lunedì 28 maggio 2018
Quando feci la promessa
Sono sempre stato figlio unico, ma quando avevo 11 anni lo ero di più.
Trascorrevo le giornate in casa a giocare da solo con lego e soldatini.
Facevo disputare lunghe partite di calcio ai soldatini, poi sgombravo
il tavolo, prendevo la Lettera22 di mio padre e scrivevo la cronaca
della partita, completa di interviste ai giocatori. Sognavo di fare il
giornalista. Ero un giornalista.
Ero soprattutto un bambino felice.
I miei genitori, invece, erano preoccupati e un giorno mi domandarono:
«Ti piacerebbe andare negli scout?» Sottinteso: “così vedi gente, fai
cose, ti muovi un po'.”
«No» risposi. E così, una settimana dopo, ero iscritto negli scout,
per la precisione nel Leuman 1°, Non credo che esistesse il Leuman 2°,
3° ma il nostro era il Leuman 1°.
Perché finii laggiù, quasi a Rivoli, io che abitavo a Torino in zona
Santa Rita? Semplice: il capo Riparto era mio cugino, che conoscevo
appena. Era un bel ragazzo, moro, la barba scurissima. Parlava
volentieri di Dio e di scorregge.
Approdai al corpo degli scout a 11 anni senza essere passato prima dai
lupetti. È come iscriversi alle medie senza aver fatto le elementari.
Non sai fare un nodo che sia uno, quando gli altri piantano l'urlo di
squadriglia non sai se puoi, se devi e che cosa urlare, per cui sei
sempre indietro. Come quando mi parlano in inglese. Sono lì che cerco di
capire la prima frase, che il mio interlocutore è alla fine del
discorso. Cos'ha detto?
Soprattutto, degli scout non me ne fregava niente. Io volevo il mio
lego, i miei soldatini e la mia Lettera22. Una cosa bella c'era: avrei
avuto diritto a portare con me un coltellino svizzero, di quelli che
hanno due lame oltre a un sacco di accessori inutili.
Una delle prime domeniche, ci portarono in campagna per una grande
battaglia a “scalpo”. I miei compagni di Riparto erano divisi tra
quelli eccitati dalla prospettiva e quelli preoccupati. Io divenni
subito il leader di quelli spaventati che erano l'ala sinistra dei
preoccupati.
Scalpo è un gioco violento: ti devi infilare uno straccio nei
pantaloni e lasciare che penda sul sedere come una coda. Il gioco
consiste nel prendere lo scalpo degli avversari, ovvero dei nemici. In
qualsiasi modo: picchiando, bastonando, scippando, minacciando.
C'era chi, a fine giornata, esibiva tutti gli scalpi tolti ai nemici,
legati attorno alle braccia sanguinanti. Degli scalpati si perdevano le
tracce. Sì lottava in mezzo ai rovi. Tornare con molti scalpi era
segno di grande virilità. Io credo che dopo l'entrata in vogore della
legge 626 scalpo si giochi al massimo con una app sui tablet, come è
giusto che sia, ma non so: mi informerò.
Quando quella domenica assolata ci liberarono tra le colline di non so
dove, io cercai un posto tranquillo all'ombra, con il mio manipolo di
compagni terrorizzati. Erano quelli che avevano già subito il gioco nel
passato. Io, se non altro, non avevo un ricordo traumatico da portarmi
appresso. Fummo comunque individuati e circondati. Provai a negoziare
una resa, ma chi ci trovò, una pattuglia del mitico Volpiano II non
aveva intenzione di fare prigionieri.
Nessuno mi fece davvero male, ma ricordo poche umiliazioni peggiori di
quella. Per fortuna dagli scout si andava solo una volta la settimana,
più la domenica.
Arriva l'estate e arrivano le vacanze. Si va in montagna con mamma e
papà, in campeggio a Cogne dove mi piaceva fare gite e, quando pioveva,
amavo giocare con soldatini e lego in roulotte. Avevo anche degli
amici, con i quali si giocava con gli archi costruiti con rami di
larice (si spezzano ma non si piegano) e frasche di torrente. Io avevo
un certo ascendente su quei ragazzi, perché ero l'unico negli scout,
quindi le cose selvagge io le sapevo.
Ad agosto, però, doccia fredda: C'è da andare al campo estivo scout.
Ma come? Anche io?
Sì, anche tu.
Ma io non voglio.
Tu vai.
E così, una sera mi presero e mi riportarono a Torino dove fui mi
caricato su un pullman con altri 30 o 40 scout. Destinazione: La
Vachette, vicino a Briançon, appena oltre il confine con la Francia. In
pratica lo sconfinamento dei gendarmni francesi a Bardonecchia di
qualche settimana fa altro non è che la rappresaglia per
quell’invasione.
Io facevo parte della squadriglia dei falchi, non l'ho detto prima,
fate finta di averlo sempre saputo.
In squadriglia eravamo in sette. Quando si marciava, il primo davanti
era il capo squadriglia, l'ultimo era il vice, quello che teneva il
guidone. Il guidone era il bastone con il gagliardetto della
squadriglia, un simbolo da difendere a costo della vita. Dal secondo al
quinto c'erano gli altri, in ordine gerarchico. Io ero il quinto,
ovviamente. Quel primo giorno, appena sbarcati dalla corriera, mentre
cercavo di governare il mal di testa, gli altri, veloci come lucertole,
attrezzarono il nostro angolo: tende, panche, tavolo, focolare, tutto
era montato con corde cordini chiodi, assi e macigni. Tutto pronto per
l'ispezione. Come tutti quelli che non sanno chi sono, io vagavo da
questo e da quello, aspettando che mi dessero delle cose da fare in modo
da farmi sentire coautore di qualcosa, ma tutti volevano fare tutto e
nessuno mi chiedeva nulla. Fu così che non feci un cazzo per due
giorni.
La prima sera, in tenda, ebbi una terribile crisi di nostalgia.
Pensavo ai miei genitori e me li immaginavo persi senza di me. Piangevo
disperato nell'immaginare mamma e papà affranti, che si guardavano
nella penombra (perché per la tristezza nessuno dei due avrebbe pensato
ad accendere la luce) e si domandavano “E adesso?” Era la prima volta
che stavo lontano dai genitori e avevo paura che soffrissero. Ora ho
tre figli, mi trovo dalla parte opposta, ho accumulato esperienze e
saggezza e infatti non riesco a capire come potessi essere tanto
coglione.
I giorni passavano tra gite, minchiate, messe, giochi notturni, canti
scout, urla, squadriglie che andavano e venivano e io che seguivo,
sempre un po' in ritardo. Finché scoprii quello che tutti mormoravano e
che nessuno diceva: la domenica ci sarebbe stata la cerimonia. Quale?
Quella in cui sarebbero state conferite le specialità e i gradi.
Qualcuno avrebbe preso la prima classe, qualcuno la seconda, altri le
specialità e i nuovi avrebbero fatto la “promessa”.
Io ero uno dei nuovi e non avevo ancora fatto la promessa. Ora uno
scout senza promessa è nessuno, è uno spermatozoo senza flagello, uno
zabajone senza uova: vale meno di una zanzara che si dibatte in un
fondo di acqua e vino. Quella del senza promessa è una non vita. Fare
la promessa è come passare da recluta a soldato. Da Alvaro Vitali a
Charles Bronson.
Tuttavia, a me non importava un gran che, immaginavo, però, che avere
la promessa avrebbe forse migliorato il mio status e la mia posizione
durante le marce, quindi meglio farla. Senonché, non mi spettava in
automatico. Per riceverla dovevo possedere determinati requisiti.
Intanto non dovevo aver mai pianto. Invece avevo pianto e mi avevano
visto tutti.
Dovevo essere nel riparto da almeno 3 mesi e invece erano soltanto due.
Dovevo aver contribuito in modo determinante all'allestimento del
campo. Invece non solo non avevo fatto una cippa, ma avevo fatto cadere
la scorta di carta igienica della squadriglia nel ruscello.
Dovevo essere varie altre cose e non corrispondevo a nulla.
Però ero cugino del capo e così mi fu comunicato che avrei ricevuto la
promessa.
Quella domenica, dopo la messa, con tutte squadriglie schierate in
quadrato sotto il pino antico, avvenne la cerimonia che mi consacrò
Scout dell'ASCI. Associazione Scoutistica Cattolica Italiana e dovetti
cantare insieme agli altri linno della promessa. Da quel giorno avrei
potuto fare il saluto scout e mi sarei cucito sulla camicia il famoso e
ambito giglio, simbolo della mia promessa a Dio, alla patria e al
Riparto.
Quel giorno feci effettivamente un passo avanti, quello materiale
quando fu fatto il mio nome. Per il resto no, non credo. Ero stato
accettato da tutti anche prima, anche senza promessa, un po' come
mascotte, ma un po' anche come consigliere, perché evidentemente aver
coordinato decine e decine di soldatini per anni mi aveva conferito
un'aria un po' intellettuale, di quello che la sa lunga.
Ero comunque un vero scout, con il coltellino svizzero. Prima che
qualcuno pensi bene di me, devo confessare che delle tre promesse...
il Riparto lo lasciai dopo pochi mesi, Dio lo abbandoni dopo pochi anni
e per la Patria ormai è questione di minuti.
sabato 26 maggio 2018
La padrona dell'acqua
Nella parte alta della montagna c'era
una fonte dalla quale sgorgava un'acqua dalle proprietà
straordinarie. Su una roccia lì accanto, all'ombra di una sporgenza, sedeva la padrona e tutti quelli che
salivano dovevano chiedere a lei per avere un po' della sua acqua.
Un giorno, alla fonte giunse un uomo, le porse il
secchio e le chiese di riempirlo.
« Per cosa ti serve? » domandò la
padrona.
« Il mio fienile sta bruciando e io
devo spegnere il fuoco! »
La donna gli rifiutò l'acqua.
Poco dopo si presentò un altro uomo.
« Per cosa ti serve la mia acqua? »
« I miei campi seccano, il frumento
muore. »
La donna gli rifiutò l'acqua.
Venne una giovane.
« Brucio dentro e non voglio peccare.
» disse la ragazza.
La donna le rifiutò l'acqua.
Venne una madre a domandare acqua per
dissetare i suoi figli, ma la donna le rifiutò l'acqua.
Era già il tramonto quando una
giovane donna si presentò con due somari, carichi di secchi. Consegnò
il primo e chiese alla padrona di riempirlo.
« Per cosa ti serve tutta quest'acqua?
» le domandò l'altra.
« Per prima cosa voglio che lui si
specchi e riconosca la colpa nei propri occhi. Per cui dammela
limpida. »
« E poi? » domandò la padrona.
« Poi lo spoglierò e, nudo come sarà,
lo laverò per ore, fino a quando scomparirà l'odore delle altre donne. Quindi
dammela pura. »
E poi?
« Poi lo disseterò goccia a goccia
fino a che lui chiuderà gli occhi per il piacere. Per questo la
voglio fresca.»
«E poi?»
«Poi, quando sarà stordito dal
piacere, lo affogherò. Per cui dammene tanta. »
La padrona della fonte cominciò a
riempire i secchi.
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