Ho scritto, cancellato e riscritto l’incipit di questa recensione innumerevoli volte, tanto da provocare un errore nell’applicazione, e adesso Windows mi chiede se desidero inoltrare la segnalazione a Microsoft. È un modo come un altro per suggerirmi di lasciar perdere. Il problema è che non ho trovato come commentare “La sposa liberata” in terza persona, come se fossi un osservatore neutrale. Ma come si fa ad essere terzi rispetto ad un libro che ti prende e non ti molla più? Te lo ritrovi ogni sera sul comodino, si infila nella borsa computer nonostante non sia un tascabile, si intrufola in valigia se ti prendi una settimana di vacanza e ti aspetta persino sotto i giornali se stai dando il bianco.
Non è un thriller, non ci sono morti ammazzati, in talune pagine è persino un po’ noioso, eppure mi sembra il miglior libro che abbia mai aperto, assaporato e digerito. Forse perché mi immedesimo con un’intensità totale, che di più non si può.
Io non ho un figlio divorziato che non mi vuole dire il perché di una separazione che appare inspiegabile, come capita a Yohanan Rivlin, il protagonista del libro, ma anch’io, come lui, ho un figlio che, pur essendo appena tredicenne, per alcuni aspetti mi ha già tagliato fuori dalla sua vita. Sarà forse questo, sarà che Rivlin è un uomo pieno di curiosità, sarà che Abraham Yehoshua, l’autore di questo e di altri romanzi come “Il responsabile delle risorse umane” riesce a costruire un intreccio di vite, religioni, civiltà e culture, tale da rendere importante ognuna delle 592 pagine. Sarà merito di una scrittura apparentemente semplice e invece straordinariamente ricca. Sarà merito anche della traduttrice Alessandra Shomroni, ma “La sposa liberata”, a dispetto del titolo, ti cattura e ti tiene tra le strade di Israele e i vicoli di Gerusalemme, prigioniero di un’atmosfera unica. Persino alla fine, quando ti ritrovi a rileggere il retro di copertina per vedere se hai dimenticato qualcosa, ti ritrovi ancora dentro il libro, triste perché lo hai letto, disperato perché è finito.
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