venerdì 19 maggio 2017

Quando diventai campione di pallanuoto

A 13 anni, ai miei compagni di giochi che erano i soldatini e il lego, aggiunsi i romanzi di Urania. Quando non giocavo, mi procuravo i primi, feroci mal di testa standomene tutto storto sul letto a leggere.
Questo a mia madre non piaceva. Archiviata la parentesi presso gli scout, un giorno mi disse: “Giovanni fa pallanuoto, perché non ti iscrivi anche tu?”
Io risi, perché sapevo nuotare soltanto con le pinne.
Lei disse che avrei imparato e mi ritrovai iscritto al Centro Sportivo Fiat.
Va detto che io non avevo nessuna voglia di fare pallanuoto, ma dirlo a lei non servì: mi ritrovai a fare allenamento in corso Moncalieri, dall'altra parte del Po, per chi non è di Torino, dall'altra parte del mondo per me che abitavo a Santa Rita.
Una breve digressione. Chi è che si iscrive a un corso di pallanuoto? Diciamo la verità: pochi. Ci sono gli appassionati, ma in genere pallanuotisti si diventa quando, dopo anni di pre-agonismo e agonismo nel nuoto, appare chiaro che non ci sono i numeri per diventare campioni.
I miei compagni di corso, dunque, venivano dalle gare di nuoto. Io dai soldatini e dai romanzi di Urania.
Torneo estivo. Piscina Fiat di corso Moncalieri
Ho un ricordo del primo giorno. L'allenatore si chiamava Mattia Aversa e mi teneva d'occhio perché aveva intuito che io, dall'altra parte della piscina non ci sarei mai arrivato.
Mi diede qualche rudimento sul nuoto, mi affidò un pallone giallo e mi disse di battere le gambe tenendo quello davanti a me. Fu così che iniziai a muovermi nell'acqua mentre i miei compagni sfrecciavano su e giù, sommando vasche su vasche. Tra quelli del mio anno ce n'era uno che si chiamava Agagliate, un cognome da casello della A4, ma una velocità da Freccia rossa, un altro si chiamava Macchia ed era una saetta. Poi c'erano i Capobianco, di pura origina napoletana, come la tradizione della pallanuoto impone. C'era il mio amico Giovanni, quello che secondo mia madre non avrei avuto difficoltà ad emulare. Tutti imprendibili e quando, in partita, mi attaccavo alle loro caviglie per non lasciarli scappare, o mi beccavo un calcio in faccia o l'arbitro mi espelleva.
Fortuna vuole che negli anni 70 non fosse ancora stato inventato il bullismo viceversa sarei stato una vittima perfetta.
Ho altri ricordi di quel primo anno e, tra tutti, uno dell'ultimo giorno, prima della pausa estiva. Ci fu un torneo serale, riflettori accesi, aria tiepida, genitori sugli spalti della piscina. Quando fui mandato in acqua, nel quarto e ultimo tempo, gli avversari si rinfrancarono. L'uomo in più, nella pallanuoto è uno schema importante, forse l'unico che ci sia. E con me in vasca loro avrebbero avuto l'uomo in più, perché io ero, per definizione, l'uomo in meno. Insomma un'occasione per fare strage di reti.
Sapendo quale fosse la mia velocità, nicchiavo a centro vasca, in modo da ripiegare per tempo quando perdevamo la palla, ma nel corso di un'azione mi ritrovai avanti, ma avanti avanti e ricevetti persino la palla e ci fu anche chi mi urlava “Tira!” “Tira cazzo! Tira!” Ma dicevano a me? E sì che dicevano a me, ero io ad avere la palla sulla linea dei quattro metri e non ero nemmeno marcato. In porta di là forse c'era Bodrone, che parava come un portone e aveva le braccia talmente lunghe che quando camminava si poteva tirare su i calzini. O forse c'era un altro portiere, non ricordo. Ricordo però che avevo 'sta palla in mano, la calottina storta che mi tappava un occhio, il fiatone, la paura di non farcela a tornare in tempo, la luce dei riflettori negli occhi, l'acqua alla gola (letteralmente) e la palla in mano che pesava una cosa esagerata. L'adrenalina o ti fa scattare e moltiplica le energie o ti pietrifica e ti perde. Io sono uno che si pietrifica. Sono il coniglio davanti ai fari del Tir che ti corre addosso.
“Ma tira cazzo!” Forse lo urlavano anche dalle tribune, non saprei. Era fine stagione e io non avevo segnato nemmeno un gol, nemmeno nelle partite di allenamento. I miei compagni invece tenevano il conto e il penultimo ne aveva almeno una ventina, il primo, il maschio alfa, almeno duecento.
“Tira!”
Non si capiva perché non fossi marcato da nessuno in quell'azione, forse non mi avevano visto, mezzo affondato come avrebbe fatto la Costa Concordia nel secolo successivo. Qualcuno però cominciò a preoccuparsi e cominciarono a urlare anche gli avversari. “E quello?” Sottinteso: "chi lo marca?" Qualcuno spuntò dalla schiuma e si diresse verso di me con la velocità di una moto d'acqua. Mi figurai travolto dalla prua a bulbo, massacrato dalle gomitate, affondato come il Titanic e soprattutto immaginai la fuga dell'avversario con la mia palla verso la porta opposta, con sua massima gloria e mia somma umiliazione. Allora alzai quel braccio debole e tremante. La palla lasciò l'acqua. Il portiere (non era mica Bodrone, sono quasi sicuro che fosse un altro) si mise in pressione, alzai ancora di più il braccio armato e di conseguenza, pur avendo fatto molti progressi in acquaticità, affondai fino agli occhi (all'unico occhio, l'altro, ricordo, era coperto dalla calottina). Azzardai due o tre finte che non preoccuparono affatto il portiere, poi guardai l'incrociatore che mi stava arrivando addosso avanti tutta e il panico fece il resto. Invece di tirare forte e teso mirando un angolo della porta come sarebbe stato giusto vista la posizione, feci partire una palombella (un pallonetto morbido) che si usa solo quando il portiere è spiazzato. Invece era piazzatissimo. Per questo non se l'aspettava. La parabola si alzò, poi si abbassò ed entrò dove doveva entrare. Gol.
In tribuna, qualcuno disse “Quello è mio figlio”.
Cus Torino, sono quello in mezzo in basso (peloso)
L'allenatore approfittò del gol per fare le sostituzioni quindi per fare uscire me. Ma che importava?
Rimasi in forza (si fa per dire) al Fiat per tre anni. Non diventai mai veloce, ma supplivo con altre doti. Quali? Non ricordo. La prima squadra del Fiat pallanuoto giocava in serie A. Voglio dire: se fosse caduto l'aereo con la prima squadra e poi quello con le riserve, se tutti gli juniores fossero morti di ebola e gli allievi si fossero ammazzati di seghe, allora sarebbe toccato a me scendere in vasca e giocare in serie A.
Non accadde mai nulla del genere, anche perché le trasferte si facevano in pullman.
All'età di diciassette anni, il Fiat mi cedette gratuitamente al Cus Torino, (sai che regalo...)! che militava in serie C. Lì non c'erano squadre giovanili, solo la prima squadra. Insomma, ero un giocatore di serie C, quelli che nel calcio stanno in due in una figurina. L'allenatore era ligure e si chiamava Piccardo. Mi diceva solo una cosa, con un pesante accento di Bogliasco: “Aldo Aldo, ricorda: “Bacco tabacco e venere riducono l'uomo in cenere”. Me lo diceva un po' a cazzo perché sì, fumavo, ma non bevevo e le ragazze proprio non me la davano.
I rapporti con i compagni al Cus erano diversi. Qui c'era gente di tutte le età. C'era Puleo, un siciliano che, non so perché, ma non mi ha mai picchiato, pur se gli si leggeva nello sguardo la voglia di farmi male. C'erano vari personaggi e c'erano anche Claudio e Mamo, che furono i miei migliori amici di quel periodo. Insomma, cominciai a divertirmi anche se in serie C il primo gol devo ancora segnarlo. Ma non si sa mai.

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