A 13 anni, ai miei compagni di
giochi che erano i soldatini e il lego, aggiunsi i romanzi di Urania. Quando
non giocavo, mi procuravo i primi, feroci mal di testa standomene
tutto storto sul letto a leggere.
Questo a mia madre non piaceva.
Archiviata la parentesi presso gli scout, un giorno mi disse:
“Giovanni fa pallanuoto, perché non ti iscrivi anche tu?”
Io risi, perché sapevo nuotare
soltanto con le pinne.
Lei disse che avrei imparato e mi
ritrovai iscritto al Centro Sportivo Fiat.
Va detto che io non avevo nessuna
voglia di fare pallanuoto, ma dirlo a lei non servì: mi ritrovai a
fare allenamento in corso Moncalieri, dall'altra parte del Po, per
chi non è di Torino, dall'altra parte del mondo per me che abitavo a
Santa Rita.
Una breve digressione. Chi è che si
iscrive a un corso di pallanuoto? Diciamo la verità: pochi. Ci sono
gli appassionati, ma in genere pallanuotisti si diventa quando, dopo
anni di pre-agonismo e agonismo nel nuoto, appare chiaro che non ci
sono i numeri per diventare campioni.
I miei compagni di corso, dunque,
venivano dalle gare di nuoto. Io dai soldatini e dai romanzi di
Urania.
Torneo estivo. Piscina Fiat di corso Moncalieri |
Ho un ricordo del primo giorno.
L'allenatore si chiamava Mattia Aversa e mi teneva d'occhio perché
aveva intuito che io, dall'altra parte della piscina non ci sarei mai
arrivato.
Mi diede qualche rudimento sul nuoto,
mi affidò un pallone giallo e mi disse di battere le gambe tenendo
quello davanti a me. Fu così che iniziai a muovermi nell'acqua
mentre i miei compagni sfrecciavano su e giù, sommando vasche su
vasche. Tra quelli del mio anno ce n'era uno che si chiamava
Agagliate, un cognome da casello della A4, ma una velocità da
Freccia rossa, un altro si chiamava Macchia ed era una saetta. Poi
c'erano i Capobianco, di pura origina napoletana, come la tradizione
della pallanuoto impone. C'era il mio amico Giovanni, quello che
secondo mia madre non avrei avuto difficoltà ad emulare. Tutti
imprendibili e quando, in partita, mi attaccavo alle loro caviglie
per non lasciarli scappare, o mi beccavo un calcio in faccia o
l'arbitro mi espelleva.
Fortuna vuole che negli anni 70 non
fosse ancora stato inventato il bullismo viceversa sarei stato una
vittima perfetta.
Ho altri ricordi di quel primo anno e,
tra tutti, uno dell'ultimo giorno, prima della pausa estiva. Ci fu un
torneo serale, riflettori accesi, aria tiepida, genitori sugli spalti
della piscina. Quando fui mandato in acqua, nel quarto e ultimo
tempo, gli avversari si rinfrancarono. L'uomo in più, nella
pallanuoto è uno schema importante, forse l'unico che ci sia. E con
me in vasca loro avrebbero avuto l'uomo in più, perché io ero, per
definizione, l'uomo in meno. Insomma un'occasione per fare strage di
reti.
Sapendo quale fosse la mia velocità,
nicchiavo a centro vasca, in modo da ripiegare per tempo quando
perdevamo la palla, ma nel corso di un'azione mi ritrovai avanti, ma
avanti avanti e ricevetti persino la palla e ci fu anche chi mi
urlava “Tira!” “Tira cazzo! Tira!” Ma dicevano a me? E sì
che dicevano a me, ero io ad avere la palla sulla linea dei quattro
metri e non ero nemmeno marcato. In porta di là forse c'era Bodrone,
che parava come un portone e aveva le braccia talmente lunghe che
quando camminava si poteva tirare su i calzini. O forse c'era un
altro portiere, non ricordo. Ricordo però che avevo 'sta palla in
mano, la calottina storta che mi tappava un occhio, il fiatone, la
paura di non farcela a tornare in tempo, la luce dei riflettori negli
occhi, l'acqua alla gola (letteralmente) e la palla in mano che
pesava una cosa esagerata. L'adrenalina o ti fa scattare e moltiplica le energie o
ti pietrifica e ti perde. Io sono uno che si pietrifica. Sono il
coniglio davanti ai fari del Tir che ti corre addosso.
“Ma tira cazzo!” Forse lo urlavano
anche dalle tribune, non saprei. Era fine stagione e io non avevo
segnato nemmeno un gol, nemmeno nelle partite di allenamento. I miei
compagni invece tenevano il conto e il penultimo ne aveva almeno una
ventina, il primo, il maschio alfa, almeno duecento.
“Tira!”
Non si capiva perché non fossi marcato
da nessuno in quell'azione, forse non mi avevano visto, mezzo
affondato come avrebbe fatto la Costa Concordia nel secolo
successivo. Qualcuno però cominciò a preoccuparsi e cominciarono a
urlare anche gli avversari. “E quello?” Sottinteso: "chi lo marca?"
Qualcuno spuntò dalla schiuma e si diresse verso di me con la
velocità di una moto d'acqua. Mi figurai travolto dalla prua a
bulbo, massacrato dalle gomitate, affondato come il Titanic e
soprattutto immaginai la fuga dell'avversario con la mia palla verso
la porta opposta, con sua massima gloria e mia somma umiliazione.
Allora alzai quel braccio debole e tremante. La palla lasciò
l'acqua. Il portiere (non era mica Bodrone, sono quasi sicuro che
fosse un altro) si mise in pressione, alzai ancora di più il braccio
armato e di conseguenza, pur avendo fatto molti progressi in
acquaticità, affondai fino agli occhi (all'unico occhio, l'altro,
ricordo, era coperto dalla calottina). Azzardai due o tre finte che
non preoccuparono affatto il portiere, poi guardai l'incrociatore che
mi stava arrivando addosso avanti tutta e il panico fece il resto.
Invece di tirare forte e teso mirando un angolo della porta come
sarebbe stato giusto vista la posizione, feci partire una palombella
(un pallonetto morbido) che si usa solo quando il portiere è
spiazzato. Invece era piazzatissimo. Per questo non se l'aspettava. La
parabola si alzò, poi si abbassò ed entrò dove doveva entrare.
Gol.
In tribuna, qualcuno disse “Quello è
mio figlio”.
Cus Torino, sono quello in mezzo in basso (peloso) |
L'allenatore approfittò del gol per
fare le sostituzioni quindi per fare uscire me. Ma che importava?
Rimasi in forza (si fa per dire) al
Fiat per tre anni. Non diventai mai veloce, ma supplivo con altre
doti. Quali? Non ricordo. La prima squadra del Fiat pallanuoto
giocava in serie A. Voglio dire: se fosse caduto l'aereo con la prima
squadra e poi quello con le riserve, se tutti gli juniores fossero
morti di ebola e gli allievi si fossero ammazzati di seghe, allora
sarebbe toccato a me scendere in vasca e giocare in serie A.
Non accadde mai nulla del genere, anche
perché le trasferte si facevano in pullman.
All'età di diciassette anni, il Fiat mi cedette gratuitamente al Cus Torino, (sai che
regalo...)! che militava in serie C. Lì non c'erano squadre
giovanili, solo la prima squadra. Insomma, ero un giocatore di serie
C, quelli che nel calcio stanno in due in una figurina. L'allenatore
era ligure e si chiamava Piccardo. Mi diceva solo una cosa, con un
pesante accento di Bogliasco: “Aldo Aldo, ricorda: “Bacco tabacco
e venere riducono l'uomo in cenere”. Me lo diceva un po' a cazzo
perché sì, fumavo, ma non bevevo e le ragazze proprio non me la
davano.
I rapporti con i compagni al Cus erano
diversi. Qui c'era gente di tutte le età. C'era Puleo, un siciliano che, non so perché, ma non mi ha mai picchiato, pur se gli si leggeva
nello sguardo la voglia di farmi male. C'erano vari personaggi e
c'erano anche Claudio e Mamo, che furono i miei migliori amici di
quel periodo. Insomma, cominciai a divertirmi anche se in serie C il
primo gol devo ancora segnarlo. Ma non si sa mai.
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