lunedì 18 dicembre 2017

Nero e amaro - incipit







Il caffè non si beve in fretta.

Il caffè è fratello del tempo.

Lo si beve lentamente, lentamente.

Il caffè è la voce del gusto, la voce dell’odore.

Il caffè è contemplazione.

Penetra nell’anima e nei ricordi.

(M.Darwish)




1





Con il sole sarebbe anche peggio.
Chilometri di curve: curve cieche, rubate alla roccia, ritorte sopra la scogliera. Curve disegnate da muretti sbrecciati. Asfalto che si avvita nella pietra. Tornanti aspri, spirali che aggrediscono lo stomaco come cattiva nostalgia.
Ma col sole sarebbe peggio.
L’asfalto sembra bagnato, ma è soltanto unto. Decenni di attrito di gomme e bitume, afa e salsedine hanno reso il fondo nero, vischioso e vulnerabile. Le riparazioni non attecchiscono e gli pneumatici fischiano per un niente.
Dove la strada non trova il modo per appendersi alla roccia, la perfora, ma le gallerie, dalla volta altissima e mai rettilinee, regalano un sollievo breve: la luce al latte che si lascia all’entrata si ritrova tale e quale all’uscita. Le pupille fanno esercizio. Fanno anche male.
Un sudario sterilizza il mattino. Non è possibile capire da che parte si nasconda il sole e nemmeno fin dove arrivi il mare.
Improvvisamente, un rettilineo, brevissimo; si può dare soddisfazione al motore per qualche secondo. Dal lato a mare passa la sensazione di una costruzione in bilico sul baratro, poi nuove curve.
«Era un bar!»
«Non mi sembra.»
«Sì, sì! Era un bar o una trattoria.»
La donna si volta indietro per trovare conferma al suo annuncio, ma è tardi: troppo breve il rettifilo e la costruzione è già nascosta da una costola di roccia. Nella sua mente è impressa l’immagine di una tovaglia a quadretti rossi, sfocata come certe fotografie scattate di corsa.
Voltarsi e perdere il contatto visivo con la strada, sia pure per pochi istanti, le fa sentire, forte e improvvisa, la sensazione di nausea che stava cercando di ignorare.
Percepisce una diminuzione nei giri del motore. L’uomo alla guida è indeciso. Forse sta prendendo in considerazione l’idea di tornare indietro e controllare.
Hanno entrambi bisogno di caffè.
Impossibile prevedere il comportamento dell’uomo. Dipende anche dalla strada. Come si può fare inversione senza rischi su quella litoranea così indecisa?
Improvvisamente appare una piazzola sul lato a monte. L’auto decelera.
«Sicura?»
«A me è sembrato aperto...»
Il muso dell’auto punta decisamente verso la parete di roccia e si arresta prima di urtare un sacchetto di immondizia abbandonato lì.
Un attimo dopo l’auto viaggia nella direzione opposta. Adesso sono dalla parte del monte. Le vertigini toccano agli altri.
La donna spera di non essersi sbagliata. Perderebbe tutto il vantaggio che ha su di lui.
È da quando sono partiti, anzi, da quando si sono svegliati (ma ha dormito almeno un po’ quella notte?) che raziona le parole. Non inizia alcun discorso: si limita a comunicazioni di servizio oppure risponde se lui la interpella, ma lo fa sempre con un leggero ritardo, come se fosse in collegamento da un Paese lontano. Vuole sottolineare che tra loro non c’è sincronia e non c’è sintonia. Deve essere assolutamente chiaro che tocca a lui muoversi, proporre, tentare di ricucire.
Il silenzio della donna soffia sulle braci di un senso di colpa, ma è un senso di colpa maschile quello con cui si misura; è provvisorio e non durerà a lungo. Le ore passano e il ricordo di quello che è successo sbiadisce. Tutto sbiadisce con quella luce.
Se ci ripensa, però, avvampa. Lo stomaco si contrae dolorosamente, le dita si fanno artigli e affondano nella pelle del bracciolo. È una ferita aperta. Non può passare come un episodio. Guarda avanti, aspettando di veder ricomparire quella brutta costruzione in bilico sul mare. Ma non era subito lì?
«Adesso quel coglione ripasserà.»
L’uomo si riferisce ad un autocarro che hanno sorpassato con fatica, persino azzardando, pochi minuti prima, quando le curve hanno offerto una breve pausa. Lo hanno tallonato passivamente per quelli che sono sembrati almeno dieci chilometri, assecondando i capricci della strada e adeguando la velocità a quel mezzo che, ci sarebbe da scommettere, non ha mai affrontato la revisione.
Alla prima occasione, l’uomo ha ingranato una marcia bassa e frustato ogni cavallo del motore, ma è dovuto rientrare precipitosamente per l’apparire di una delle rare vetture provenienti in senso opposto. Al secondo rettilineo la manovra è riuscita, anche se il conducente dell’autocarro non ha fatto nulla per agevolarla.
Entro qualche istante, se non si fermeranno prima, lo incroceranno.
L’uomo disattiva il climatizzatore. Fa scendere entrambi i finestrini e in un istante l’afa si rovescia all’interno. Lui è così: pensa a tutto, anche a organizzare un momento di decompressione che li prepari all’atmosfera che troveranno una volta a terra.
Quando si arriva a casa, è lui che le ricorda per tempo di tirar fuori le chiavi del garage. Prevede, organizza, pianifica. È bravo in questo.
Ma allora, ieri sera, perché non ha pensato?
Ora è concentrato alla guida, aspetta di veder apparire il brutto fabbricato di cemento poggiato per metà sulla strada e per metà sostenuto da pilastri che precipitano nel vuoto. Non gli è sembrato un locale pubblico, forse lo è stato.
Un cartello scritto a mano annuncia: “menu turistico 10 euro”. Persino da lontano è facile accorgersi che il 10 non è altro che un 9 corretto in zero e che l'uno posto davanti è costretto in troppo poco spazio per essere autorevole.
La costruzione spunta dopo una curva. Sembra davvero appoggiata sull’aria con metà edificio aggettante, mantenuto al suo posto da alcuni sostegni sottili e obliqui, di cui non si scorgono le fondazioni.
L’auto rallenta e accosta di fronte all’ingresso. Il posto che l’uomo ha scelto invade parte della carreggiata. Non gli piace, ma non vede alternative.
Il locale appare in un afoso squallore: una veranda con tre tavolini quadrati, delimitata da un basso muretto verso la strada. Un’interruzione del cemento permette il passaggio all’interno. Al fondo del cortiletto, una porta protetta da una tenda per le mosche impedisce di vedere l'interno. Potrebbe anche essere chiuso.
«Ma è aperto?» domanda l'uomo.
Cosa potrebbe rispondere lei? Per dire una banalità come “Non lo so, bisogna scendere e provare” preferisce rilanciare. Non ha mai giocato a poker, ma conosce le regole: «Siamo un po’ in mezzo alla strada» dice.
In un’altra occasione risparmierebbe quell’osservazione che ha le potenzialità per innescare una discussione. Lui non accetta critiche su come guida e come parcheggia, ma il credito che lei sente di vantare è talmente alto che si può permettere questo e altro; è anche un modo per misurare quanto potere detiene ancora dopo l’incidente.
Si ostina a definirlo provvisoriamente un incidente, ma non sa davvero. Se lui non si decide a spiegarsi non lo saprà mai.
«Vedi un posto migliore?» Il tono della risposta non è polemico. Le sta domandando se per caso vede un parcheggio che a lui sfugge.
La donna sta per smontare, ma il vecchio autocarro appare improvvisamente dalla curva poco distante. Non c’è tempo per scendere e richiudere la portiera prima che transiti. Il cassonato rallenta, forse lo fa di proposito, come se volesse lasciare dietro di sé il ricordo di un ultimo dispetto insieme a una boccata di alito rovente.
L’aria è vagamente profumata nonostante il passaggio del camion. “Glicine” pensa lei e si guarda intorno alla ricerca della pianta.
«È uno dei nostri posti» osserva lui.
È un’apertura distensiva, ammette che la donna ha visto giusto notando quel locale e dice anche altro. Conferma che hanno dei posti loro; sono una coppia, hanno una storia. Sono in due ma insieme sono uno.
I “loro posti” sono quelli che i turisti solitamente evitano: piccoli caffè nascosti, minuscole trattorie, taverne senza insegna. Questa brutta palafitta sulla costiera è un ottimo pezzo per la loro collezione. Lei lo ha visto per prima, lui si attribuisce il merito di aver deciso di fermarsi e tornare indietro. Lei glielo concede.
«Sperando che sia aperto.»
Lo spera anche la donna. Ha bisogno che la tortura inflitta da quella successione di curve le conceda un momento di pausa e poi vuole dare a lui l'occasione per dire ciò che ha da dire.
Sotto la tettoia non c’è nessuno. Sui tavolini sono fissate delle cerate trattenute da fermagli ossidati. Una è a quadretti rossi e bianchi. Aveva visto bene.
I portacenere, triangoli di alluminio, tutti diversi tra loro, sono vuoti ma non puliti. Evidentemente, a eliminare mozziconi e cenere non è stato il gestore ma un colpo vento.
L’apertura nel basso muretto permette il passaggio di una persona alla volta. Lui, educatamente, le cede il passo. È da tanto che non lo fa. In sei anni di vita insieme molte cose si perdono e se improvvisamente ritornano, spesso c'è un motivo.
La donna, soddisfatta, passa.

venerdì 8 dicembre 2017

Suburbicon

Scritto dai fratelli Coen, interpretato da Matt Demon e Julianne Moore.
Ecco: qualunque regista (Vanzina e Neri Parenti esclusi ovviamente) saprebbe tirar fuori qualcosa di decente con questi elementi a disposizione,
George Clooney legge la sceneggiatura, si immagina il film e che fa? Inizia le riprese? No, prima si procura degli attori non protagonisti così efficaci che diventano più protagonisti dei protagonisti. Ci sono delle facce in questo film che reclamano la standing ovation. Ora, io ho una memoria davvero scarsa, altrimenti direi quante e quali citazioni ci sono nelle scene che si susseguono, nei volti e nella perfezione di certe inquadrature. Per esempio, non ho mai visto un pomolo di porta bello e illuminato come quello che ruota in Suburbicon, né un'ombra su un muro che sappia parlare bene come questa. Clooney, nel ritrarre l'uno e l'altra, riesce a far recitare come grandi attori persino ombre e riflessi.
Infine, Clooney fa il Clooney, ovvero tenta di rovinare il film infilandolo nel cestello della lavatrice e centrifugando con il programma "contesto sociale". Per fortuna la sceneggiatura dei fratelli Coen gli impedisce di fare cazzate e la deriva di denuncia razzista, pur essendo ben presente, resta in secondo piano. In close up rimane una storia "pulp" che potrebbero aver diretto Hitchcook e Tarantino insieme, un po' litigando, un po' dandosi il cinque. 
Suburbicon potrebbe anche non piacere a tutti e lo capirei, perché è più bello che emozionante. Più appagante che affascinante. Per me è assolutamente soddisfacente, persino da rivedere a breve, ma forse si era capito.

sabato 25 novembre 2017

Jane Eyre

Mia nonna parlava con la televisione. Stravedeva per Andreotti e quando qualcuno lo attaccava durante un dibattito televisivo, lei lo difendeva dalla sedia della sua cucina urlando al televisore.
Ho sempre sorriso di questa cosa, chiedendomi se alla sua età (andava per i 90) avrei fatto la stessa cosa.
Ebbene, ci sono arrivato prima. È successo ieri, ascoltando gli ultimi capitoli dell'audiolibro Jane Eyre di Charlotte Brontë.
Quasi ogni sera percorro 7 chilometri di buon passo tra i viottoli di campagna dietro casa. Mi infilo gli auricolari e mi immergo nella lettura di un paio di capitoli. Si può dire “lettura” riferendosi a un audiolibro? Credo di sì. Intanto perché c'è qualcuno che legge, nel mio caso Silvia Ceschini, alla quale attribuisco una gran parte di merito nell'avermi trascinato nella storia, con una lettura precisa e una voce dolce e melodiosa. E poi perché, comunque, la sera, nel letto, vado avanti per conto mio con il libro vero e proprio.
I passi che mi hanno fatto irritare li ho vissuti con un pungente odore di letame nel naso, scansando migliaia di macchie sospette sulla strada, perse da qualche trattore sparpagliamerda. “Ma ammazzati!” urlavo. E poi: “Ma basta, ma mandalo a fare in culo!” “Ma taci, stronzo di merda!” Questo dicevo nel buio, figurandomi di alzare le mani su Saint John, uno dei predicatori più insopportabili della letteratura di sempre. Ora, arrivare a imprecare contro personaggi immaginari significa due cose: essere ormai rincoglioniti (e ci sta), ma soprattutto che chi ha scritto ha saputo fare meravigliosamente bene il suo lavoro. Charlotte Brontë non è celebre per caso fortuito e questa storia, resa con poetica semplicità è un capolavoro che merita tutta la fama di cui gode. Chi si diletta a scrivere, come io faccio, quando ritiene di aver raggiunto una buona qualità nelle proprie righe, dovrebbe rileggersi qualche pagina a caso di Jane Eyre utilizzandole come benchmark, anche se, se davvero si procedesse così, si finirebbe per non riuscire a scrivere più nulla.

lunedì 13 novembre 2017

The place

Ci sono dei film che mi lasciano addosso un po' di febbre perché superano la barriera schermo/spettatore e mi arrivano addosso, si insinuano persino sotto la felpa e sotto la maglietta.
Il talento, in dosi importanti e versato denso sullo schermo, una volta ingerito, resta lì a fare bene un po' male. 
Paolo Genovese conferma di essere una distilleria di questo elisir, ma non aveva bisogno di dimostrarlo, avendo guadagnato la mia stima già due anni fa con “Perfetti sconosciuti”.
Oggi immagina e scrive una nuova storia, semplice, profonda e terribile, e la circoscrive in una sola location. Non ci si muove mai da quel “place”, il tavolino di un bar. Le inquadrature si ripetono spesso, non so quante siano, una dozzina forse, ma di lì non ci si schioda. Eppure, con l'immaginazione si possono vedere e seguire i diversi altri rami che la storia racconta, ma che la pellicola non mostra.
Anche per dirigere gli attori occorre talento. Non parliamo poi per sceglierli e tenerli insieme.
Valerio Mastrandrea è il protagonista. Sempre in scena. Sempre perfetto, un'interpretazione con cui potrebbe chiudere la carriera perché di più non potrà fare. Sabrina Ferilli... chi avrebbe mai detto che Sabrina Ferilli...? E invece, Sabrina Ferilli c'è. C'è soprattutto una scena con la quale, se fossi al suo posto, chiederei di essere ricordata per sempre. E poi gli altri interpreti, nessuno tacciabile per qualche sbavatura o imperfezione. Insomma, finalmente un film italiano, fatto con poco, ma bello, bello, bello.
Il sito Mymovies gli attribuisce due stelle e mezza. Mi stupisce una valutazione così bassa, ma non sto nemmeno a leggere il commento perché sicuramente sbaglia. 
Le altre due stelle e mezza le aggiungo io. 
Vi invito a fidarvi e andare a vederlo dimenticando le mie parole. Andateci prevenuti, come ci sono andato io: un film italiano... niente tette... piove e fa freddo... c'è Muccino... la Ferilli... mah... la critica lo valuta così così... Ecco siete pronti per "The place".

domenica 5 novembre 2017

Blade runner 2049

Il fatto che ci siamo addormentati, io nei primi dieci minuti e mia moglie sui tre quarti, non deve far pensare che sia un film noioso o che i sedili del cinema Reposi siano troppo confortevoli.
In verità, i sedili del Reposi fanno schifo e la cassiera - che non si fida della mia parola, cioè non crede che io abbia 65 anni e quindi non mi concede la riduzione - è indisponente.
Ci siamo addormentati perché abbiamo un'età, anche se la stronza non ci arriva.
Veniamo al film.
È un sequel e se lo guardiamo come tale merita 10 perché è ben fatto e ci sono delle tette. Ma proprio perché è un sequel manca di freschezza e preso a sé vale poco. Le atmosfere sono curate, perfette. Sembra di ripartire esattamente da dove ci siamo lasciati con il primo episodio. Ma è proprio questo il punto. A parte la trama che cambia un po', non ci sono idee nuove. Il lavoro grosso e sporco lo ha fatto Ridley Scott nell'82 inventandosi e regalandoci un mondo.
Ryan Goslin è un buon replicante, un “lavoro in pelle” che piace molto alle donne. La sua fidanzata virtuale è arrapante ancorché virtuale. Harrison Ford è ancora guardabile. Il film però paga il peccato di non essere originale.
Vederlo era un obbligo, così come ho visto la serie di Indiana Jones, di Jurassic park, di Guerre Stellari. Certo far uscire un episodio ogni 35 anni è un bel rischio. Per dire, se la media è questa, il prossimo io mica lo vedo eh. Ma se per caso ci fossi ancora (avrei 93 anni) quella stronza della cassiera mi deve baciare il culo, altro che biglietto ridotto!

venerdì 15 settembre 2017

Le pietre

Il prossimo libro di Morandini si ititolerà "le buse" e io lo leggerò. Le buse, per chi non fosse del nord-ovest sono le cacche di mucca, quelle padelle appoggiate sul sentiero, che se le pesti aderiscono alla suola degli scarponi come un'omelette, ma non ti arrabbi e tiri dritto, perché tanto è roba sana. E chi dice che puzzano è sospetto.
Leggerò Morandini anche quando scriverà un libro sulla vita dei lombrichi.
Potrebbe scrivere la biografia di un filamento di tugsteno e io lo seguirei con passione.
Ha scritto un libro sulle pietre e io l'ho finito ieri sera.
È un romanzo strano, ovviamente. Come strano era "Neve cane piede" ma questo di più. Anche il narratore è atipico: la voce parla in seconda persona plurale. Ho letto solo un altro libro così: "le vergini suicide" di Eugenides. È una bella tecnica, questa, perché fa sentire chi legge al sicuro, in buona compagnia. E con queste pietre c'è poco da scherzare.
Ma non voglio parlare della trama, di cosa fanno le pietre, di cosa pensano né cosa possono rappresentare. Detto tra noi non mi interessa così tanto. A me basta che in un libro le parole siano scelte con garbo e messe in un certo ordine sulla pagina, in modo da diventare musica e che abbiano il potere di portarmi via, di  nutrirmi, dissetarmi e darmi la pace.


domenica 10 settembre 2017

Shantaram

Finalmente!
Finalmente il libro che aspettavo, quello capace di rivoltarmi il DNA, spiegarmi perché sono qui e fare di me una persona migliore?
No, finalmente l'ho finito. Minchia.
Sono 1174 pagine e credo che sia il libro più lungo (e spesso e pesante) con cui abbia tentato di appiattirmi la pancia.
Potevo mollarlo prima della fine? No che non potevo. Affrontare un libro di queste dimensioni è come fare un investimento ad alto rischio. Ci butti dentro i tuoi risparmi e il giorno dopo leggi sul listino che stai perdendo qualche centesimo. Più passano i giorni, più perdi soldi. Eppure il consulente aveva detto che il rendimento... E così non vendi, non puoi. Devi arrivare alla fine per riavere il capitale. Forse. Ecco, è andata così, tra alti e bassi. Sì perché non è tutta noia o tutto inutile. Ci sono lunghe parti interessanti, altre belle, una parte è persino appassionante, ma è un brodo davvero troppo allungato. Il buon Gregory David Roberts avrebbe potuto scrivere la storia con 500 pagine in meno e sarebbe stato un buon lavoro.
Avete per caso letto “La città della gioia” di Lapierre? Vi è piaciuto? Allora tenetevi quell'impressione. C'era troppo Dio in quel romanzo, anzi tutto girava intorno a Dio, ma almeno girava. Qui tra spacconate, esagerazioni, divagazioni si rimane un tantino inchiodati. Io per un mese intero, per esempio. Finalmente libero, stasera posso iniziare un altro libro. Sul comodino ho Anna Karenina che mi aspetta. Scherzo eh :)

sabato 2 settembre 2017

Dunkirk

Certamente bello da vedere, ma anche da sentire. La colonna sonora fa tra il molto e il moltissimo. In certe scene non è neppure musica, è puro ritmo e moltiplica il tasso di crescita della tensione che, diciamolo, schizza fuori scala al primo minuto e rimane in orbita per tutto il film.
L'intervallo, al cinema di Valperga, arriva giusto in tempo per consentire al pubblico di recuperare ossigenazione e per smettere di stritolare i braccioli delle poltroncine.
C'erano disturbatori in sala? Pop corn rumorosi? qualcuno che commentava ad alta voce? Luci di telefoni tra i sedili? E chi lo sa? Per rispondere sarei dovuto essere in sala, invece che proiettato dentro il film.
Ci sono dei messaggi particolari o una nuova etica che possano far amare questo film? No, è un film di guerra e se si vuol trarne una morale è sempre la medesima: evitare la guerra.
L'entusiasmo trae origine dalla confezione; è un film fatto terribilmente bene.
Gli attori ci mettono del loro, ma è uno di quei casi in cui il regista (in questo caso Christofer Nolan) fa davvero il regista. Una prova? Guardatevi le sequenze all'interno dello Spitfire quando il pilota deve prendere delle decisioni. Non parla, il suo volto è completamente nascosto da mascherina, occhialoni e casco. Impossibile leggere la sua espressione, ma Nolan riesce comunque a far capire esattamente quale sia il problema, a cosa stia pensando il suo personaggio e quale drammatica decisione debba prendere. Il tutto comunicando soltanto con inquadrature e montaggio. Molti suoi colleghi non arriverebbero al risultato nemmeno con i sottotitoli.
È tutto così: poche parole e azione, tanta, caratterizzata da scelte di inquadrature e un montaggio sempre perfetti.
Non aspettatevi le tette della protagonista perché non c'è una protagonista. È un film con soli uomini, una storia vera, una bella dimostrazione di talento e una grande testimonianza di arte contemporanea.

lunedì 24 luglio 2017

Lupo mangia cane

Ci sono ambientazioni che mi rendono particolarmente caro un libro. Questi luoghi sono i sanatori, i sommergibili e le sedi di esperimenti o disastri nucleari. No, non ci sono ancora andato dallo psicoterapeuta, sì ci devo andare, lo so.
Questo romanzo di Martin Cruz Smith si svolge quasi interamente intorno al reattore di Chernobyl, nella "zona" chiusa, vietata e super inquinata da Cesio, Iodio, Stronzio e tanti altri fantastici radionuclidi. Il giallo si dipana tra villaggi abbandonati, relitti radioattivi, personaggi che non dovrebbero vivere lì e invece sono residenti stabili, scienziati, milizia locale e misteri. 
Sul meccanismo giallo non dico nulla perché non l'ho proprio capito e dopo un po' ho smesso di interessarmene, ma ho anche scoperto che non leggo certi gialli per scoprire chi è l'assassino. Mi piacciono e basta.
Oltre alla location che mi eccita una cifra, devo ammettere di essere un fan del detective Arcady Renko, che seguo da tanti anni e del quale perdo continuamente le tracce. 
Proprio a proposito di Renko, sorge una considerazione: ma quanto si assomigliano lui, che è un detective russo, e il commissario Harry Hole, norvegese di Jo Nesbo? Sono come due locomotive di Guccini entrambe lanciate contro l'ingiustizia. Non li ferma nessuno, prendono entrambi un sacco di botte, mettono in gioco la loro vita continuamente, sono sempre sfortunati con le donne, uno è etilista l'altro è alcoolizzato. Due eroi gemelli che amo particolarmente. Davvero: non ci sono differenze tra il Renko di questo romanzo e Harry Hole di "Polizia" o "Sete". 
A cosa serve questa scoperta? A nulla. Se non a consigliare a chi legge "quasi" tutti i romanzi di Nesbo e Cruz Smith. Di Smith si può evitare "Havana" mentre di Nesbo, se andrete in ordine cronologico, vi accorgerete voi stessi quando sarà il momento di smettere.

sabato 17 giugno 2017

Luci rosse

Cesena, stazione di Cesena.
Il Simenon che non ti aspetti. O meglio, un finale che va contro tutto quello a cui mi ha abituato. Mi rendo conto che è impresa assai ardua trattare del finale senza poterne dire nulla per non rovinare la lettura a chi dovesse ancora leggerlo. Allora, sebbene il finale sia la cosa più interessante, parlerò dell'incipit. È uno dei romanzi del periodo americano. Non lo sapevo e appena me ne sono accorto, cioè alla prima pagina, mi è preso un senso di scoraggiamento, perché le ambientazioni che amo di più sono quelle nebbiose, hanno almeno un canale nelle vicinanze, un caffè aperto di notte, un porto, un bretone e qualche battello. O un treno. In questo caso no. Come in Tre camere a Manhattan, la scena si apre a New York, ma si lascia subito la città per uno di quei viaggi disperati, come solo i viaggi con Simenon alla guida possono essere. E allora, anche se si attraversano il New Hampshire e il Maine non si sente la nostalgia della Normandia o della Costa Azzurra. “Luci rosse” diventa l'ennesima opera riuscita di Simenon, un autista pilota che non chiede passaporto. Per entrare in questa, così come nelle altre storie che racconta, basta presentarsi all'imbarco disarmati e pronti a viaggiare: con lui e dentro noi stessi.

domenica 11 giugno 2017

Neve, cane, piede


Un libretto che tiene lontani, con un titolo così così e uno spessore che sa di una botta e via. In genere preferisco volumi più importanti, così come preferisco i film tradizionali ai cortometraggi.
Ora che l'ho letto, accetto il titolo e mi faccio una ragione che finisca già a pagina 126 perché l'autore, Claudio Morandini, ha scolpito nel legno di larice due personaggi così tridimensionali e ricchi che ci si potrebbe girare intorno, come fossero statuette del presepe. Si possono anche prendere su per provarne il peso e stupirsi di come siano tanto rifinite. Si vede che sono dipinte a mano. Sono due, soltanto due e vivono in una baita. Sono seppelliti sotto la neve, ma attraverso il camino si sentono le loro parole, che sono poesia.
Neve, cane, piede. Ora che l'ho letto (eterna gratitudine a chi me lo ha imposto) diventerà il mio regalo seriale per gli amici, soprattutto per quelli che non leggono. Ingannati dal piccolo formato, traditi dal bianco della copertina, imboniti da un profilo sottile, di poche pagine, sedotti dalla prospettiva di poter dire “un libro quest'anno l'ho letto!” potrebbero cascarci e leggerlo veramente e quindi perdersi tra anime, neve, sentieri e solitudine. E quindi ritrovarsi.

lunedì 29 maggio 2017

Still life

Ho visto un film bellissimo, delicatissimo, dolcissimo nella sua tristezza. Non ne avevo mai sentito parlare, non ne sapevo niente. E non sapevo nulla neppure di Uberto Pasolini, il regista. È stato un caso che passasse su RAI 5 ieri in terza serata, a conclusione di una domenica abbastanza di merda. È come quando non ti aspetti più niente dalla vita e all'improvviso accade qualcosa. Ora, non voglio esagerare se no poi non vi piacerà. Certo non è una commedia, credo che abbia vinto alcuni premi a Venezia tra cui il Leone per il film più triste e drammatico della rassegna. Lo merita senz'altro, ma trovo che la tristezza possa essere sexi e sia benvenuta quando è piena di vita e di poesia. John May, il protagonista, ha un viso che non si dimentica. Ce l'ho qui davanti agli occhi mentre scrivo e se ne scrivo così è perché da questa storia delicata e geniale non ne sono ancora uscito. Capita con certi film o certi libri. Le emozioni vere, quelle dense, stanno lì a bollire a fuoco lento come passata di pomodoro per giorni, a volte per settimane. Mi chiedo se non sia il modo che hanno per cercare di entrare nel profondo e rimanerci. Forse sì. In tal caso spero di essere ancora abbastanza permeabile nonostante gli anni, i malanni e i danni. Leggo su mymovies che in totale "Still life" ha incassato poco meno di un milione di euro al cinema contro i 23 milioni che a suo tempo incassò "Natale a Miami". Ecco: questo sì che è davvero triste, ma triste triste triste.

venerdì 19 maggio 2017

Quando diventai campione di pallanuoto

A 13 anni, ai miei compagni di giochi che erano i soldatini e il lego, aggiunsi i romanzi di Urania. Quando non giocavo, mi procuravo i primi, feroci mal di testa standomene tutto storto sul letto a leggere.
Questo a mia madre non piaceva. Archiviata la parentesi presso gli scout, un giorno mi disse: “Giovanni fa pallanuoto, perché non ti iscrivi anche tu?”
Io risi, perché sapevo nuotare soltanto con le pinne.
Lei disse che avrei imparato e mi ritrovai iscritto al Centro Sportivo Fiat.
Va detto che io non avevo nessuna voglia di fare pallanuoto, ma dirlo a lei non servì: mi ritrovai a fare allenamento in corso Moncalieri, dall'altra parte del Po, per chi non è di Torino, dall'altra parte del mondo per me che abitavo a Santa Rita.
Una breve digressione. Chi è che si iscrive a un corso di pallanuoto? Diciamo la verità: pochi. Ci sono gli appassionati, ma in genere pallanuotisti si diventa quando, dopo anni di pre-agonismo e agonismo nel nuoto, appare chiaro che non ci sono i numeri per diventare campioni.
I miei compagni di corso, dunque, venivano dalle gare di nuoto. Io dai soldatini e dai romanzi di Urania.
Torneo estivo. Piscina Fiat di corso Moncalieri
Ho un ricordo del primo giorno. L'allenatore si chiamava Mattia Aversa e mi teneva d'occhio perché aveva intuito che io, dall'altra parte della piscina non ci sarei mai arrivato.
Mi diede qualche rudimento sul nuoto, mi affidò un pallone giallo e mi disse di battere le gambe tenendo quello davanti a me. Fu così che iniziai a muovermi nell'acqua mentre i miei compagni sfrecciavano su e giù, sommando vasche su vasche. Tra quelli del mio anno ce n'era uno che si chiamava Agagliate, un cognome da casello della A4, ma una velocità da Freccia rossa, un altro si chiamava Macchia ed era una saetta. Poi c'erano i Capobianco, di pura origina napoletana, come la tradizione della pallanuoto impone. C'era il mio amico Giovanni, quello che secondo mia madre non avrei avuto difficoltà ad emulare. Tutti imprendibili e quando, in partita, mi attaccavo alle loro caviglie per non lasciarli scappare, o mi beccavo un calcio in faccia o l'arbitro mi espelleva.
Fortuna vuole che negli anni 70 non fosse ancora stato inventato il bullismo viceversa sarei stato una vittima perfetta.
Ho altri ricordi di quel primo anno e, tra tutti, uno dell'ultimo giorno, prima della pausa estiva. Ci fu un torneo serale, riflettori accesi, aria tiepida, genitori sugli spalti della piscina. Quando fui mandato in acqua, nel quarto e ultimo tempo, gli avversari si rinfrancarono. L'uomo in più, nella pallanuoto è uno schema importante, forse l'unico che ci sia. E con me in vasca loro avrebbero avuto l'uomo in più, perché io ero, per definizione, l'uomo in meno. Insomma un'occasione per fare strage di reti.
Sapendo quale fosse la mia velocità, nicchiavo a centro vasca, in modo da ripiegare per tempo quando perdevamo la palla, ma nel corso di un'azione mi ritrovai avanti, ma avanti avanti e ricevetti persino la palla e ci fu anche chi mi urlava “Tira!” “Tira cazzo! Tira!” Ma dicevano a me? E sì che dicevano a me, ero io ad avere la palla sulla linea dei quattro metri e non ero nemmeno marcato. In porta di là forse c'era Bodrone, che parava come un portone e aveva le braccia talmente lunghe che quando camminava si poteva tirare su i calzini. O forse c'era un altro portiere, non ricordo. Ricordo però che avevo 'sta palla in mano, la calottina storta che mi tappava un occhio, il fiatone, la paura di non farcela a tornare in tempo, la luce dei riflettori negli occhi, l'acqua alla gola (letteralmente) e la palla in mano che pesava una cosa esagerata. L'adrenalina o ti fa scattare e moltiplica le energie o ti pietrifica e ti perde. Io sono uno che si pietrifica. Sono il coniglio davanti ai fari del Tir che ti corre addosso.
“Ma tira cazzo!” Forse lo urlavano anche dalle tribune, non saprei. Era fine stagione e io non avevo segnato nemmeno un gol, nemmeno nelle partite di allenamento. I miei compagni invece tenevano il conto e il penultimo ne aveva almeno una ventina, il primo, il maschio alfa, almeno duecento.
“Tira!”
Non si capiva perché non fossi marcato da nessuno in quell'azione, forse non mi avevano visto, mezzo affondato come avrebbe fatto la Costa Concordia nel secolo successivo. Qualcuno però cominciò a preoccuparsi e cominciarono a urlare anche gli avversari. “E quello?” Sottinteso: "chi lo marca?" Qualcuno spuntò dalla schiuma e si diresse verso di me con la velocità di una moto d'acqua. Mi figurai travolto dalla prua a bulbo, massacrato dalle gomitate, affondato come il Titanic e soprattutto immaginai la fuga dell'avversario con la mia palla verso la porta opposta, con sua massima gloria e mia somma umiliazione. Allora alzai quel braccio debole e tremante. La palla lasciò l'acqua. Il portiere (non era mica Bodrone, sono quasi sicuro che fosse un altro) si mise in pressione, alzai ancora di più il braccio armato e di conseguenza, pur avendo fatto molti progressi in acquaticità, affondai fino agli occhi (all'unico occhio, l'altro, ricordo, era coperto dalla calottina). Azzardai due o tre finte che non preoccuparono affatto il portiere, poi guardai l'incrociatore che mi stava arrivando addosso avanti tutta e il panico fece il resto. Invece di tirare forte e teso mirando un angolo della porta come sarebbe stato giusto vista la posizione, feci partire una palombella (un pallonetto morbido) che si usa solo quando il portiere è spiazzato. Invece era piazzatissimo. Per questo non se l'aspettava. La parabola si alzò, poi si abbassò ed entrò dove doveva entrare. Gol.
In tribuna, qualcuno disse “Quello è mio figlio”.
Cus Torino, sono quello in mezzo in basso (peloso)
L'allenatore approfittò del gol per fare le sostituzioni quindi per fare uscire me. Ma che importava?
Rimasi in forza (si fa per dire) al Fiat per tre anni. Non diventai mai veloce, ma supplivo con altre doti. Quali? Non ricordo. La prima squadra del Fiat pallanuoto giocava in serie A. Voglio dire: se fosse caduto l'aereo con la prima squadra e poi quello con le riserve, se tutti gli juniores fossero morti di ebola e gli allievi si fossero ammazzati di seghe, allora sarebbe toccato a me scendere in vasca e giocare in serie A.
Non accadde mai nulla del genere, anche perché le trasferte si facevano in pullman.
All'età di diciassette anni, il Fiat mi cedette gratuitamente al Cus Torino, (sai che regalo...)! che militava in serie C. Lì non c'erano squadre giovanili, solo la prima squadra. Insomma, ero un giocatore di serie C, quelli che nel calcio stanno in due in una figurina. L'allenatore era ligure e si chiamava Piccardo. Mi diceva solo una cosa, con un pesante accento di Bogliasco: “Aldo Aldo, ricorda: “Bacco tabacco e venere riducono l'uomo in cenere”. Me lo diceva un po' a cazzo perché sì, fumavo, ma non bevevo e le ragazze proprio non me la davano.
I rapporti con i compagni al Cus erano diversi. Qui c'era gente di tutte le età. C'era Puleo, un siciliano che, non so perché, ma non mi ha mai picchiato, pur se gli si leggeva nello sguardo la voglia di farmi male. C'erano vari personaggi e c'erano anche Claudio e Mamo, che furono i miei migliori amici di quel periodo. Insomma, cominciai a divertirmi anche se in serie C il primo gol devo ancora segnarlo. Ma non si sa mai.

martedì 16 maggio 2017

Fate presto e mirate al cuore

 Il primo capitolo, direi "elettrizzante"

 1


Dopo qualche minuto, la donna si rilassò un poco o, per lo meno, iniziò a fingere.
Il sorriso che rivolse all’uomo voleva esprimere un buon grado di complicità e sembrava quasi autentico. Quasi, perché invece la poveretta era terrorizzata. Lo sarebbe stato anche lui se si fosse trovato al suo posto.
Non era stupida: sapeva che mostrarsi impaurita sarebbe stato come ammettere tutto e accettare il castigo.
Dubbi, comunque, non ce n’erano: aveva sbagliato e quelli del Personale avevano deciso per una sanzione esemplare. L’avevano anche avvertita, come erano soliti fare. Per questo si era presentata all’appuntamento e ora si trovava nuda, immersa in una vasca di acqua bollente, con quell’uomo che la osservava da vicino, seduto sui talloni.
Salvatore Nicosia rimboccò la manica destra della camicia senza fretta, poi immerse la mano ed ebbe conferma di ciò che immaginava: l’acqua scottava. Se la donna avesse avuto la coscienza pulita avrebbe protestato. Come poteva resistere a quella temperatura? La osservò con più attenzione: la pelle alla base del collo era arrossata, a larghe chiazze, e così anche sul petto. Teneva le mani accoppiate in grembo per coprirsi là dove era completamente rasata. I seni però erano a disposizione, appena sotto la superficie. A Nicosia non piacevano: troppo gonfi e sferici, frutto palese di una mastoplastica effettuata al risparmio. Non aveva mai toccato seni al silicone ed era curioso. Appoggiò la mano sopra il destro e strinse un po’. Poi passò all’altro. Le punte, indefinite, tinta su tinta, non risposero in nessun modo. Era per via della temperatura troppo elevata dell’acqua? O perché la paura annullava ogni altra sensazione?
La mano scivolò lungo il ventre, fino a incontrare le barricate che la donna aveva improvvisato con i polsi stretti tra le cosce. Senza guardarla, solamente con la pressione della mano, le fece capire che la resistenza non era gradita. Lei cedette e, aprendosi, concesse qualsiasi cosa.
Nicosia arrivò al caposaldo che lei aveva così poco eroicamente difeso, vi transitò sopra ma non si soffermò, risalendo invece l’interno di una gamba fino al ginocchio, finalmente fuori dall’acqua bollente.
La donna cercò di leggere il suo sguardo per capire che cosa la aspettasse, ma lui le negò ogni contatto con gli occhi. Avrebbe dovuto sorridere per tranquillizzarla ma non ne aveva voglia. Continuò a carezzarla in quel modo per qualche minuto ma non appena cessò, si accorse che si era irrigidita, come faceva lui quando il suo dentista cambiava attrezzo e gli ordinava di spalancare la bocca. Sì, aveva ancora paura.
Il bagno era luminoso e completamente piastrellato color beige.
Sarebbe uscita parecchia acqua e Nicosia provò a immaginare che cosa avrebbe pensato la donna che rifaceva le camere. Chissà perché poi doveva essere una donna. Magari era un uomo, un peruviano. Ne aveva già visti di uomini lavorare negli alberghi.
Seguendo una qualche sua idea, la donna inarcò il bacino, offrendo il sesso appena sotto un velo di acqua. Nicosia non se lo aspettava. Chi credeva di prendere in giro? Per qualche momento la assecondò, poi risalì con esasperante lentezza fino alla gola e la afferrò, trattenendola in una sola mano. La donna spalancò gli occhi e cessò di respirare. Il corpo rimase immobile, sospeso nell’acqua. Nicosia allentò la presa e ritirò la mano. Non aveva stretto e infatti non aveva lasciato alcun segno. Scosse platealmente la testa mentre si drizzava e prendeva uno degli ospitini per asciugarsi il braccio.
La donna parve rilassarsi, questa volta senza fingere.
«Cosa credevi di fare, eh?» domandò Nicosia rompendo il silenzio.
«Lo so...»
«Se lo sapevi perché l’hai fatto?» Il tono, che poteva essere quello di un padre con una figlia disobbediente, contrastava con le carezze che le aveva riservato e con l’offerta di lei, confermata da quelle ginocchia appoggiate ai due bordi della vasca.
«Non succederà più» promise.
Nicosia pensò che probabilmente era vero, ma non era lì per raccogliere il pentimento della donna.
Sganciò la cintura dei pantaloni, ma si interruppe subito.
«Chiudi gli occhi» le ordinò.
La donna sorrise di sollievo: se la sarebbe cavata con del sesso. Per essere convincente e dimostrare che di lei ci si poteva fidare, oltre a chiudere gli occhi, li coprì con le mani.
Sentì che l’uomo armeggiava con qualcosa.
«Ehi!» la richiamò lui dopo qualche secondo.
La donna guardò e si accorse che era ancora completamente vestito. Era in piedi, un po’ discosto dalla vasca e teneva sospeso qualcosa sopra di lei.
Istintivamente, unì le ginocchia.
«No!» tentò di urlare quando riconobbe un asciugacapelli.
Nicosia invece fece segno di sì con la testa e lo lasciò cadere nell’acqua.



mercoledì 3 maggio 2017

Elle

Nel trailer si dice che Isabelle Huppert, la protagonsita è candidata all'oscar. Infatti non lo ha vinto. Il regista, Paul Verhoeven invece ha meritatamente vinto e già ritirato la statuetta del mio più cordiale vaffanculo. Perché? Perché ELLE è un film inutilmente prolisso e disordinato. 130 minuti da curare con l'Imodium. È come quando si cucina qualcosa e ci si accorge che sa di niente. Allora vai di spezie, ma non ci stanno, allora aggiungi sale, ma troppo, allora una patata per togliere il salato, poi un po' di pepe, ma per sbaglio macini dello zenzero. Ma che merda! Un film insulso e improbabile, con la prima donna al mondo contenta di farsi violentare e una pletora di personaggi che non sanno cosa fare. Sembra che in Francia siano diventati tutti deficienti. Forse è così. Vediamo cosa votano domenica.

sabato 22 aprile 2017

Scuola omicidi

Sapete quando non si vede l'ora che sia sera per prendere finalmente in mano il libro che si sta leggendo? E ignorare notifiche di Facebook, Instagram, WhatsApp, fregarsene dei Tweet per non distrarsi dalla lettura? È ciò che non accade leggendo "Scuola omicidi" di Elizabeth George.
Cattura come una molletta da bucato cotta dal sole. La tensione è quella di una pila usata in un gioco per bambini e riciclata nel telecomando della tv. La curiosità di sapere chi è il colpevole, in una scala da 1 a 10 inciampa nel primo gradino. Vado avanti? No, avete capito.
È il secondo libro della George che leggo e direi che, a dispetto della sua produzione e della fortuna che riscuote, per quanto mi riguarda il suo ciclo si può tranquillamente chiudere qui. 


domenica 2 aprile 2017

Le campane di Bicetre

È una sensazione bella e rara, quella di accorgersi che il libro che si sta leggendo è davvero importante. In questo romanzo ho provato questa sensazione fin dalla prima pagina ed è durata per quasi tutta la lettura. Quasi, perché il finale è scivolato verso un epilogo che immaginavo diverso. Ma è davvero una pecca piccola piccola, un problema più mio che del libro. Anzi, se mi permetto di sollevare la questione è soltanto per trovare un pelo in un uovo che è stato covato con particolare cura dal suo autore e che è uscito perfetto.

sabato 25 febbraio 2017

Indignazione

Potrei essere utilizzato come orologio da cucina. Mi mettete un libro in mano la sera e non appena mi casca sul naso, potete spegnere sotto i fagiolini nella pentola a pressione. Preciso.
Non però ieri sera, né la sera prima. 
In questi due giorni ho letto Indignazione di Philip Roth. Ho smesso dopo due ore, la prima sera, giusto per non scolarmelo in una sola bevuta, e un'altra ora ieri, fino alla fine, perché oltre la nota storica non si può andare. 
Non parlerò dei contenuti del romanzo, quindi non dell'indignazione di Roth e del giovane Messner, ma della mia ammirazione per come l'indignazione è espressa, e anche per come è tradotta da Norman Gobetti. I dialoghi sono di una potenza misurabile in kilotoni. Mi sono sentito persino umiliato, perché nell'assistere alle discussioni, viene spontaneo anticipare delle frasi, delle risposte, come se si potesse essere veramente lì, davanti al rettore, ma le ho sbagliate tutte, per piccolezza, per scarsa lucidità, per pigrizia o codardia. Molti che hanno commentato, affermano che questo non sia uno dei migliori romanzi di Roth. Per rispondere mi immergo nella vasca da bagno e dico: “meno male”. **

** citazione dallo spot tv ING Direct

sabato 18 febbraio 2017

I complici

Lambert si chiude porte alle spalle. Non fa altro per tutto il breve percorso che Simenon traccia per lui. Non è una novità: pressoché tutti i personaggi di Simenon si comportano allo stesso modo. Se inciampano non sono più in grado di individuare la rotta corretta e sbandano, sbandano sempre più, incespicando nei propri piedi e ripetendo gli stessi errori. Se hanno qualcosa di prezioso fanno in modo di perderlo o rovinarlo.
Ne “I complici” Simenon mostra il momento in cui Lambert compie il suo primo, fatale, errore già in prima pagina. Le restanti 113 non sono altro che la maturazione dei fatti e l'accavallarsi di decisioni sbagliate. Uno sviluppo che per un neofita di Simenon può apparire forzato o assurdo. Ma se di questo autore si accetta il metodo di ricerca, che rende estreme le situazioni per ricercare il senso ultimo di fatti, persone, emozioni e sentimenti, allora si accetta anche che i personaggi non possano salvarsi e che i romanzi possano chiudersi soltanto con un finale malinconico nella migliore delle ipotesi, tragico in tutte le altre.

sabato 11 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge

Scrivete “sergente” su Google. Subito dopo il sergente Garcia vedrete apparire il “Sergente Hartman”. Perché? Perché il sergente Hartman è il protagonista di una delle scene più potenti nel cinema, dai fratelli Lumiere a oggi. Lo trovate in “Full metal jacket” di Stanley Kubrick. Regista e sceneggiatori hanno scritto per il sgt. Hartman dialoghi da imparare a memoria e ripetere sgranando il rosario. “I tuoi genitori hanno anche figli normali, Palla di Lardo?! Giusto per capirci.”
Ora, solo un regista stupido, pazzo, ingenuo o ignorante può pensare di inserire nel suo film una scena analoga, con un sergente istruttore che tenta di spaventare le reclute. Mel Gibson lo ha fatto. Ha preso come sergente Vince Vaughn che non farebbe paura a un tosapecore a batteria e gli fa dire battute che potrebbe scrivere un editorialista di Libero. Ma come gli è venuto in mente? È come se Frizzi si mettesse a cantare Image spacciandola per nuova. Se avete visto Full Metal Jacket il paragone vi farà venire una voglia pazzesca di scappare dal cinema, tornare a casa e rivedere il film di Kubrick. Se non avete mai visto Full Metal Jacket e non conoscete il sergente Hartman (ci hanno fatto pure le suonerie con i suoi dialoghi) non so che vivete a fare.
Per il resto, il film è un insieme di buoni sentimenti e macello. Le scene crude sono veramente crude, per cui se non siete vegani, vi piaceranno. Il fatto che si racconti una storia vera di un vero eroe non è un'attenuante. La battaglia di Hacksaw Ridge potrebbe essere una buona americanata se non pagasse il peccato originale di quella scena tra seregente e reclute. Purtroppo non c'è acqua battesimale che lo possa salvare. Potrebbe avere il 6 se almeno si vedessero le tette della davvero gnocchissima Teresa Palmer. E invece niente.

mercoledì 8 febbraio 2017

Fai bei sogni

Non so con precisione quando la mia ammirazione per Massimo Gramellini e i suoi buongiorno su “La Stampa” sia evaporata, né perché. Credo cinque o sei anni fa e forse perché gli ho scritto un paio di volte e lui non mi ha risposto, o forse perché seguire uno che ha sempre ragione dopo un po' annoia, o forse anche perché non sbrocca mai. E poi, più di due o tre buoni sentimenti la settimana mi fanno sbocciare chiazze rosse sulla pelle. Fatto sta che ho smesso di leggerlo e ho cominciato ad arricciare il labbro ogni volta che lo incontravo. Adesso, poi, è passato al Corriere e le occasioni di incrociare i suoi scritti saranno poche o nulle.
Ieri sera ho visto “Fai bei sogni” il film che ne ha tratto Bellocchio con Valerio Mastandrea nella parte di Gramellini, appunto. Non ci sarei mai andato di mia iniziativa, ma il film apre una rassegna di 8 pellicole in abbonamento e quindi... E poi l'alternativa sarebbe stata la prima serata di Sanremo.
Il problema è che il film mi è entrato dentro. Subito. Dalle prime scene, e questo non era affatto previsto. È facile commuovermi. Due canzoni a cavallo tra gli anni 60 e 70, un po' di riferimenti alla Torino di quell'epoca e la nostalgia viene su come bagna caoda. Quel bambino (attore Nicolò Cabras, non bravo: bravissimo), figlio unico, che gioca con la sua mamma sarei potuto essere io: stessi anni, stesso tipo di casa, addirittura stesso quartiere, Santa Rita. La faccio breve: dicono che libro e film siano diversi, che il film sia più introspettivo e angosciante e il libro più leggero e autoironico. Libro e film raccontano comunque una storia vera nella quale si fa riferimento alla felicità soltanto per contrapporla alla perdita e alla mancanza. Si vedono e si intuiscono un'infanzia e un'adolescenza davvero pesanti, come non mi aspettavo. Il dramma che si consuma, poi, è di una semplicità tale da apparire credibile, quasi tangibile. 
Ora che ho visto il film, cambia qualcosa? Probabilmente sì. Toccandomi da vicino, ha avuto l'effetto di una doccia e mi ha lavato via un po' di spocchia polverosa. Mi sento come dopo una visita a un conoscente in un brutto reparto di un brutto ospedale: pieno di buoni propositi e pronto a iniziare un nuovo ciclo con un tasso di cinismo più contenuto. Finché dura.

martedì 31 gennaio 2017

La ragazza dai capelli strani

Non l'ho abbandonato: ma l'ho lasciato lì, in attesa di capire come funziona. Ci sono dei racconti perfettamente riusciti come quello al David Letterman Show, altri che sembrano scritti a 4 mani con Palahniuck, altri ancora - e sono quelli che mi hanno fatto decidere - non si capisce dove vogliano andare. È come se il tram che prendiamo tutti i giorni cominciasse a passare davanti a fermate dai nomi sconosciuti in una periferia che non finisce più. L'impressione è proprio quella di perdersi. Quando, invece di leggere le righe, si continua a guardare quante pagine mancano alla fine, meglio suonare il campanello e scendere alla prima.

domenica 29 gennaio 2017

La la land

Oggi mi faccio qualche nuovo amico sostenendo che La la land è un film mediocre e non vale i 7,5 euro del biglietto. Gli unici oscar che potrebbe vincere senza fare scandalo sono quelli strani e - forse - quello per la protagonista femminile, perché Emma Stone è brava, ma magari arriva una concorrente altrettanto brava e si pappa la statuetta.
Il film: intanto inizia con uno dei più brutti balletti che si siano mai visti in un musical. La canzone è davvero brutta, il testo quanto meno banale (nei sottotitoli) e la coreografia a cura di Onda verde in collaborazione con polizia stradale, carabinieri, ACI, Anas, Aiscat e società autostrade fa venir voglia di lasciare il cine anche se il film deve ancora iniziare. Forse che non mi piacciono i musical? Sì, non ne vado pazzo, ma non si tratta di quello, perché ne posso citare uno tra i 10 film più belli mai prodotti e visti dal genere umano, per cui non è questione di genere, ma di mancanza di idee. In la la land l'idea è semplice come il titolo. Mi vedo il regista Damien Chazelle che dice: “facciamo un film sulla realizzazione di un sogno professionale, poi i due protagonisti si innamorano, poi subentrano le difficoltà, allora giù di malinconia per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato”. È esattamente quello che ha appena fatto Woody allen con Cafè Society, con la differenza che per lo meno W.A. non interrompe il film ogni 5 minuti per infilarci un balletto. Ormai per me è andata così, ma se mi ascoltate voi potete non andarci proprio.

sabato 28 gennaio 2017

Split

Ho tre cose da dire.
La prima: mi alzerò sempre in piedi ogni volta che sentirò il nome di Shyamalan perché ha scritto e diretto “Il sesto senso” uno dei tre film più belli che abbia visto nella mia vita.
La seconda: Split mi ricorda tanto “Identità” un thriller del 2003 che ho visto in tv due o tre volte. Anche in quello, come in questo, c'era uno psicopatico che ospitava in sé più personalità, ma la costruzione era alquanto diversa e la soluzione finale, che non sto a riportare - perché consiglio “Identità” a chi voglia farsi sorprendere da un bel thriller - era assai più forte. Il colpo di scena era una bella bomba. Come dire che era più Shyamalan quello (che non lo era affatto) di questo che invece è firmato.
La terza: è come se un venditore venisse a casa per vendere il suo apparecchio. Entra, si siede e mi dice tantissime cose, tutte vere, tutte giuste, farebbe ragionamenti rotondi, mi farebbe capire quanto io abbia bisogno del suo aggeggio e io farei “sì sì” con il testone, ma poi non comprerei niente perché tutto sommato non mi ha convinto. Split è uguale: il protagonista è molto bravo, le ragazze recitano bene, il film è ben confezionato ma non soddisfa le mie esigenze: idee, ansia, tensione, spettacolo, sorpresa, tette. Le tette, poi, che per me valgono il 6 sicuro, non si vedono. Insomma, non entra nella mia top 1000 e sta fuori anche dai miei incubi. Come potrei raccomandarlo?

lunedì 23 gennaio 2017

Il passeggero del Polarlys

Siete mai stati a bordo di uno di quei postali che risalgono la costa della Norvegia consegnando merci e missive in cittadine e paesi sperduti in fondo ai fiordi? Vi piacerebbe? Non dite di no perché non sareste credibili. Piuttosto, preferireste compiere la crociera in estate o durante i mesi invernali?
Simenon non lascia scelta: vi imbarca adesso, con il buio e vi rilascia nel riverbero che non è quello del sole ma della neve, quella che ricopre le montagne che si tuffano a picco nel Mar glaciale artico. Il Polarlys scivola via lungo una rotta che conosce a memoria. Ma questo viaggio sarà diverso.
Nebbia fitta, sempre, fari che non si vedono, canali tra isole da risalire controcorrente, fragili pescherecci che appaiono tra i marosi, vento misto a ghiaccio, neve che sfarina fin dentro la pipa del comandante. Il terzo ufficiale al suo primo incarico, di guardia in plancia sempre senza cappotto, il pilota che si tiene nell'ombra più scura, passeggeri che soffrono il mal di mare. Il mare grosso vira a tempesta, boccaporti da chiudere e coprire prima che arrivi il peggio. Navi carboniere che passano veloci, lasciandosi dietro il lamento delle sirene, montagne di ghiaccio e montagne d'acqua.
In tutto questo c'è anche una trama gialla con un assassino sulla nave, ma sinceramente, sapere chi, cosa e come, non ha nessuna importanza. L'unica cosa che conta, purtroppo, è che questo viaggio, così presente e così reale, termina e Simenon ci sbarca.

martedì 10 gennaio 2017

Paterson

Dirò tre cose. La prima è che ho bisogno di sapere come si chiama la doppiatrice che impresta la voce alla protagonista, ché vorrei chiederle se ha già impegni per la prossima vita.
La seconda è che vorrei sapere dall'attrice protagonista se ha già preso impegni per la prossima vita.
La terza cosa che dirò è una poesia. Ma attenzione, è una poesia che in questo film poetico sulla poesia non c'è. La so per conto mio e la riporto qui.


Tutte le lettere d'amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d'amore se non fossero
ridicole.
Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d'amore, se c'è l'amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d'amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d'amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.

È una poesia di Pessoa e - ripeto - nel film non c'è. Nel film ce ne sono altre. Ma se l'avete letta e se vi è piaciuta come è piaciuta a me, allora anche il film vi piacerà come è piaciuto a me. Non saprei in quale altro modo potrei dirvelo.