C’è questa storia per cui quando stai per morire vedi te stesso dall’alto. La chiamano esperienza extracorporea. Ecco, l’altra sera mi è successa una cosa simile al cinema di Valperga. Guardavo “E alla fine arriva Polly” e siccome la trama non è travolgente, non potevo fare a meno di pensare a che cosa avrei potuto scriverne. L’inizio è pesante, con Ben Stiller che parte sgommando su un’auto scoperta, ma va indietro invece che avanti e finisce in mare; una trovata che Stan Laurel e Oliver Hardy escogitarono nel 1931 e dismisero già nel 1935. Invece gran risata in sala e io col broncio a fare l’autopsia del film in tempo reale. All’ingresso, in effetti, non mi era sfuggita l’entrata di stormi di ragazzini cresciuti senza Stanlio e Ollio.
Ma poche scene più tardi, ecco che l’inquietante fenomeno si manifesta. Mi volto a sinistra e nella poltroncina accanto vedo me stesso, che traballo e rido come un matto. Le scene comiche si accavallano, una più scontata dell’altra e io da una parte prendo le distanze dal film, dall’altra mi scompongo in convulsioni con risate magnitudo 5,5. Annoto ancora che Ben Stiller non ha messo su una ruga (e io tante) da quando ha fatto “Tutti pazzi per Mary”, e che Jennifer Aniston è proprio gnocca, ma l’alterego disturba troppo, sguaiato com’è, e devo smettere.
Ma non fa niente, perché nel frattempo ho capito che il taccuino mentale con “E alla fine arriva Polly” non serve. Dunque lo abbandono e mi ricongiungo con l’altro me stesso, consapevole che questa volta ha ragione lui: non c’è niente da dire o da scrivere su questo film se non che fa morire dal ridere.
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