito.
Se qualcuno davvero si prendesse la briga di scrivere all'editore domandandone i motivi e le possibilità future e mi riferisse gliene sarei veramente grato.

lunedì 28 maggio 2018

Quando feci la promessa

Sono sempre stato figlio unico, ma quando avevo 11 anni lo ero di più. Trascorrevo le giornate in casa a giocare da solo con lego e soldatini. Facevo disputare lunghe partite di calcio ai soldatini, poi sgombravo il tavolo, prendevo la Lettera22 di mio padre e scrivevo la cronaca della partita, completa di interviste ai giocatori. Sognavo di fare il giornalista. Ero un giornalista. Ero soprattutto un bambino felice. I miei genitori, invece, erano preoccupati e un giorno mi domandarono: «Ti piacerebbe andare negli scout?» Sottinteso: “così vedi gente, fai cose, ti muovi un po'.” «No» risposi. E così, una settimana dopo, ero iscritto negli scout, per la precisione nel Leuman 1°, Non credo che esistesse il Leuman 2°, 3° ma il nostro era il Leuman 1°. Perché finii laggiù, quasi a Rivoli, io che abitavo a Torino in zona Santa Rita? Semplice: il capo Riparto era mio cugino, che conoscevo appena. Era un bel ragazzo, moro, la barba scurissima. Parlava volentieri di Dio e di scorregge. Approdai al corpo degli scout a 11 anni senza essere passato prima dai lupetti. È come iscriversi alle medie senza aver fatto le elementari. Non sai fare un nodo che sia uno, quando gli altri piantano l'urlo di squadriglia non sai se puoi, se devi e che cosa urlare, per cui sei sempre indietro. Come quando mi parlano in inglese. Sono lì che cerco di capire la prima frase, che il mio interlocutore è alla fine del discorso. Cos'ha detto? Soprattutto, degli scout non me ne fregava niente. Io volevo il mio lego, i miei soldatini e la mia Lettera22. Una cosa bella c'era: avrei avuto diritto a portare con me un coltellino svizzero, di quelli che hanno due lame oltre a un sacco di accessori inutili. Una delle prime domeniche, ci portarono in campagna per una grande battaglia a “scalpo”. I miei compagni di Riparto erano divisi tra quelli eccitati dalla prospettiva e quelli preoccupati. Io divenni subito il leader di quelli spaventati che erano l'ala sinistra dei preoccupati. Scalpo è un gioco violento: ti devi infilare uno straccio nei pantaloni e lasciare che penda sul sedere come una coda. Il gioco consiste nel prendere lo scalpo degli avversari, ovvero dei nemici. In qualsiasi modo: picchiando, bastonando, scippando, minacciando. C'era chi, a fine giornata, esibiva tutti gli scalpi tolti ai nemici, legati attorno alle braccia sanguinanti. Degli scalpati si perdevano le tracce. Sì lottava in mezzo ai rovi. Tornare con molti scalpi era segno di grande virilità. Io credo che dopo l'entrata in vogore della legge 626 scalpo si giochi al massimo con una app sui tablet, come è giusto che sia, ma non so: mi informerò. Quando quella domenica assolata ci liberarono tra le colline di non so dove, io cercai un posto tranquillo all'ombra, con il mio manipolo di compagni terrorizzati. Erano quelli che avevano già subito il gioco nel passato. Io, se non altro, non avevo un ricordo traumatico da portarmi appresso. Fummo comunque individuati e circondati. Provai a negoziare una resa, ma chi ci trovò, una pattuglia del mitico Volpiano II non aveva intenzione di fare prigionieri. Nessuno mi fece davvero male, ma ricordo poche umiliazioni peggiori di quella. Per fortuna dagli scout si andava solo una volta la settimana, più la domenica. Arriva l'estate e arrivano le vacanze. Si va in montagna con mamma e papà, in campeggio a Cogne dove mi piaceva fare gite e, quando pioveva, amavo giocare con soldatini e lego in roulotte. Avevo anche degli amici, con i quali si giocava con gli archi costruiti con rami di larice (si spezzano ma non si piegano) e frasche di torrente. Io avevo un certo ascendente su quei ragazzi, perché ero l'unico negli scout, quindi le cose selvagge io le sapevo. Ad agosto, però, doccia fredda: C'è da andare al campo estivo scout. Ma come? Anche io? Sì, anche tu. Ma io non voglio. Tu vai. E così, una sera mi presero e mi riportarono a Torino dove fui mi caricato su un pullman con altri 30 o 40 scout. Destinazione: La Vachette, vicino a Briançon, appena oltre il confine con la Francia. In pratica lo sconfinamento dei gendarmni francesi a Bardonecchia di qualche settimana fa altro non è che la rappresaglia per quell’invasione. Io facevo parte della squadriglia dei falchi, non l'ho detto prima, fate finta di averlo sempre saputo. In squadriglia eravamo in sette. Quando si marciava, il primo davanti era il capo squadriglia, l'ultimo era il vice, quello che teneva il guidone. Il guidone era il bastone con il gagliardetto della squadriglia, un simbolo da difendere a costo della vita. Dal secondo al quinto c'erano gli altri, in ordine gerarchico. Io ero il quinto, ovviamente. Quel primo giorno, appena sbarcati dalla corriera, mentre cercavo di governare il mal di testa, gli altri, veloci come lucertole, attrezzarono il nostro angolo: tende, panche, tavolo, focolare, tutto era montato con corde cordini chiodi, assi e macigni. Tutto pronto per l'ispezione. Come tutti quelli che non sanno chi sono, io vagavo da questo e da quello, aspettando che mi dessero delle cose da fare in modo da farmi sentire coautore di qualcosa, ma tutti volevano fare tutto e nessuno mi chiedeva nulla. Fu così che non feci un cazzo per due giorni. La prima sera, in tenda, ebbi una terribile crisi di nostalgia. Pensavo ai miei genitori e me li immaginavo persi senza di me. Piangevo disperato nell'immaginare mamma e papà affranti, che si guardavano nella penombra (perché per la tristezza nessuno dei due avrebbe pensato ad accendere la luce) e si domandavano “E adesso?” Era la prima volta che stavo lontano dai genitori e avevo paura che soffrissero. Ora ho tre figli, mi trovo dalla parte opposta, ho accumulato esperienze e saggezza e infatti non riesco a capire come potessi essere tanto coglione. I giorni passavano tra gite, minchiate, messe, giochi notturni, canti scout, urla, squadriglie che andavano e venivano e io che seguivo, sempre un po' in ritardo. Finché scoprii quello che tutti mormoravano e che nessuno diceva: la domenica ci sarebbe stata la cerimonia. Quale? Quella in cui sarebbero state conferite le specialità e i gradi. Qualcuno avrebbe preso la prima classe, qualcuno la seconda, altri le specialità e i nuovi avrebbero fatto la “promessa”. Io ero uno dei nuovi e non avevo ancora fatto la promessa. Ora uno scout senza promessa è nessuno, è uno spermatozoo senza flagello, uno zabajone senza uova: vale meno di una zanzara che si dibatte in un fondo di acqua e vino. Quella del senza promessa è una non vita. Fare la promessa è come passare da recluta a soldato. Da Alvaro Vitali a Charles Bronson. Tuttavia, a me non importava un gran che, immaginavo, però, che avere la promessa avrebbe forse migliorato il mio status e la mia posizione durante le marce, quindi meglio farla. Senonché, non mi spettava in automatico. Per riceverla dovevo possedere determinati requisiti. Intanto non dovevo aver mai pianto. Invece avevo pianto e mi avevano visto tutti. Dovevo essere nel riparto da almeno 3 mesi e invece erano soltanto due. Dovevo aver contribuito in modo determinante all'allestimento del campo. Invece non solo non avevo fatto una cippa, ma avevo fatto cadere la scorta di carta igienica della squadriglia nel ruscello. Dovevo essere varie altre cose e non corrispondevo a nulla. Però ero cugino del capo e così mi fu comunicato che avrei ricevuto la promessa. Quella domenica, dopo la messa, con tutte squadriglie schierate in quadrato sotto il pino antico, avvenne la cerimonia che mi consacrò Scout dell'ASCI. Associazione Scoutistica Cattolica Italiana e dovetti cantare insieme agli altri linno della promessa. Da quel giorno avrei potuto fare il saluto scout e mi sarei cucito sulla camicia il famoso e ambito giglio, simbolo della mia promessa a Dio, alla patria e al Riparto. Quel giorno feci effettivamente un passo avanti, quello materiale quando fu fatto il mio nome. Per il resto no, non credo. Ero stato accettato da tutti anche prima, anche senza promessa, un po' come mascotte, ma un po' anche come consigliere, perché evidentemente aver coordinato decine e decine di soldatini per anni mi aveva conferito un'aria un po' intellettuale, di quello che la sa lunga. Ero comunque un vero scout, con il coltellino svizzero. Prima che qualcuno pensi bene di me, devo confessare che delle tre promesse... il Riparto lo lasciai dopo pochi mesi, Dio lo abbandoni dopo pochi anni e per la Patria ormai è questione di minuti.

sabato 26 maggio 2018

La padrona dell'acqua

Nella parte alta della montagna c'era una fonte dalla quale sgorgava un'acqua dalle proprietà straordinarie. Su una roccia lì accanto, all'ombra di una sporgenza, sedeva la padrona e tutti quelli che salivano dovevano chiedere a lei per avere un po' della sua acqua.
Un giorno, alla fonte giunse un uomo, le porse il secchio e le chiese di riempirlo.
« Per cosa ti serve? » domandò la padrona.
« Il mio fienile sta bruciando e io devo spegnere il fuoco! »
La donna gli rifiutò l'acqua.
Poco dopo si presentò un altro uomo.
« Per cosa ti serve la mia acqua? »
« I miei campi seccano, il frumento muore. »
La donna gli rifiutò l'acqua.
Venne una giovane.
« Brucio dentro e non voglio peccare. » disse la ragazza.
La donna le rifiutò l'acqua.
Venne una madre a domandare acqua per dissetare i suoi figli, ma la donna le rifiutò l'acqua.
Era già il tramonto quando una giovane donna si presentò con due somari, carichi di secchi. Consegnò il primo e chiese alla padrona di riempirlo.
« Per cosa ti serve tutta quest'acqua? » le domandò l'altra.
« Per prima cosa voglio che lui si specchi e riconosca la colpa nei propri occhi. Per cui dammela limpida. »
« E poi? » domandò la padrona.
« Poi lo spoglierò e, nudo come sarà, lo laverò per ore, fino a quando scomparirà l'odore delle altre donne. Quindi dammela pura. »
E poi?
« Poi lo disseterò goccia a goccia fino a che lui chiuderà gli occhi per il piacere. Per questo la voglio fresca.»
«E poi?»
«Poi, quando sarà stordito dal piacere, lo affogherò. Per cui dammene tanta. »
La padrona della fonte cominciò a riempire i secchi.

lunedì 18 dicembre 2017

Nero e amaro - incipit







Il caffè non si beve in fretta.

Il caffè è fratello del tempo.

Lo si beve lentamente, lentamente.

Il caffè è la voce del gusto, la voce dell’odore.

Il caffè è contemplazione.

Penetra nell’anima e nei ricordi.

(M.Darwish)




1





Con il sole sarebbe anche peggio.
Chilometri di curve: curve cieche, rubate alla roccia, ritorte sopra la scogliera. Curve disegnate da muretti sbrecciati. Asfalto che si avvita nella pietra. Tornanti aspri, spirali che aggrediscono lo stomaco come cattiva nostalgia.
Ma col sole sarebbe peggio.
L’asfalto sembra bagnato, ma è soltanto unto. Decenni di attrito di gomme e bitume, afa e salsedine hanno reso il fondo nero, vischioso e vulnerabile. Le riparazioni non attecchiscono e gli pneumatici fischiano per un niente.
Dove la strada non trova il modo per appendersi alla roccia, la perfora, ma le gallerie, dalla volta altissima e mai rettilinee, regalano un sollievo breve: la luce al latte che si lascia all’entrata si ritrova tale e quale all’uscita. Le pupille fanno esercizio. Fanno anche male.
Un sudario sterilizza il mattino. Non è possibile capire da che parte si nasconda il sole e nemmeno fin dove arrivi il mare.
Improvvisamente, un rettilineo, brevissimo; si può dare soddisfazione al motore per qualche secondo. Dal lato a mare passa la sensazione di una costruzione in bilico sul baratro, poi nuove curve.
«Era un bar!»
«Non mi sembra.»
«Sì, sì! Era un bar o una trattoria.»
La donna si volta indietro per trovare conferma al suo annuncio, ma è tardi: troppo breve il rettifilo e la costruzione è già nascosta da una costola di roccia. Nella sua mente è impressa l’immagine di una tovaglia a quadretti rossi, sfocata come certe fotografie scattate di corsa.
Voltarsi e perdere il contatto visivo con la strada, sia pure per pochi istanti, le fa sentire, forte e improvvisa, la sensazione di nausea che stava cercando di ignorare.
Percepisce una diminuzione nei giri del motore. L’uomo alla guida è indeciso. Forse sta prendendo in considerazione l’idea di tornare indietro e controllare.
Hanno entrambi bisogno di caffè.
Impossibile prevedere il comportamento dell’uomo. Dipende anche dalla strada. Come si può fare inversione senza rischi su quella litoranea così indecisa?
Improvvisamente appare una piazzola sul lato a monte. L’auto decelera.
«Sicura?»
«A me è sembrato aperto...»
Il muso dell’auto punta decisamente verso la parete di roccia e si arresta prima di urtare un sacchetto di immondizia abbandonato lì.
Un attimo dopo l’auto viaggia nella direzione opposta. Adesso sono dalla parte del monte. Le vertigini toccano agli altri.
La donna spera di non essersi sbagliata. Perderebbe tutto il vantaggio che ha su di lui.
È da quando sono partiti, anzi, da quando si sono svegliati (ma ha dormito almeno un po’ quella notte?) che raziona le parole. Non inizia alcun discorso: si limita a comunicazioni di servizio oppure risponde se lui la interpella, ma lo fa sempre con un leggero ritardo, come se fosse in collegamento da un Paese lontano. Vuole sottolineare che tra loro non c’è sincronia e non c’è sintonia. Deve essere assolutamente chiaro che tocca a lui muoversi, proporre, tentare di ricucire.
Il silenzio della donna soffia sulle braci di un senso di colpa, ma è un senso di colpa maschile quello con cui si misura; è provvisorio e non durerà a lungo. Le ore passano e il ricordo di quello che è successo sbiadisce. Tutto sbiadisce con quella luce.
Se ci ripensa, però, avvampa. Lo stomaco si contrae dolorosamente, le dita si fanno artigli e affondano nella pelle del bracciolo. È una ferita aperta. Non può passare come un episodio. Guarda avanti, aspettando di veder ricomparire quella brutta costruzione in bilico sul mare. Ma non era subito lì?
«Adesso quel coglione ripasserà.»
L’uomo si riferisce ad un autocarro che hanno sorpassato con fatica, persino azzardando, pochi minuti prima, quando le curve hanno offerto una breve pausa. Lo hanno tallonato passivamente per quelli che sono sembrati almeno dieci chilometri, assecondando i capricci della strada e adeguando la velocità a quel mezzo che, ci sarebbe da scommettere, non ha mai affrontato la revisione.
Alla prima occasione, l’uomo ha ingranato una marcia bassa e frustato ogni cavallo del motore, ma è dovuto rientrare precipitosamente per l’apparire di una delle rare vetture provenienti in senso opposto. Al secondo rettilineo la manovra è riuscita, anche se il conducente dell’autocarro non ha fatto nulla per agevolarla.
Entro qualche istante, se non si fermeranno prima, lo incroceranno.
L’uomo disattiva il climatizzatore. Fa scendere entrambi i finestrini e in un istante l’afa si rovescia all’interno. Lui è così: pensa a tutto, anche a organizzare un momento di decompressione che li prepari all’atmosfera che troveranno una volta a terra.
Quando si arriva a casa, è lui che le ricorda per tempo di tirar fuori le chiavi del garage. Prevede, organizza, pianifica. È bravo in questo.
Ma allora, ieri sera, perché non ha pensato?
Ora è concentrato alla guida, aspetta di veder apparire il brutto fabbricato di cemento poggiato per metà sulla strada e per metà sostenuto da pilastri che precipitano nel vuoto. Non gli è sembrato un locale pubblico, forse lo è stato.
Un cartello scritto a mano annuncia: “menu turistico 10 euro”. Persino da lontano è facile accorgersi che il 10 non è altro che un 9 corretto in zero e che l'uno posto davanti è costretto in troppo poco spazio per essere autorevole.
La costruzione spunta dopo una curva. Sembra davvero appoggiata sull’aria con metà edificio aggettante, mantenuto al suo posto da alcuni sostegni sottili e obliqui, di cui non si scorgono le fondazioni.
L’auto rallenta e accosta di fronte all’ingresso. Il posto che l’uomo ha scelto invade parte della carreggiata. Non gli piace, ma non vede alternative.
Il locale appare in un afoso squallore: una veranda con tre tavolini quadrati, delimitata da un basso muretto verso la strada. Un’interruzione del cemento permette il passaggio all’interno. Al fondo del cortiletto, una porta protetta da una tenda per le mosche impedisce di vedere l'interno. Potrebbe anche essere chiuso.
«Ma è aperto?» domanda l'uomo.
Cosa potrebbe rispondere lei? Per dire una banalità come “Non lo so, bisogna scendere e provare” preferisce rilanciare. Non ha mai giocato a poker, ma conosce le regole: «Siamo un po’ in mezzo alla strada» dice.
In un’altra occasione risparmierebbe quell’osservazione che ha le potenzialità per innescare una discussione. Lui non accetta critiche su come guida e come parcheggia, ma il credito che lei sente di vantare è talmente alto che si può permettere questo e altro; è anche un modo per misurare quanto potere detiene ancora dopo l’incidente.
Si ostina a definirlo provvisoriamente un incidente, ma non sa davvero. Se lui non si decide a spiegarsi non lo saprà mai.
«Vedi un posto migliore?» Il tono della risposta non è polemico. Le sta domandando se per caso vede un parcheggio che a lui sfugge.
La donna sta per smontare, ma il vecchio autocarro appare improvvisamente dalla curva poco distante. Non c’è tempo per scendere e richiudere la portiera prima che transiti. Il cassonato rallenta, forse lo fa di proposito, come se volesse lasciare dietro di sé il ricordo di un ultimo dispetto insieme a una boccata di alito rovente.
L’aria è vagamente profumata nonostante il passaggio del camion. “Glicine” pensa lei e si guarda intorno alla ricerca della pianta.
«È uno dei nostri posti» osserva lui.
È un’apertura distensiva, ammette che la donna ha visto giusto notando quel locale e dice anche altro. Conferma che hanno dei posti loro; sono una coppia, hanno una storia. Sono in due ma insieme sono uno.
I “loro posti” sono quelli che i turisti solitamente evitano: piccoli caffè nascosti, minuscole trattorie, taverne senza insegna. Questa brutta palafitta sulla costiera è un ottimo pezzo per la loro collezione. Lei lo ha visto per prima, lui si attribuisce il merito di aver deciso di fermarsi e tornare indietro. Lei glielo concede.
«Sperando che sia aperto.»
Lo spera anche la donna. Ha bisogno che la tortura inflitta da quella successione di curve le conceda un momento di pausa e poi vuole dare a lui l'occasione per dire ciò che ha da dire.
Sotto la tettoia non c’è nessuno. Sui tavolini sono fissate delle cerate trattenute da fermagli ossidati. Una è a quadretti rossi e bianchi. Aveva visto bene.
I portacenere, triangoli di alluminio, tutti diversi tra loro, sono vuoti ma non puliti. Evidentemente, a eliminare mozziconi e cenere non è stato il gestore ma un colpo vento.
L’apertura nel basso muretto permette il passaggio di una persona alla volta. Lui, educatamente, le cede il passo. È da tanto che non lo fa. In sei anni di vita insieme molte cose si perdono e se improvvisamente ritornano, spesso c'è un motivo.
La donna, soddisfatta, passa.

venerdì 8 dicembre 2017

Suburbicon

Scritto dai fratelli Coen, interpretato da Matt Demon e Julianne Moore.
Ecco: qualunque regista (Vanzina e Neri Parenti esclusi ovviamente) saprebbe tirar fuori qualcosa di decente con questi elementi a disposizione,
George Clooney legge la sceneggiatura, si immagina il film e che fa? Inizia le riprese? No, prima si procura degli attori non protagonisti così efficaci che diventano più protagonisti dei protagonisti. Ci sono delle facce in questo film che reclamano la standing ovation. Ora, io ho una memoria davvero scarsa, altrimenti direi quante e quali citazioni ci sono nelle scene che si susseguono, nei volti e nella perfezione di certe inquadrature. Per esempio, non ho mai visto un pomolo di porta bello e illuminato come quello che ruota in Suburbicon, né un'ombra su un muro che sappia parlare bene come questa. Clooney, nel ritrarre l'uno e l'altra, riesce a far recitare come grandi attori persino ombre e riflessi.
Infine, Clooney fa il Clooney, ovvero tenta di rovinare il film infilandolo nel cestello della lavatrice e centrifugando con il programma "contesto sociale". Per fortuna la sceneggiatura dei fratelli Coen gli impedisce di fare cazzate e la deriva di denuncia razzista, pur essendo ben presente, resta in secondo piano. In close up rimane una storia "pulp" che potrebbero aver diretto Hitchcook e Tarantino insieme, un po' litigando, un po' dandosi il cinque. 
Suburbicon potrebbe anche non piacere a tutti e lo capirei, perché è più bello che emozionante. Più appagante che affascinante. Per me è assolutamente soddisfacente, persino da rivedere a breve, ma forse si era capito.

sabato 25 novembre 2017

Jane Eyre

Mia nonna parlava con la televisione. Stravedeva per Andreotti e quando qualcuno lo attaccava durante un dibattito televisivo, lei lo difendeva dalla sedia della sua cucina urlando al televisore.
Ho sempre sorriso di questa cosa, chiedendomi se alla sua età (andava per i 90) avrei fatto la stessa cosa.
Ebbene, ci sono arrivato prima. È successo ieri, ascoltando gli ultimi capitoli dell'audiolibro Jane Eyre di Charlotte Brontë.
Quasi ogni sera percorro 7 chilometri di buon passo tra i viottoli di campagna dietro casa. Mi infilo gli auricolari e mi immergo nella lettura di un paio di capitoli. Si può dire “lettura” riferendosi a un audiolibro? Credo di sì. Intanto perché c'è qualcuno che legge, nel mio caso Silvia Ceschini, alla quale attribuisco una gran parte di merito nell'avermi trascinato nella storia, con una lettura precisa e una voce dolce e melodiosa. E poi perché, comunque, la sera, nel letto, vado avanti per conto mio con il libro vero e proprio.
I passi che mi hanno fatto irritare li ho vissuti con un pungente odore di letame nel naso, scansando migliaia di macchie sospette sulla strada, perse da qualche trattore sparpagliamerda. “Ma ammazzati!” urlavo. E poi: “Ma basta, ma mandalo a fare in culo!” “Ma taci, stronzo di merda!” Questo dicevo nel buio, figurandomi di alzare le mani su Saint John, uno dei predicatori più insopportabili della letteratura di sempre. Ora, arrivare a imprecare contro personaggi immaginari significa due cose: essere ormai rincoglioniti (e ci sta), ma soprattutto che chi ha scritto ha saputo fare meravigliosamente bene il suo lavoro. Charlotte Brontë non è celebre per caso fortuito e questa storia, resa con poetica semplicità è un capolavoro che merita tutta la fama di cui gode. Chi si diletta a scrivere, come io faccio, quando ritiene di aver raggiunto una buona qualità nelle proprie righe, dovrebbe rileggersi qualche pagina a caso di Jane Eyre utilizzandole come benchmark, anche se, se davvero si procedesse così, si finirebbe per non riuscire a scrivere più nulla.

lunedì 13 novembre 2017

The place

Ci sono dei film che mi lasciano addosso un po' di febbre perché superano la barriera schermo/spettatore e mi arrivano addosso, si insinuano persino sotto la felpa e sotto la maglietta.
Il talento, in dosi importanti e versato denso sullo schermo, una volta ingerito, resta lì a fare bene un po' male. 
Paolo Genovese conferma di essere una distilleria di questo elisir, ma non aveva bisogno di dimostrarlo, avendo guadagnato la mia stima già due anni fa con “Perfetti sconosciuti”.
Oggi immagina e scrive una nuova storia, semplice, profonda e terribile, e la circoscrive in una sola location. Non ci si muove mai da quel “place”, il tavolino di un bar. Le inquadrature si ripetono spesso, non so quante siano, una dozzina forse, ma di lì non ci si schioda. Eppure, con l'immaginazione si possono vedere e seguire i diversi altri rami che la storia racconta, ma che la pellicola non mostra.
Anche per dirigere gli attori occorre talento. Non parliamo poi per sceglierli e tenerli insieme.
Valerio Mastrandrea è il protagonista. Sempre in scena. Sempre perfetto, un'interpretazione con cui potrebbe chiudere la carriera perché di più non potrà fare. Sabrina Ferilli... chi avrebbe mai detto che Sabrina Ferilli...? E invece, Sabrina Ferilli c'è. C'è soprattutto una scena con la quale, se fossi al suo posto, chiederei di essere ricordata per sempre. E poi gli altri interpreti, nessuno tacciabile per qualche sbavatura o imperfezione. Insomma, finalmente un film italiano, fatto con poco, ma bello, bello, bello.
Il sito Mymovies gli attribuisce due stelle e mezza. Mi stupisce una valutazione così bassa, ma non sto nemmeno a leggere il commento perché sicuramente sbaglia. 
Le altre due stelle e mezza le aggiungo io. 
Vi invito a fidarvi e andare a vederlo dimenticando le mie parole. Andateci prevenuti, come ci sono andato io: un film italiano... niente tette... piove e fa freddo... c'è Muccino... la Ferilli... mah... la critica lo valuta così così... Ecco siete pronti per "The place".