Non
so con precisione quando la mia ammirazione per Massimo Gramellini e i
suoi buongiorno su “La Stampa” sia evaporata, né perché. Credo cinque o
sei anni fa e forse perché gli ho scritto un paio di volte e lui non mi ha
risposto, o forse perché seguire uno che ha sempre ragione dopo un po'
annoia, o forse anche perché non sbrocca mai. E poi, più di due o tre buoni
sentimenti la settimana mi fanno sbocciare chiazze rosse sulla pelle. Fatto sta che ho smesso di leggerlo e ho
cominciato ad arricciare il labbro ogni volta che lo incontravo. Adesso,
poi, è passato al Corriere e le occasioni di incrociare i suoi scritti
saranno poche o nulle.
Ieri sera ho visto “Fai bei sogni” il film che ne ha tratto Bellocchio con Valerio Mastandrea nella parte di Gramellini, appunto. Non ci sarei mai andato di mia iniziativa, ma il film apre una rassegna di 8 pellicole in abbonamento e quindi... E poi l'alternativa sarebbe stata la prima serata di Sanremo.
Il problema è che il film mi è entrato dentro. Subito. Dalle prime scene, e questo non era affatto previsto. È facile commuovermi. Due canzoni a cavallo tra gli anni 60 e 70, un po' di riferimenti alla Torino di quell'epoca e la nostalgia viene su come bagna caoda. Quel bambino (attore Nicolò Cabras, non bravo: bravissimo), figlio unico, che gioca con la sua mamma sarei potuto essere io: stessi anni, stesso tipo di casa, addirittura stesso quartiere, Santa Rita. La faccio breve: dicono che libro e film siano diversi, che il film sia più introspettivo e angosciante e il libro più leggero e autoironico. Libro e film raccontano comunque una storia vera nella quale si fa riferimento alla felicità soltanto per contrapporla alla perdita e alla mancanza. Si vedono e si intuiscono un'infanzia e un'adolescenza davvero pesanti, come non mi aspettavo. Il dramma che si consuma, poi, è di una semplicità tale da apparire credibile, quasi tangibile.
Ieri sera ho visto “Fai bei sogni” il film che ne ha tratto Bellocchio con Valerio Mastandrea nella parte di Gramellini, appunto. Non ci sarei mai andato di mia iniziativa, ma il film apre una rassegna di 8 pellicole in abbonamento e quindi... E poi l'alternativa sarebbe stata la prima serata di Sanremo.
Il problema è che il film mi è entrato dentro. Subito. Dalle prime scene, e questo non era affatto previsto. È facile commuovermi. Due canzoni a cavallo tra gli anni 60 e 70, un po' di riferimenti alla Torino di quell'epoca e la nostalgia viene su come bagna caoda. Quel bambino (attore Nicolò Cabras, non bravo: bravissimo), figlio unico, che gioca con la sua mamma sarei potuto essere io: stessi anni, stesso tipo di casa, addirittura stesso quartiere, Santa Rita. La faccio breve: dicono che libro e film siano diversi, che il film sia più introspettivo e angosciante e il libro più leggero e autoironico. Libro e film raccontano comunque una storia vera nella quale si fa riferimento alla felicità soltanto per contrapporla alla perdita e alla mancanza. Si vedono e si intuiscono un'infanzia e un'adolescenza davvero pesanti, come non mi aspettavo. Il dramma che si consuma, poi, è di una semplicità tale da apparire credibile, quasi tangibile.
Ora che ho visto
il film, cambia qualcosa? Probabilmente sì. Toccandomi da vicino, ha
avuto l'effetto di una doccia e mi ha lavato via un po' di spocchia
polverosa. Mi sento come dopo una visita a un conoscente in un brutto
reparto di un brutto ospedale: pieno di buoni propositi e pronto a
iniziare un nuovo ciclo con un tasso di cinismo più contenuto. Finché
dura.
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