Per affrontare “Pastorale Americana”, di Philip Roth, forse conviene mettersi nell’ottica dell’alpinista che parte per una salita. Inizi con l’entusiasmo della bella giornata e della tua meta, lassù, aguzza e innevata, ma appena il sentiero comincia a salire, tu cominci a sudare. E come! Fatichi fra tre generazioni e almeno cento personaggi, raccontati uno per uno come se fossero i protagonisti della storia (credo che in questo, Pastorale Americana sia un ottimo allenamento per chi desidera cimentarsi con l’himalayano Guerra e Pace). E così leggi, leggi, leggi, e ogni tanto controlli sull’altimetro se sei arrivato almeno ad un terzo dello spessore del libro. Macché! La tentazione di prendere qualche scorciatoia è forte e, in effetti, se anche si saltasse qualche riga o qualche pagina, non succederebbe niente. Ma alla fine non lo fai, perché se anche è vero che la narrazione talvolta rasenta i precipizi della noia, in effetti la guida di Philip Roth è sicura e non ti perdi mai.
La trama è forte, e la promessa di soluzione che ti aspetti di trovare sulla vetta è sufficiente per spingerti sempre più in alto: vuoi sapere se Roth ha per caso scoperto perché capita che tua figlia ti odia e se, gentilmente, te lo spiega. Quando riponi il libro, tra le altre copertine pastello della collana di Repubblica, ti guardi indietro e scopri di aver impiegato settimane, forse un mese. Ne valeva la pena? Certo che no. Ma ormai l’hai fatto e con l’ottusa testardaggine propria dell’alpinista, ne sei orgoglioso.
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