sabato 4 agosto 2007

Alpi, una grammatica d'alta quota

In un periodo in cui butti via il giornale ancora piegato perché non hai il tempo di aprirlo e pensi di non rinnovare  l’abbonamento a Internazionale per lo stesso motivo, chi ti regala un libro che si intitola “Alpi, una grammatica d’alta quota” vuole farti un dispetto strenna. è come se ti regalasse un pezzo di deserto arabo convinto di rifilarti sabbia, perché si è fermato alla superficie, ha letto solamente la prima riga del retro di copertina  e non ha visto il giacimento che c’è sotto.

Io sono una delle vittime prescelte di questo regalo. Ringrazio  e lo metto via non so dove. Ma verso Pasqua “Alpi, una grammatica d’alta quota” spunta fuori dalla carta di Natale e in qualche modo finisce sul termosifone del bagno, che per un libro significa avere una chance. E qui “Alpi, una grammatica d’alta quota” comincia con il farmi fare tardi una mattina. Poi il fenomeno si ripete e si replica anche più volte al giorno, fino a che mia moglie, dall’altra parte della porta mi chiede se mi sono tornati i 13 anni. Invece è proprio il libro, che viene presto promosso dal cesso al comodino del letto e poi a lettura per le vacanze. Allora parliamone.

Trattandosi di saggistica e non di narrativa conoscere l’autore è importante. Diversamente sarebbe impossibile ascoltare uno che parla per 280 pagine senza sapere chi è.

Il nostro si chiama Paolo Paci ed è un giornalista. Per capirci subito, Feltri, Belpietro e Liguori non lo assumebbero mai, perché Paci gioca. Gioca con le parole, con le situazioni, con i personaggi. Ha la forza che gli deriva da una concentrazione ammirevole sui fatti, una penna facile e un distacco dalle convenzioni tale da permettersi di non prendere niente sul serio, nemmeno il Presidente del Consiglio. Un mezzo pazzo? No, uno scrittore in gamba, che ha individuato il modo migliore, se non l’unico per affrontare argomenti ad alto peso atomico, come l’estinzione delle lingue, la trasformazione dei dialetti e la perdita delle nazionalità, il tutto senza disperdere i lettori come manifestanti poco convinti alla prima carica della polizia.

Diffondere cultura, gestire informazioni rare e preziose come cristalleria, riportare citazioni perse come l’epitaffio che Montanelli scrisse alla morte di Buzzati, ripagano di qualunque sforzo di lettura. Ma sforzo non c’è perché se i contenuti sono compatti come gneiss, la forma è quella slanciata del Cervino.

La marcia inizia dal Friuli e si muove verso sinistra, una grammatica araba tra centinaia di tappe e mille incontri. La gente ama farsi intervistare e Paci è davvero bravo nel prendere il meglio da ognuno dei suoi testimoni e nel riportarlo, chissà quanto fedelmente, condensando ore di colloqui alcolici in paragrafi di poche decine di righe. Si attraversano le contraddizioni del Veneto, le valli del Trentino e dell’Alto Adige. La lombardia e il Piemonte sono saltati a pié pari e lo capisco. Se Paci avesse aspettato di arrivare alle Marittime il libro non sarebbe mai uscito. E così si finisce in Val d’Aosta dove gli affari si fanno in milanese. E tosto si arriva alla quarta di copertina territorio del prezzo. Il mio è stato rimosso, ma su internet ho visto che il volume costa 13 euro. Il consiglio è di comprarlo al volo prima che si esaurisca e tenerselo ben stretto, senza regalarlo a nessuno.

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