Ad un certo punto sopraggiunge
l'effetto “collezione”. È quello che ti spinge a continuare a
leggere i libri di un autore pur sapendo che non ha più nulla da
dare. Per me è il caso di Jo Nesbo. Ha inventato un personaggio, il
commissario Harry Hole e lo ha spremuto oltre il limite, fino a farlo
diventare ridicolo. Qualcuno deve avergli detto “E piantala!” e
lui ha pensato bene di rinnovarsi, senza peraltro riuscirci. Ha
cambiato nome al personaggio, ma si è portato dietro tutta
quell'atmosfera di decadenza narrativa con cui cercava di mantenersi
a galla negli ultimi episodi di Harry Hole. Esagerazioni, iperboli,
complotti incomprensibili, personaggi della Marvel, subdoli traditori
e segreti ai quali si potrebbe rispondere “chemmifrega?”
“Il Confessore” è di nuovo ed è ancora tutto questo: un thriller altamente improbabile in una Oslo
che Nesbo vuol far apparire come la parte più pericolosa del Bronx.
Ma passi. Passi anche se mi sono
divertito poco e sorpreso mai, passi anche se questo libro non mi ha
migliorato nemmeno un po'. Passi pure tutto, perché una collezione
non si discute, si fa. Non posso però perdonargli la lunghezza: 407
pagine. Sono tantissime quando un libro prende e non prende, quando
conti le pagine che ti separano dall'epilogo non perché ti dispiace,
ma perché non vedi l'ora. Alla fine ti senti in colpa, come se
avessi commesso un grave peccato, ed è così: tutto quel tempo,
investito in un libro così inutile, poteva essere impiegato meglio.
Servirebbe un Confessore. Ma non questo.
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