Il caffè non si beve in fretta.
Il caffè è fratello del tempo.
Lo si beve lentamente, lentamente.
Il caffè è la voce del gusto, la voce
dell’odore.
Il caffè è contemplazione.
Penetra nell’anima e nei ricordi.
(M.Darwish)
1
Con il sole sarebbe anche peggio.
Chilometri di curve: curve cieche,
rubate alla roccia, ritorte sopra la scogliera. Curve disegnate da
muretti sbrecciati. Asfalto che si avvita nella pietra. Tornanti
aspri, spirali che aggrediscono lo stomaco come cattiva nostalgia.
Ma col sole sarebbe peggio.
L’asfalto sembra bagnato, ma è
soltanto unto. Decenni di attrito di gomme e bitume, afa e salsedine
hanno reso il fondo nero, vischioso e vulnerabile. Le riparazioni non
attecchiscono e gli pneumatici fischiano per un niente.
Dove la strada non trova il modo per
appendersi alla roccia, la perfora, ma le gallerie, dalla volta
altissima e mai rettilinee, regalano un sollievo breve: la luce al
latte che si lascia all’entrata si ritrova tale e quale all’uscita.
Le pupille fanno esercizio. Fanno anche male.
Un sudario sterilizza il mattino. Non è
possibile capire da che parte si nasconda il sole e nemmeno fin dove
arrivi il mare.
Improvvisamente, un rettilineo,
brevissimo; si può dare soddisfazione al motore per qualche secondo.
Dal lato a mare passa la sensazione di una costruzione in bilico sul
baratro, poi nuove curve.
«Era un bar!»
«Non mi sembra.»
«Sì, sì! Era un bar o una
trattoria.»
La donna si volta indietro per trovare
conferma al suo annuncio, ma è tardi: troppo breve il rettifilo e la
costruzione è già nascosta da una costola di roccia. Nella sua
mente è impressa l’immagine di una tovaglia a quadretti rossi,
sfocata come certe fotografie scattate di corsa.
Voltarsi e perdere il contatto visivo
con la strada, sia pure per pochi istanti, le fa sentire, forte e
improvvisa, la sensazione di nausea che stava cercando di ignorare.
Percepisce una diminuzione nei giri del
motore. L’uomo alla guida è indeciso. Forse sta prendendo in
considerazione l’idea di tornare indietro e controllare.
Hanno entrambi bisogno di caffè.
Impossibile prevedere il comportamento
dell’uomo. Dipende anche dalla strada. Come si può fare inversione
senza rischi su quella litoranea così indecisa?
Improvvisamente appare una piazzola sul
lato a monte. L’auto decelera.
«Sicura?»
«A me è sembrato aperto...»
Il muso dell’auto punta decisamente
verso la parete di roccia e si arresta prima di urtare un sacchetto
di immondizia abbandonato lì.
Un attimo dopo l’auto viaggia nella
direzione opposta. Adesso sono dalla parte del monte. Le vertigini
toccano agli altri.
La donna spera di non essersi
sbagliata. Perderebbe tutto il vantaggio che ha su di lui.
È da quando sono partiti, anzi, da
quando si sono svegliati (ma ha dormito almeno un po’ quella
notte?) che raziona le parole. Non inizia alcun discorso: si limita a
comunicazioni di servizio oppure risponde se lui la interpella, ma lo
fa sempre con un leggero ritardo, come se fosse in collegamento da un
Paese lontano. Vuole sottolineare che tra loro non c’è sincronia e
non c’è sintonia. Deve essere assolutamente chiaro che tocca a lui
muoversi, proporre, tentare di ricucire.
Il silenzio della donna soffia sulle
braci di un senso di colpa, ma è un senso di colpa maschile quello
con cui si misura; è provvisorio e non durerà a lungo. Le ore
passano e il ricordo di quello che è successo sbiadisce. Tutto
sbiadisce con quella luce.
Se ci ripensa, però, avvampa. Lo
stomaco si contrae dolorosamente, le dita si fanno artigli e
affondano nella pelle del bracciolo. È una ferita aperta. Non può
passare come un episodio. Guarda avanti, aspettando di veder
ricomparire quella brutta costruzione in bilico sul mare. Ma non era
subito lì?
«Adesso quel coglione ripasserà.»
L’uomo si riferisce ad un autocarro
che hanno sorpassato con fatica, persino azzardando, pochi minuti
prima, quando le curve hanno offerto una breve pausa. Lo hanno
tallonato passivamente per quelli che sono sembrati almeno dieci
chilometri, assecondando i capricci della strada e adeguando la
velocità a quel mezzo che, ci sarebbe da scommettere, non ha mai
affrontato la revisione.
Alla prima occasione, l’uomo ha
ingranato una marcia bassa e frustato ogni cavallo del motore, ma è
dovuto rientrare precipitosamente per l’apparire di una delle rare
vetture provenienti in senso opposto. Al secondo rettilineo la
manovra è riuscita, anche se il conducente dell’autocarro non ha
fatto nulla per agevolarla.
Entro qualche istante, se non si
fermeranno prima, lo incroceranno.
L’uomo disattiva il climatizzatore.
Fa scendere entrambi i finestrini e in un istante l’afa si rovescia
all’interno. Lui è così: pensa a tutto, anche a organizzare un
momento di decompressione che li prepari all’atmosfera che
troveranno una volta a terra.
Quando si arriva a casa, è lui che le
ricorda per tempo di tirar fuori le chiavi del garage. Prevede,
organizza, pianifica. È bravo in questo.
Ma allora, ieri sera, perché non ha
pensato?
Ora è concentrato alla guida, aspetta
di veder apparire il brutto fabbricato di cemento poggiato per metà
sulla strada e per metà sostenuto da pilastri che precipitano nel
vuoto. Non gli è sembrato un locale pubblico, forse lo è stato.
Un cartello scritto a mano annuncia:
“menu turistico 10 euro”. Persino da lontano è facile accorgersi
che il 10 non è altro che un 9 corretto in zero e che l'uno posto
davanti è costretto in troppo poco spazio per essere autorevole.
La costruzione spunta dopo una curva.
Sembra davvero appoggiata sull’aria con metà edificio aggettante,
mantenuto al suo posto da alcuni sostegni sottili e obliqui, di cui
non si scorgono le fondazioni.
L’auto rallenta e accosta di fronte
all’ingresso. Il posto che l’uomo ha scelto invade parte della
carreggiata. Non gli piace, ma non vede alternative.
Il locale appare in un afoso squallore:
una veranda con tre tavolini quadrati, delimitata da un basso muretto
verso la strada. Un’interruzione del cemento permette il passaggio
all’interno. Al fondo del cortiletto, una porta protetta da una
tenda per le mosche impedisce di vedere l'interno. Potrebbe anche
essere chiuso.
«Ma è aperto?» domanda l'uomo.
Cosa potrebbe rispondere lei? Per dire
una banalità come “Non lo so, bisogna scendere e provare”
preferisce rilanciare. Non ha mai giocato a poker, ma conosce le
regole: «Siamo un po’ in mezzo alla strada» dice.
In un’altra occasione risparmierebbe
quell’osservazione che ha le potenzialità per innescare una
discussione. Lui non accetta critiche su come guida e come
parcheggia, ma il credito che lei sente di vantare è talmente alto
che si può permettere questo e altro; è anche un modo per misurare
quanto potere detiene ancora dopo l’incidente.
Si ostina a definirlo provvisoriamente
un incidente, ma non sa davvero. Se lui non si decide a spiegarsi non
lo saprà mai.
«Vedi un posto migliore?» Il tono
della risposta non è polemico. Le sta domandando se per caso vede un
parcheggio che a lui sfugge.
La donna sta per smontare, ma il
vecchio autocarro appare improvvisamente dalla curva poco distante.
Non c’è tempo per scendere e richiudere la portiera prima che
transiti. Il cassonato rallenta, forse lo fa di proposito, come se
volesse lasciare dietro di sé il ricordo di un ultimo dispetto
insieme a una boccata di alito rovente.
L’aria è vagamente profumata
nonostante il passaggio del camion. “Glicine” pensa lei e si
guarda intorno alla ricerca della pianta.
«È uno dei nostri posti» osserva
lui.
È un’apertura distensiva, ammette
che la donna ha visto giusto notando quel locale e dice anche altro.
Conferma che hanno dei posti loro; sono una coppia, hanno una storia.
Sono in due ma insieme sono uno.
I “loro posti” sono quelli che i
turisti solitamente evitano: piccoli caffè nascosti, minuscole
trattorie, taverne senza insegna. Questa brutta palafitta sulla
costiera è un ottimo pezzo per la loro collezione. Lei lo ha visto
per prima, lui si attribuisce il merito di aver deciso di fermarsi e
tornare indietro. Lei glielo concede.
«Sperando che sia aperto.»
Lo spera anche la donna. Ha bisogno che
la tortura inflitta da quella successione di curve le conceda un
momento di pausa e poi vuole dare a lui l'occasione per dire ciò che
ha da dire.
Sotto la tettoia non c’è nessuno.
Sui tavolini sono fissate delle cerate trattenute da fermagli
ossidati. Una è a quadretti rossi e bianchi. Aveva visto bene.
I portacenere, triangoli di alluminio,
tutti diversi tra loro, sono vuoti ma non puliti. Evidentemente, a
eliminare mozziconi e cenere non è stato il gestore ma un colpo
vento.
L’apertura nel basso muretto permette
il passaggio di una persona alla volta. Lui, educatamente, le cede il
passo. È da tanto che non lo fa. In sei anni di vita insieme molte
cose si perdono e se improvvisamente ritornano, spesso c'è un
motivo.
La donna, soddisfatta, passa.
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