sabato 4 agosto 2007

il diavolo veste Prada

Quando in un film c’è Meryl Streep, la storia corre veloce, la trama ti prende, il ritmo è incalzante, i dialoghi sono serrati, le scene ben costruite, gli spettatori in sala si comportano con una certa civiltà, e nonostante tutto questo il film non ti piace, con chi te la prendi?

A. con David Frankel, il regista

B. con Aline Brosh Mckenna, la sceneggiatrice

C. con Lauren Weisbergen, l’autrice del libro da cui è tratto il film.

Chissà qual è la risposta giusta. Forse tutte e tre. Vediamo il problema, così se andate a vedere il film vi sarà più facile rimanerci male. Il problema è il finale. A dire il vero neanche la prima parte fa venir voglia di scambiare un segno di pace con il vicino di poltrona, soprattutto per la scelta dei personaggi di contorno, che sono presi tali e quali dai saldi di qualche telefilm che si girava negli studios accanto, e buttati sul set del nostro film per fare la parte di amici, amanti o fidanzati, con in bocca le stesse battute che avevano già imparato a memoria, così si risparmia tempo.

Ma il vero problema arriva all’89° quando, giunti al cosiddetto “climax”, la protagonista, Anne Hataway si trova di fronte ad un bivio: a sinistra va verso un finale amaro ma credibile, a destra fila a incrementare la cellulite immersa nel morale, americanissimo miele di acacia. Cosa fa? Naturalmente fa la scelta giusta. Ma è proprio questo che in un film intitolato “Il diavolo veste Prada” sembra diabolicamente sbagliato.

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