lunedì 20 ottobre 2008

Vicky Cristina Barcelona

Avete una moglie  (o un marito) che russa? Anche al cinema? Allora portatela a vedere “Vicky Cristina Barcelona”. Mentre le sue palpebre si abbatteranno come le azioni Unicredit nel portafoglio titoli di famiglia e lei/lui intonerà la dolce sigla del sonno per turbinati nasali deviati e corno, voi potrete decidere se imitarla o se far brillare gli occhietti nel buio per Scarlett Johansson, Rebecca Hall e Penelope Cruz, oppure per Javier Bradem. Quest’ultimo, è bene ricordarlo, è il meraviglioso assassino di “Non è un paese per vecchi”, dei fratelli Coen.

Il film è un Woody Allen duepuntozero. Potete vederlo solo se non avete sonno e se siete under 30. Oppure, se più anziani, se avete disinstallato definitivamente dal vostro cervello rigido per l’arteriosclerosi la versione 1.0, quella di “Provaci ancora Sam” per capirci.

Fatto questo, il film sarebbe anche godibile. Per capire se un film ti sta prendendo, a volte bastano una scena o una frase. Questa affiora puntuale sulle labbra piene di Scarlett Johansson, leggermente ubriaca, del tutto morbida e trasudante ferormoni. Dice la bionda a Javier Bradem, che lei si trova lì per fare l’amore, ma se scoprisse che lui indossa mutande del tipo sbagliato...allora no.

A quel punto se tu, spettatore maschio, pensi a che tipo di mutande hai indosso, e se ti prende il terrore di avere quelle sbagliate (e ti prende) significa che stai tentando di farti la Johansson, il che vuol dire che il film sta facendo il suo lavoro e che tu sei fuori come un melone.

C’era un condizionale buttato lì qualche riga sopra. Non è uno sbaglio. È per via della voce narrante, che rovina il film. Con petulante regolarità introduce, riassume e spiega ogni scena come un libro di Kundera. Non puoi farci niente, nemmeno concentrarti sul russare del compagno di poltrona, perché la voce è più forte. Non resta che ascoltare gli inutili commenti e sperare che questo bug venga eliminato nei prossimi film di Woody Allen, magari nella versione 3.0



 

sabato 19 luglio 2008

Pioggia sulla becca Gialla

Soltanto un anno fa Cesare aveva i capelli lunghi e fini. Li portava liberi ai lati del volto facendoli passare dietro le orecchie. Quando arrampicava li raccoglieva con un nastrino elastico verde.
Ora quel nastro è arrotolato intorno al polso, ma Cesare è diventato talmente magro che l'elastico spesso scivola dalla mano e si perde in mezzo alle lenzuola.
Cesare ha i capelli spezzati, non cammina più, non vede più, sempre più spesso rimane incosciente per alcuni giorni di seguito. Parla con molta fatica e presto smetterà anche di respirare. Lo sa.
Piero vede per lui. Quasi ogni giorno verso sera lo va a trovare. Le sue visite sono brevi, ma a Cesare sono sufficienti perché Piero condivide la sua stessa passione. Piero e Cesare sono una coppia di alpinisti molto affiatata. Insieme hanno tracciato innumerevoli nuove vie su una serie infinita di pareti, dalle Marittime alle Giulie. Per questo sono piuttosto famosi non soltanto presso la piccola sezione del Club Alpino del loro paese, ma in tutto l'ambiente alpinistico nazionale e internazionale.

- Ciao Cesare, - dice Piero entrando nella stanza e chiudendo delicatamente la porta.
Cesare non risponde, ma sorride e Piero capisce che l'amico lo ha sentito.
- Ti porto buone notizie: ieri sera hanno rieletto Manlio Presidente della sezione. Non che sia un premio per lui, con tutto quello che c'è da fare, ma sono contento. -
Cesare approva continuando a sorridere, ma presto le labbra rosate si stancano e si distendono.
- Basta, non ci sono altre novità in paese. - conclude Piero.
- Racconta, hai voglia? - dice allora Cesare.
Piero temeva quella richiesta, è la stessa di ogni giorno, da mesi. E ogni giorno lo accontenta. Respira forte e sistema la sedia vicino alla finestra provocando più rumore del necessario. Poi si siede e comincia a parlare.
- Oggi c'è il sole, ma non è mica bello. Io e te non si arrampicherebbe mai in una giornata come questa. Al massimo si farebbe un po' di palestra gù da basso. Il cielo è quasi bianco, un po' filamentoso direi. Capace che si rannuvola in un momento e che fa temporale. -
Piero si volta verso Cesare. Il volto è disteso, ma non dorme: è in ascolto. Piero continua.
- C'è afa addirittura, infatti ho sudato a venire su lungo la strada. Ho fatto il giro lungo per vedere se era nato il vitello della Rita, ma non credo...-
- E la Becca Gialla? - domanda Cesare. è la stessa domanda di ogni giorno e Piero ogni giorno cerca nuove parole per descrivere al compagno la montagna che si erge a dominare il loro paese.
- è sempre lì. - risponde. - La vetta è di roccia nuda, di quel colore impreciso che conosci bene: a volte sembra zolfo e a volte sembra ruggine. Poco sotto la cima si vede quella pietraia in cui ci siamo persi quella volta, ricordi? Ho ancora male alle gambe adesso. Non se ne usciva più. E ci eravamo finiti seguendo le indicazioni di quel tale appena arrivato in sezione, come si chiamava? -
- Vattarin. -
- Giusto! La "pietraia Vattarin", se un giorno vogliamo fare uno scherzo a qualcuno lo facciamo passare di lì.
Verso il basso la pietraia è invasa dai cespugli e sotto i cespugli c'è la parete a picco. Ora è del tutto asciutta e quella sì che meriterebbe una bella visita in arrampicata libera. -
Cesare non risponde e Piero si chiede se si è addormentato.
Come sempre i suoi occhi corrono alle lenzuola tirate sopra il petto. Le osserva con attenzione per capire se si muovono. Si accorge di non provare nessuna emozione mentre compie questo controllo, ma non si biasima per questo. è stanco. Non riesce a sentirsi in colpa nemmeno quando, salendo i gradini che portano alla stanza, si augura di entrare e di non trovarlo più.
Cesare dorme. Piero lo guarda ancora per qualche istante, poi rivolge lo sguardo oltre i vetri. La luce accecante gli fa socchiudere le palpebre. Si alza e raggiunge la porta. Inutile rimanere, Cesare dormirà per ore.
- Ciao Cesare, - dice Piero entrando nella stanza - Disturbo? -
Cesare è sveglio e muove la testa verso la voce. Non tiene mai gli occhi aperti, e non solo perché non vede, ma perché ha paura di non fare in tempo a chiuderli quando verrà il momento.

- Scusami per ieri, non ce l'ho proprio fatta a venire, però ho una buona scusa. Non me la chiedi? Te la dico lo stesso. -
Cesare pare divertito e aspetta il resto della storia.
- No, ho cambiato idea, forse non è il caso di darti questa informazione, forse è meglio che la tenga per me. Tu non stai bene e potresti emozionarti troppo. No, fai finta che non ti abbia detto niente e non pensarci più. -
Piero ha tirato in lungo il gioco e sa di aver conquistato tutta l'attenzione di Cesare. Si è preparato quella premessa per strada, provandola persino tra sé e sé, allo scopo di creare una grande attesa. C'è riuscito, ma Cesare non pare interessato. L'unica cosa che il malato desidera da lui è sentire ogni giorno la descrizione della valle e delle sue cime. La notizia però è buona davvero e Piero gliela vuole comunicare.
- Va bene, giusto perché insisti e perché una volta mi hai tenuto la corda in una caduta, te lo dico lo stesso: stamattina mi ha telefonato un giornalista, ma non un giornalista qualunque, uno della Rivista. Vuole che io e te scriviamo una serie di sette articoli sulle nostre vie più difficili. E vuole anche tutte le foto. è o non è una bella notizia? -
Cesare apre la bocca per parlare, ma poi rinuncia. Scuote la testa.
- Ho visto gente più entusiasta. - commenta Piero che non capisce la reazione dell'amico. Cesare misura il silenzio e intuisce di averlo deluso. Decide di investire le energie della giornata per scusarsi.
- Sono troppo stanco. -
- Certo, - risponde fin troppo prontamente Piero. - Infatti pensavo di buttarli giù io gli articoli, a casa, uno per volta, e di leggerteli prima di metterli in bella e spedirli. -
- Piero, -
- Dimmi. -
- Pensi mai di trovarmi morto quando vieni qui? -
- Sì. -
- Bene, ora dimmi cosa vedi fuori, per favore. -
Piero riprende a respirare. Aveva smesso per qualche secondo. Il sangue gli martella le tempie come dopo una corsa in salita. Sente persino un senso di vertigine. Lo domina. Solleva la sedia e la avvicina alla finestra.
- Oggi è brutto - esordisce - Sulla cima della Becca probabilmente piove, le nuvole sono basse e la nascondono completamente. Certi sbuffi di nebbia pendono dal cielo come mammelle di vacca e corrono indipendenti lungo la valle. è tutto più verde con questo tempo. E più lucido anche. Le pietre che riempiono il canalone di sinistra della Becca quasi luccicano tanto sono pulite, mentre i resti della valanga nel canalone di destra si sono quasi completamente sciolti e se non si sono sciolti sono comunque ricoperti di terriccio.
A circa metà altezza, dove c'è la grande cengia obliqua, i larici crescono storti, non me ne ero mai accorto, ma forse oggi, con la pioggia, tutto sembra più vero, più vicino. -
Cesare si è assopito. Piero si alza e si avvicina al letto. Lo guarda a lungo prima di infilarsi il giubbotto.
- Ciao Cesare, piove ancora! -
- Ciao Piero, -
- Siamo in forma oggi o sbaglio? -
Cesare annuisce, poi risponde:
- è sempre così l'ultimo giorno. C'è un miglioramento apparente, poi la corda frega la roccia e zac, si spezza. -
Piero incassa il colpo. è contento che Cesare non possa vedere la sua espressione in quel momento.
Infine ritrova la forza. Gli viene in mente una battuta in risposta, ma non sa se sia ancora il momento per farla. Potrebbe apparire costruita. Se ci pensa troppo, è sicuro, diventa vecchia. Non rispondere sarebbe peggio:
- Ah, bene, così finalmente erediterò la tua attrezzatura. -
Cesare fa segno di sì con la testa e sorride. Piero può continuare.
- In cambio ti racconterò anche oggi la Becca Gialla.-
Piero interpreta il silenzio di Cesare come un consenso e inizia a parlare.
- Si vede poco della montagna oggi. è quasi tutto coperto dalla nebbia e dalla pioggia. Sui pascoli più bassi, gli unici che si scorgono nonostante la pioggia, c'è qualcuno che ha portato fuori le bestie. Oh, ecco là, si è formata una cascatella di scolo proprio sotto l'ultimo salto, dove ci allenavamo una volta con la corda doppia. -
- E il tempo che preferisco. - dice Cesare improvvisamente e Piero quasi si spaventa. Cesare continua:
- La nebbia mi ha sempre aiutato a sognare. Perché dietro ci può essere qualunque cosa: un vallone segreto, la baita di una strega, un burrone, un sentiero nascosto, un bosco fitto, una donna, qualunque cosa.-
Piero pensa che Cesare abbia ragione, tutto quello che non si vede è magico, ha fascino. Aspetta altre parole, ma non ne arrivano. Così come si è accesa, la fiammata si è spenta e Cesare è rimasto svuotato da ogni energia. Uscendo Piero saluta l'amico addormentato.
- Ciao Cesare, anche oggi pioggia e nebbia, sarai contento. -
Piero irrompe nella stanza portando odore di bagnato. Cesare non risponde e Piero si ferma con il giubbotto fradicio sfilato a metà braccia.
Nessuno lo ha avvertito. Nessuno gli ha detto nulla e nonostante i mesi di attesa non è preparato a vedere Cesare con le mani intrecciate sul petto, le scarpe lucide ai piedi e un abito grigio con cravatta nera.
Gli hanno risparmiato solo il fazzoletto intorno alla testa.
Dunque è successo.
è contento? Forse un poco sì. Per Cesare, per se stesso, per tutti.
Però adesso Cesare non c'è più e lui è rimasto solo.
Va alla finestra. Con un gesto automatico prende la sedia che nessuno ha spostato dal giorno prima e la sistema vicino al letto. Si siede, poi ci ripensa e torna alla finestra. Getta un'ultima occhiata al di là dei vetri.
è una pessima giornata.
Tutto è grigio e bagnato. Grigio il cielo, grigio l'asfalto della via, grigie le automobili, grigie le facce delle persone che si muovono sotto i neon negli uffici del palazzo di fronte. A Piero non piace la pioggia e sopporta male la città. Milano, in particolare, quando piove come oggi, fa schifo.

giovedì 10 luglio 2008

Wanted

Non capiterà, ma se per caso qualcuno vi proponesse di andare a vedere “Wanted”, offrendosi di pagarvi il biglietto, non accettate oppure fatevi anche pagare una cena da 60 euro.
Io ci sono andato, ovviamente gratis, con moglie e figlio quattordicenne.
All’uscita ho chiesto all’adolescente cosa pensasse del film.
Silenzio.
“Ti è piaciuto?”
Silenzio.
Guarda Ale, che se ti è piaciuto le prendi”.
Silenzio.
Sta a vedere che gli è piaciuto. La cosa è sconvolgente perché ti chiedi “ma chi ho in casa?”. Poi, siccome è un figlio, cerchi delle giustificazioni. Può darsi che il film per lui sia sopportabile perché sembra un videogame. Per un patito di Xbox e PlayStation e dei giochi del genere “spara-tutto” potrebbe forse essere interessante, perché non c’è altro: sparatorie, azioni impossibili, inseguimenti. Manca, però, totalmente di interattività e questo per un gioco è un limite. Fa tutto il protagonista, che potrebbe essere il fratello scemo di Pippo Inzaghi e tu non puoi nemmeno farlo precipitare da un grattacielo.
Al papà del quattordicenne potrebbe essere piaciuta Angelina Jolie, ma non bastano due labbra che se la tirano da sfintere e un didietro nudo e iper tatuato per perdonare un’ora e mezza di profondo coma.
Non capiterà, quindi sono parole inutili. Ma se capitasse, siete avvertiti.

lunedì 7 luglio 2008

Robert Harris

Se siete già in vacanza in Liguria e vi hanno dato ombrellone e sdraio in terza fila, potete sempre pensare di non essere lì, almeno con il pensiero. Un metodo sicuro c’è. Si chiama Robert Harris ed è uno scrittore inglese.

Il bambino dei vicini di ombrellone tortura da mezzora un povero granchietto? Non preoccupatevi. Prima o poi la mamma si distrarrà e voi potrete convincere il piccolo a giocare con le dita tra le tacche di regolazione della vostra sedia sdraio. Nessuno vi riterrà responsabile se gliele trancerete. Per allontanare i sensi di colpa superstiti potete sparire dentro il romanzo “Enigma”, in un gelido inverno della seconda guerra mondiale. Se vi riesce più facile immedesimarvi, tuffatevi in “Pompei”, in un torrido agosto del 79 dc, un paio di giorni prima che il Vesuvio passasse alla Lega Nord. In entrambi i casi la lettura sarà così appassionante che perderete di vista il Mar Ligure (tanto dalla terza fila al massimo sentireste l’odore delle alghe in putrefazione). Corre voce che sia appena passata una diciottenne in topless sulla battigia e voi l’avete persa. Consolatevi con “Archangel”, vigoroso thriller ambientato nella Russia di Boris Eltsin o, al contrario, entrate alla Casa Bianca con “Ghost writer” e scrivete la biografia del Presidente. “Imperium” e “Fatherland” li ho ordinati e non posso garantire, ma sono molto fiducioso perché Harris crea trame intelligenti, una discreta tensione, ma soprattutto racconta protagonisti credibili. Non li ama come figli e non li tratta come amanti. Si disinteressa persino della loro vita e ciò li rende talmente reali che è un attimo diventare L’Acquarius di Pompei, Jericho di Enigma e quindi evadere lontano da tutto e da tutti, soprattutto dal bambino con le dita steccate e fasciate che piange in continuazione, colando moccio sulla sdraio accanto.

domenica 8 giugno 2008

Indiana Jones e il Regno del teschio di cristallo

I Grandi come Dino Zoff sono rari. Dopo aver vinto i Campionati del Mondo nel 1982, all’apice della carriera, Zoff si ritirò. La sua immagine non è stata mai sfiorata dal declino. Per questo rimarrà grande per sempre e per questo ha il rispetto di tutto il mondo (tranne che di Berlusconi che lo ha definito “indegno”).


La premessa perché non c’è molto da dire sul film “Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo”. Harrison Ford, alias Indiana Jones, ci ha entusiasmato dall’arca perduta del 1981 fino all’ultima crociata del 1989, che - il titolo lo diceva con estrema chiarezza - doveva essere proprio l’ultima. Averlo resuscitato venti anni dopo è un’idea balorda sposata con un’ispirazione malata. Il risultato che si ottiene assomiglia a quello stato in cui ci si trova, svegliandosi da un bellissimo sogno e cercando di perpetrarlo nel dormiveglia. Si pasticcia con la fantasia, si fa lavorare male il cervello e quel che se ne ricava, insieme al danno fatto al sogno vero, è un mal di testa da cervicale.


Il film sta in piedi grazie migliaia di effetti speciali, ma la trama è così scontata che se hai avuto la sfiga di vedere “il mistero dei templari” con Nicolas Cage, riusciresti a scrivere la sceneggiatura direttamente al cinema, col T9, anticipando tutte le scene.  Il giovane attore non protagonista, Shia LaBeouf, (per un attimo nelle ultime scene ti viene il terrore che la serie continuerà con lui) è simpatico come un Cicchetto a cena e convincente come il miele su un panino di wurstel e crauti.


Il fonico di doppiaggio si chiama Carlo Ricotta. Perché nominarlo? Perché magari la prossima volta si ricordi che una voce che parla da una sala di registrazione insonorizzata è diversa da una voce che urla in un sotterraneo, o nella Giungla. Povero Ricotta, in fondo il minore dei mali, in un film che non doveva essere concepito. Spielberg si è dimenticato il profilattico e Harrison Ford avrebbe fatto bene a non darsi. Lo avranno fatto per soldi? Difficile. Più probabile che abbiano tentato di protrarre ancora un po’ lo loro vita di divi del cinema, senza accorgersi che, come tutti coloro che rincorrono l’eterna giovinezza, la stanno perdendo per sempre.


 


 

martedì 20 maggio 2008

I demoni di San Pietroburgo

Chi decide di farla finita deve scegliere un metodo sicuro. Il TGV Parigi Lione va benissimo. Non i barbiturici, dai quali si esce con la lavanda gastrica, non il ponte sul torrente Chiusella che potrebbe non essere in secca. E neppure “I demoni di San Pietroburgo”.Vai al cinema convinto di non uscirne vivo, ti siedi e aspetti la Fine, sapendo che prima che arrivi a liberarti soffrirai come un cane. Giuliano Montaldo regista di un film su uno scrittore russo dell’800 è una garanzia più potente del cianuro. Le prime scene sono promettenti: mal costruite, con descrizioni di improbabili mendicanti, e peggio recitate, con il protagonista, lo scrittore Dostojevskij che ti urla improvvisamente nelle orecchie senza che ve ne sia alcuna necessità. Ma ad un tratto l’agonia si interrompe e scopri che il film ha una trama ed è una trama abbastanza forte da distrarti mentre pensi se a casa troveranno il testamento. I flash back dei 10 anni trascorsi dallo scrittore in Siberia sono resi bene, la storia va giù liscia. Si crea una certa tensione nel film, una suspence, come si diceva nell’800, tanto che ad un tratto il presunto polpettone diventa un thriller. Vorresti tornare alle grigie speranze iniziali, ma un attore secondario, Roberto Herlitzka, sale in cattedra alle spese del protagonista e fa obiezione di coscienza contro l’eutanasia dello spettatore. Ci riesce così bene che ti fai prendere dalla storia, sperando in qualche caduta di stile che ti dia la coltellata finale, ma non accade. Il finale ti ritrova vivo sulla poltroncina scomodissima, dopo acver visto un film tutto sommato accettabile, a guardarti intorno, cercando con lo sguardo gli occhi smarriti e increduli di altri suicidi falliti.  Che depressione!


ac

martedì 15 aprile 2008

Ne abbiamo prese tante

Voglio trovare un senso a questa sconfitta, anche se questa sconfitta un senso non ce l’ha. Una spiegazione forse però sì. I ragazzi del Fenix hanno sicuramente messo in conto di poter perdere contro l’Usac e si sono impegnati affinché ciò non accadesse. Noi, esattamente il contrario.

E così, gli sfigatelli nella anonima maglia azzurra, nella palestra sfigatissima che puzza di linoleum verde, senza tabellone, senza cronometro, senza tribune, ma con due file da 10 termosifoni ciascuna, hanno fatto la loro partita. Belli da vedere come una mandria di Gnu al guado, i torinesi hanno messo in campo il n. 8 che portava palla e picchiava, il n. 6 che picchiava e basta, e il n.13 al quale i compagni dovevano sempre indicare dove era il canestro e che alla fine lo ha capito benissimo infilandoci come perline col filo da pesca.

Abbiamo pareggiato il primo e il quarto periodo. Siamo affondati nel secondo, dove abbiamo collezionato una figuraccia da far tornare nero Michael Jackson e bianco Angelo. Ma non era niente in confronto al terzo quarto, dove abbiamo toccato il fondo e provato a scavare ancora un po’.

Dal naufragio si sono salvati - giusto perché non c’erano - Jordan, Ciampy, Un Berto, Franco IV e Franco I (questa citazione la capiscono solo i genitori). Premio speciale degli elettori per l’arbitro, il signor nessuno, il quale, non dimostrando alcuna capacità, può concorrere la prossima volta per un posto in Parlamento, con buone possibilità di successo.

Ritorniamo a Rivarolo ebbri per le luci della città, convinti che se finiamo sotto di 24 siamo lo stesso i più forti, anche se questo pensiero un senso non ce l’ha.

giovedì 10 aprile 2008

Tutta la vita davanti

Dire: "Andate a vedere Tutta la vita davanti sarebbe come: "Guarda che bella quella vasca da bagno" mentre dentro la vasca c'è Eva Longoria che gioca con la paperella.
Come dire che certe volte non è il contenitore, ma il contenuto a fare il film.

Di quale contenuto si parla è presto detto: Sabrina Ferilli inaugura la giornata di lavoro in un call-center cantando, ballando e facendo cantare e ballare le sue dipendenti, le quali la seguono nella coreografia, sorridendo convinte e motivate. Subito dopo iniziano a lavorare, vendendo apparecchi inutili per 600 euro al mese. In omaggio regalano anche la propria anima.
L'immagine è talmente assurda che sembra vera. E sembra vera perché lo è. Ci sono persone che hanno la capacità di motivare gli altri e altri che non hanno niente di meglio nella vita che lasciarsi motivare. Il tutto per far arricchire un terzo. Fico.

A questo punto diciamo che Eva Longoria non c'è. Ma solo perché al suo posto c'è Isabella Ragonese. La conoscete già? Non mentite. Non la conosce ancora nessuno. Ed è strano, perché è talmente brava a combinare uno dei 1500 tipi di sorrisetti che possiede con l'inclinazione del volto e l'intensità dello sguardo, che potrebbe recitare anche senza parlare. È talmente vera che la vorresti come fidanzata e, se non è possibile, come moglie, compagna, collega, sorella, figlia o, almeno, nuora.

I motivi per andare a vedere la vasca da bagno ci sono. Ne potrete trovare altri, ad esempio Valerio Mastrandrea, che fa il sindacalista certamente meglio dei suoi colleghi di Alitalia. C'è la comparsa che impersona sua moglie, che ha una sola battuta in tutto il film, ma se la gioca talmente bene che merita una citazione. Forse è merito anche di chi ha scritto i dialoghi, Francesco Bruni insieme con Paolo Virzì che è anche il regista.

Ora c'è un solo problema. Se il film è arrivato a Cuorgnè sabato scorso, significa che a Torino e nelle altre città è in programmazione da almeno un mese e mezzo. Questo vuol dire un'altra cosa: che per andare a vedere la Ragonese e "Tutta la vita davanti" non avete tutta la vita. Al massimo un week end.

lunedì 17 marzo 2008

Il Paradiso dei poveri

La storia alpinistica del Vallone d’Eugio è di nessuna importanza ma compensata da un’aneddotica di vita, lavoro e transumanza da far apparire i Malavoglia una famiglia fortunata. Abbandonato ormai da mezzo secolo dai montanari, dismesso da alpinisti ed escursionisti, solamente il tempo si prende cura di questo vallone, che si presenta ai rari visitatori nello splendore della sua rovina.

Il ghiacciaio che a suo tempo si è preso il disturbo di modellare il Vallone, scivolando da nord verso sud, ha preso le mosse dal Moncimour (3167 m), Punta Gialin (3270 m) e dalla Piata di Lazin (3108 m).

Nel fuoco costituito dalla triangolazione delle 3 montagne, la superficie del Lago Gelato interrompe il grigio dominante di pietraie infinite. Le rive sono inagibili anche per chi ama gli scogli, tranne che lungo la sponda meridionale dove le rocce montonate formano una piccola spiaggia e uno dei rari tratti pianeggianti di tutta la valle. È uno dei laghi naturali più grandi del Parco del Gran Paradiso, ma anche uno dei meno visitati poiché per giungervi occorre superare un dislivello di 1.800 o di 1900 metri, a seconda che si scelga di penare passando dalla Val Soana o patire attraverso il Vallone di Piantonetto, Valsoera, e passo di Moncimour.

Di arrivare dal basso non se ne parla.

Seguendo le tracce dei danni provocati dal ghiacciaio durante la discesa, ci si accorge presto che l'orario di visita del Vallone è finito già da molto tempo. Ne è prova la mancanza di un sentiero o quanto meno di una traccia. Avvistare un ometto di pietre è un’esperienza esaltante, ma non particolarmente utile perché un punto, senza un altro punto a cui unirlo, non serve per tracciare una rotta. Con il sopraggiungere quotidiano della nebbia, la discesa si complica e, a consuntivo, presenta un conto salato: due ore abbondanti per quattrocento metri di dislivello.

Intorno ai 2500 metri, dove l’erba comincia a insinuarsi tra le rocce, appaiono i due laghi Bort, uniti da un magro rio che non sa se essere l’emissario del primo o l’immissario del secondo. Poco dopo si tocca il solitario lago Bocutto. Se il vallone d’Eugio fosse un’ostrica, il lago Bocutto sarebbe la sua perla. Il vallone è più una cozza che un’ostrica, ma il lago è ugualmente un gioiello e la sua vista vale, da sola, i graffi e le fatiche del viaggio.

Dal lago Bocutto il sentiero dovrebbe portare all’alpe dei Fons, ma sul posto il sentiero non c’è. L’unico metodo per orientarsi consiste allora nell’immedesimarsi nei pastori di un tempo e chiedersi dove si potrebbe edificare una baita. Ma anche così l’Alpe dei Fons appare solamente quando si è ormai rinunciato a cercarla. Le capanne di pietra sono solo pietre tra le pietre.

Nel tratto successivo i rododendri si insinuano tra le rocce celandone i crepacci, non c’è sentiero e i ruscelli scorrono sotto la vegetazione, rendendo viscida l’erba di superficie. Verso il basso si intuisce un salto di cento e più metri sopra il lago Nero.

Superato anche il Lago Nero, lungo il Piano d’Eugio macigni di enormi proporzioni giacciono spaccati su un pianoro prativo. Proprio qui, dove non servirebbe, il sentiero ricompare e si fa strada tra gli ontani fino all’alpe Savolere che resiste ancora in buono stato. Il nome dell’alpeggio probabilmente richiama la vicinanza con l’acqua. La radice del toponimo Savolere, è la stessa di Savara, il torrente della Valsavarenche. Saular, inoltre, in franco provenzale significa insabbiare e può indicare un luogo in cui il torrente, straripando, ha portato della sabbia.

La diga del lago d’Eugio è una fortezza Bastiani nella solitudine del vallone. L’invaso è presidiato da alcuni guardiani che abitano a turno in una palazzina di pietra costruita su uno sperone naturale al centro della diga. Vi giungono a bordo di un carrello a rotaia, trainato a fune su un piano inclinato, una comodità che evita la fatica e i tempi di salita da Rosone, 1000 metri più in basso, ma cancella anche ogni speranza di mantenere agibili i sentieri.

Un sentiero in verità c’è, è il gta, una riga rossa sulla cartina che proviene dall’adiacente vallone di Praghetta, attraversa la valle ai piedi della diga, e risale sul versante opposto per sparire oltre il monte Arzola. Un sentiero ben segnato, ma poco frequentato e con l’erba che lo invade ovunque, soprattutto lungo i tratti a mezzacosta che richiederebbero più larghezza e pulizia per evitare vertigini e passi pericolosi.

I morti, tuttavia, non si trovano sotto il gta, ma disseminati alla fine degli anni ‘50 lungo il piano inclinato del carrello, ai piedi di qualche salto di roccia o dentro le montagne. All’epoca della sua costruzione, la diga dell’Eugio, insieme a quelle di Ceresole Reale, Teleccio, Valsoera e al complesso di opere idriche, che portano l’acqua alle turbine delle centrali elettriche di Villa, Rosone e Bardonetto, sono state teatro di decine di incidenti mortali. False micce, prive del filo di seta, che facevano esplodere le mine senza ritardo, crolli e cadute erano gli incidenti più comuni. Per non dire della silicosi che ancora oggi uccide i minatori che hanno realizzato decine di chilometri di gallerie.

Visto dalla banchina della diga, il terzo inferiore del Vallone d’Eugio è un mare di chiome mosse, sul cui fondo si trovano i relitti di numerose frazioni. La prima ad apparire, continuando la discesa, è Case Uggetti, posta in un bel piano a 1250 m. Il nome è probabilmente quello di una famiglia. Resta da verificare se è il vallone d’Eugio che ha battezzato gli Uggetti o viceversa.

Il sentiero, quando si vede, scende di poco sulla destra orografica della valle, dove costeggia un canale che un tempo portava l’acqua alle frazioni sottostanti, e conduce quasi in piano a Veso, la frazione che era sede di scuola elementare. A Veso vivevano stabilmente agli inizi del ‘900 15-20 famiglie per una stima di circa 100 anime, curate dal medico condotto quando c’erano i soldi e dal prete di Locana per le festività. I pantaloni della festa, così come quelli di tutti i giorni erano prodotti con tela di canapa tinta con un pigmento marrone, ottenuto dalla bollitura del mallo delle noci. Il guardaroba invernale era a base di lana, filata e poi lavorata di notte alla luce del fuoco o delle lampade ad acetilene.

Il sentiero giunge a Balmetta, dove nel 1931 nacque Mariuccia e dove sua madre morì di polmonite pochi mesi dopo. In quegli anni il messo comunale contava ancora 80 vacche nella valle, per non dir di pecore e capre. Si producevano toma e burro, che si portavano, insieme alla legna di faggio, al mercato di Locana il mercoledì. Si ritornava con sale, farina gialla e qualche pezzo di pane per i bambini. Il vino si comprava per Natale: un decalitro non di più. Fu in occasione di uno dei viaggi a Locana, che la madre di Mariuccia, sudando sotto il peso della cesta colma, si ammalò e morì in tre giorni. Fu portata a valle legata su una scala che fungeva da barella. Non c’era altro modo per trasportare i defunti. Il padre di Mariuccia, invece, scese a valle trasportato dentro una cesta, piegato in due per i dolori, asciugato e rinsecchito dalla febbre, ma ancora vivo. Tuttavia i medici non poterono nulla contro il tifo nero che aveva contratto qualche giorno prima, quando era sceso al piano per la raccolta della meliga.

Oggi, a Veso e Balmetta non splende più il sole, perché faggi e castagni sono cresciuti alti e forti, concimati dalla fatica accumulata tra queste pietre. Radicano nelle cantine, sfondano travi marcite e si contendono l’un l’altro la luce del sole, annegando in un’ombra perenne i resti delle case.

Tra questi viottoli, con un briciolo di fantasia non è difficile immaginare il maestro elementare che si intrattiene con la madre di qualche alunno, magari per dire che il bambino non deve più fare assenze, che se no non si sa come va a finire. Alla scuola di Veso aspettano il maestro 55 alunni nel 1888, 16 nell’inverno del 1937-38 e solamente 9 nel 1950. Per mettere insieme questi ultimi si deve attingere da tre diverse borgate. 

L’emigrazione compie la sua opera devastatrice a cavallo della prima guerra mondiale. Chi partiva per le Americhe non diceva nulla in famiglia. Quando la moglie riceveva una cartolina da Genova, capiva e aspettava di essere chiamata. Forse.

Nel ’52 Mariuccia si sposa a Locana e non torna più nella valle. Le case costruite pietra su pietra, senza cemento, tenute insieme da sacrifici, bestemmie, preghiere e calce di poca qualità, rovinano presto. In alcuni casi il fuoco accelera i crolli.

A valle di Balmetta, dove lo zelante esposimetro impedisce alla macchina fotografica di scattare, il bosco si infittisce, ma si intuisce che la fine è vicina. Scorrono i titoli di coda, l’angoscia si scioglie. Il sentiero è ripido, ma non c’è più rischio di perdersi. Scalini e svolte in breve portano sotto il tiro di un gigantesco masso che spunta nel fitto del bosco. Si erge più alto degli alberi più alti, ma diversamente da questi è sprovvisto di radici, e prima o poi scivolerà giù, chiudendo per sempre l’antica strada per l’Eu
gio.

È solo questione di tempo, ma qui il tempo è l’unico padrone.


sabato 16 febbraio 2008

Apologo


“C’erano una volta le mani, che decisero di entrare in sciopero perché stanche di lavorare per uno stomaco che appariva loro ozioso e parassitario. Tuttavia le mani dovettero presto rendersi conto che erano loro le prime ad essere indebolite dalla protesta, che lasciava non solo lo stomaco, ma l'intero organismo senza nutrimento. La società è come un organismo, il cui buon funzionamento complessivo permette la sopravvivenza di tutte le sue parti; se uno dei suoi organi incrociasse, per così dire, le braccia, non verrebbe meno solo l'organismo, ma anche l'organo, quindi anche le mani.” Applicare questo apologo, che si studia alle elementari, ad una squadra di pallacanestro è fin troppo facile. Chi pratica uno sport di squadra, che sia calcio, basket, rugby o pallanuoto rinuncia a una piccola parte di se stesso in favore della squadra. Perché? Perché i compagni se lo aspettano, perché verso la squadra si hanno delle responsabilità. Sono solo 16 le partite a cui non si può mancare in un anno e per quelle partite non ci sono sci, scout, cresime, week end o voti da recuperare che contino. Si va dove e quando la squadra ha bisogno.

Mi spiace aver rubato spazio a “Ciampy uber alles” che oggi tra i giganti di Crescentino è stato il più grande, e che merita un altrettanto grande applauso. Un applauso anche a tutti gli altri atleti Usac under14, più o meno sani, più o meno in forma, più o meno svegli, più o meno precisi, che comunque si sono dannati per tutta la partita, hanno sofferto e si sono aiutati l’un l’altro. Se a Crescentino ci fossimo presentati con un organico più completo, che avesse garantito dei cambi di qualità, probabilmente avremmo perso lo stesso, ma avremmo contenuto il risultato. Ce la saremmo potuta giocare.

Il Crescentino è la squadra più forte che abbiamo incontrato fino ad oggi. All’andata il loro forfait causa equivoco, per noi è stata davvero una grazia ricevuta. I loro atleti n. 4, 15 e 16 (Luca) andranno lontano.

La sapete una cosa? Loro sono in 8. Sempre, non oggi.. Sempre. Se ne mancasse uno solo non potrebbero giocare. Invece sono in testa al campionato. Sono o non sono da ammirare?

Chiuso. Ci aspettano il Nole sabato prossimo, e Vercelli martedì 26. Guardiamo avanti, sperando che tutti vediamo la stessa cosa.


Menenio Agrippa


martedì 22 gennaio 2008

American gangster

American Gangster supera tutti  i precedenti film di Ridley Scott. Stiamo parlando di capolavori come “Alien”, “Black rain”, “Blade Runner”,” Thelma & Louise”.... Li supera tutti per la durata: 157 minuti.
Non è per dire che è eterno e se vai a vederlo non ti passa più. Il ritmo c’è. È per dire che si posiziona un gradino sotto, al livello de “Le crociate” per intenderci.
American Gangster ha lo svantaggio di appoggiarsi su una storia vera: l’ascesa al potere di un boss newyorkese nero, ma anche “Black hawk down” si basava su una storia vera. Però “Black hawk down” lo guardi ogni volta che lo ripassano in TV e ti viene voglia di sparare sui cattivi. Sarà   ben difficile, invece, fare il bis di “American gangster” e aver voglia di denunciare i corrotti (qui la colpa, bisogna dire, va divisa tra Mastella e Cuffaro che sono riusciti a eliminare definitivamente la nostra capacità di indignarci).
Forse il problema di American gangster è avere 2 protagonisti invece di 1 e dei due nessuno in grado di aggiungere qualcosa al film. Denzel Washington sembra un po’ meno di plastica del solito, forse perché interpreta il cattivo, Russell Crowe è invece lontano mille miglia dal suo personaggio in Beautiful Mind o da Massimo, “Il gladiatore”, tanto per rimanere in casa Scott.
Se andate a vedere American gangster non vi verrà voglia di chiedere i soldi indietro (tanto non ve li restituirebbero), ma vi chiederete se vale la pena investire 157 minuti per questo film. Ne avete appena perso uno. Forse è sufficiente.

domenica 13 gennaio 2008

Usac Borgosesia 72 - 91

Si può perdere una partita ed essere contenti?

Certamente, in due casi: A) Se si è venduta la partita agli avversari e si è stati regolarmente pagati. Oppure, caso B), se si è lottato con grinta, agonismo, voglia e impegno fino alla fine, e invece della partita si è venduta cara la pelle.
Contro il Borgosesia stiamo parlando dell’ipotesi B. Gli avversari sono scesi dalle lanose loro valli per prendersi i 2 punti che gli consentono di rimanere primi in classifica. Se questo era il loro obiettivo, è stato raggiunto. Se però avevano anche qualche velleità di dimostrare di essere bravi, direi che possono entrare in analisi appena tornati a casa.I nostri nani hanno giocato meglio. Più veloci, (Alberto, Francesco) più fantasiosi (Matteo) più influenzati (Umberto) più piccoli (Abidin e Jordano), più pungenti (Dr. Costa) più faccia da schiaffi (Bona) più play (Ciampy 23), più Ottini (Ottino) e anche più utili (Davide, Matteo Leschiera e Vitto al tavolo)

Nel primo e secondo periodo loro segnano 23 + 23 punti. Tanti. Ma anche noi ce la caviamo. Infatti all’intervallo ci dividono non più di 8 – 10 lunghezze. Il terzo periodo addirittura lo vinciamo: 17 a 16 con dei momenti che avrebbero emozionato persino un cartolaio: il Dr. Costa, notevole tutta la sua partita, azzecca un tiro spettacolare, impossibile e sbagliato che galleggia a lungo sul ferro prima di immergersi nel canestro. Mezzo minuto dopo Francesco infila 2 punti sul suono della sirena, portando l’entusiasmo a DEFCON 5. I giocatori del Borgosesia, che già  non sceglieremmo come compagni di scuola, diventano tossici. Il 22 litiga con l’arbitro, il 23, capelli rossi, vorrebbe essere Ron Weasley, ma si rivela essere soltanto quel bue di Goyle, senza pozione polisucco. Si becca pure un antisportivo. Bravo il loro numero 17, che ne mette più di 20. Ma i complimenti vanno soprattutto ai genitori dei nostri avversari, portatori di un genoma evidentemente diverso dal nostro. Infatti, con l’eccezione dei loro n. 7 e 12, tutti gli altri sono ben più alti e grossi dei nostri. Ecco la triste verità.


La settimana prossima saremo fermi per turno di riposo. Ma domenica 3 febbraio alle 17 saremo a Cossato. Quella è una partita che possiamo vincere. E se giochiamo con questa voglia la vinceremo.
Si accettano scommesse.