sabato 4 agosto 2007

La morte sospesa

A Joe Simpson bisognerebbe sparare con un fucile calibro 12. Poi occorrerebbe cremare il corpo, quindi versare le ceneri in un vaso pieno di Viacal e riporle nello sterilizzatore a raggi U.V. del dentista. Ma anche così non avreste la certezza che l’alpinista Simpson sia effettivamente morto, perché il trattamento descritto è risibile rispetto all’avventura dalla quale è tornato nel 1985 e che ha prima raccontato nel suo libro “La morte sospesa”, Vivalda, I licheni, 1993 e poi sceneggiato e interpretato nel film omonimo uscito recentemente.

Il libro è da leggere? Sì, senza aspettare un minuto. Il film è da vedere? Sì, e se aspettate ancora un po’ non lo troverete più.

È un film di montagna, ma potrete apprezzarlo anche se le montagne vi fanno senso, perché è anche un film sulla vita dopo la morte. Infatti Simpson muore più di una volta nel corso della discesa dalla cima del Siula Grande, un seimila dell’America del sud e ha la sfiga di reincarnarsi ogni volta in se stesso, ferito, assiderato, disidratato, decomposto.

La tecnica del regista Kevin Macdonald prevede inserti con i reali protagonisti intervistati in studio. Una scelta narrativa che all’inizio spaventa un po’, perché pensi di aver beccato un documentario, ma poi si rivela sopportabile. Anzi, vedere il volto del Simpson di oggi, vivo e dotato di occhi, naso, orecchie e capacità di parlare, crea un interessante contrasto con il Simpson distrutto sulle Ande.

“La morte sospesa” è anche un film sul rapporto che lega due compagni di cordata, un rapporto che è fatto di atteggiamenti e sentimenti fuori moda come fiducia, amicizia, silenzi. È anche uno straordinario film fotografico, con riprese aeree che provocano vuoti di stomaco e endoscopie del fondo di crepacci che ti iniettano angoscia pura nelle vene. Un film che non ti strappa un sorriso che sia uno, ma che ti riempie lo zaino di emozioni e ti consente di ricominciare a respirare solo alla fine. “La morte sospesa” è uscito da poco, ma è già relegato nei cineforum. Una discriminazione verso il cinema di montagna? Certo che no. Se la montagna riempisse le casse dei cinema vedremmo solo cime e valli sullo schermo. Il problema della montagna è che al massimo riempie l’anima, che è un contenitore molto meno importante.

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