sabato 4 agosto 2007

Le anime morte

Non possiedo gli strumenti culturali per parlare di Gogol e del suo “le anime morte”, scritto nel 1835 e riproposto non molto tempo fa nella biblioteca di Repubblica, quindi parlerò di Tarzan. In questo periodo infatti sto ripassando l’intera collana (7 volumi) alla ricerca di ricordi, dopo circa trent’anni dalla prima lettura. Ma in luogo di malinconiche sensazioni perdute ho trovato una sorpresa gradevole quanto una macchia nelle lenzuola dell’albergo: Tarzan, oggi, è illeggibile. Improponibile, scontato in ogni aggettivo, assolutamente prevedibile in ogni situazione, banale in ogni scena, grottesco e ridicolo nello sviluppo della trama. Regalate Tarzan a qualche nipote, così, per essere originali, e vi troverete coperti di vomito come la mamma degli spot della RAI. E vi starebbe bene, perché oggi i libri di Edgar Rice Burroughs sono ridotti a dei vecchi che puzzano di orina e cercano di toccarvi il sedere. Se avete stima in Tarzan guardatevi i film e tenetevi lontani dai libri. E pensare che Burroughs ha 66.900 ricorrenze su Google ed è noto a milioni di persone, Tarzan forse a miliardi.

Pavel Ivanovic Cicikov, invece, lo conoscono in pochi. Io non ne avevo mai sentito parlare prima di leggere “Le anime morte”. Per dirla tutta sulla mia preparazione, non sapevo nemmeno che Gogol avesse scritto qualcosa oltre a quel “cappotto” che mi procurò qualche dispiacere a scuola. Invece “Le anime morte”, edito 90 anni prima che Tarzan nascesse, è un’opera fondamentale, imperdibile. È scritto (e tradotto) in modo tale che qualunque autore al suo cospetto temerebbe il confronto. Ma è soprattutto un libro attuale, nel quale ognuno può trovare, tra gli straordinari personaggi che lo popolano, le persone che conosce e che frequenta ogni giorno. Divorando le pagine ci si chiede se Gogol intuiva già quali sarebbero stati i pensieri e i comportamenti dell’uomo del 2000 o se, più semplicemente, in 200 anni non sia cambiato nulla. Credo che sia giusta la seconda. Il merito di Gogol, infatti, è quello di estrarre l’anima dai suoi contemporanei per farla asciugare sulle righe del suo quaderno, come si fa con i funghi porcini: quando li rimetti in acqua ritornano freschi. Mi permetto allora un ragionamento. Credo che non capiti solo a me, ma sia abbastanza normale sentirsi intellettualmente superiori alle generazioni che ci hanno preceduto; vuoi perché noi abbiamo la televisione e loro no, vuoi perché gli assenti hanno sempre torto. I personaggi di Gogol, però, arrivano dritti dall’800 e portano prove inconfutabili del contrario: rubiamo, amiamo, mentiamo, torturiamo e ci comportiamo nello stesso modo oggi come 200 o 500 anni fa. L’unica differenza, se proprio vogliamo trovarne una, consiste in qualche sfumatura. Se ci fotografassero in gruppo, noi contemporanei, sempre circondati di effimero e occupati a costruirci e difendere la nostra immagine, probabilmente risulteremmo un po’ sbiaditi.

 

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