Nei rifugi è sugo di pomodoro, nei bivacchi, invece, l’odore prevalente è quello del legno misto alla polvere e all’olio con il quale, ogni tanti anni, si ungono i cardini di porta e brande.
Sono aromi cari a chi sale in montagna. E catturarli con il fiato ancora corto per la marcia, riporta immediatamente a precedenti visite. Frammenti di escursioni, ricordi che spuntano improvvisi e a volte un po’ dolorosi, perché restituiscono la misura del tempo che è passato. Quell’altra volta il bivacco Giraudo magari era arancione, il Carpano era proprio un'altra cosa e al Pontese non c’era nessuno, anche se era domenica, anche se era agosto.
Sono tanti i rifugi dalle nostre parti; se provi a dirli tutti senza guardare la cartina finisce che ti perdi in qualche valle e non ti tornano i conti. Ma basta una sbirciatina sulla mappa per rivedere con la memoria i trampoli che reggono il Pocchiola Meneghello o quella brutta botte gialla che è il bivacco Davito, con la porta che non si chiude in nessun modo. Si dovrebbero ringraziare uno per uno questi rifugi e bivacchi, che offrono un ricovero dal sole, dalla notte, dalla stanchezza e persino dalla paura.
Anche parlarne è bello. Conosci una persona, scopri che ha dormito in quel bivacco sperduto sotto il ghiacciaio di Ciardonney, proprio il giorno dopo che ci sei stato tu. E allora quello sconosciuto è già più vicino e ispira fiducia. Un po’ come quando si scopre di avere in comune un caro amico.
Ed infatti, è proprio così.
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