I racconti li amo rotondi, chiusi e saldati come gli anelli della catena di un'ancora. Ci dev'essere un'idea forte, un concetto molto ben chiaro che si palesi all'inizio, si sviluppi strada facendo, e alla fine, ormai in vista del porto, pugnali. Possibilmente alle spalle.
Da questo punto di vista, Carver - che incontro per la prima volta - non mi accontenta. I suoi anelli sono aperti come maglie di una catena strappata. I finali non sorprendono e se lo fanno è proprio per la mancanza di qualsiasi sorpresa. Dico di più: se le ultime dieci righe di ogni racconto non ci fossero, credo che non cambierebbe nulla.
Ma tutto questo non ha molta importanza, perché, finali o non finali, i racconti di “Principianti” mi hanno speronato all'improvviso e con violenza inaudita, come fece lo Stockholm con l'Andrea Doria, e per tutta la lettura, sono rimasto basito e sbandato di tre quarti, nel letto, (per fortuna senza fare acqua) pronto ad andare a fondo con il libro in mano.
Ora, come è possibile che racconti lontani dalla formula che amo (quella di Buzzati per capirci) mi abbiano colpito così forte? Credo che sia la potenza della scrittura. Le parole, qui, sono immediatamente commutate dal cervello in immagini e ogni scena che si compone è una mazzata senza pietà. I quadri che si formano nella mente non sono jpg; sono radiografie, ecografie, Tac e risonanze. Non vedi i volti dei protagonisti, sondi direttamente i loro sentimenti, quando ci sono, e nello stato in cui si trovano, quasi sempre distrutti.
Credo che in casi come questi, di potenza di scrittura fuori scala, si debba riconoscere al traduttore quel che è suo. Per “Principianti” la versione italiana è di Riccardo Duranti e credo che gli vada dato il merito di aver saputo mantenere, o addirittura esasperare, la ruvidezza e di non aver fatto nulla per rendere dolce il naufragare.
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