Se nel 1955 fosse nata Rete 4 invece della RAI, oggi saremmo tutti come i giapponesi della seconda guerra mondiale: fanatici nella fede per l'imperatore (sapete a chi mi riferisco), privati del contatto con la realtà, pronti a suicidarci se perdessimo l'onore.
Per fortuna, invece, è nata la RAI e oggi siamo tutti fanatici nella fede per il calcio, privati del contatto con la realtà, questo sì, ma pronti a perdere la dignità, oltre all'onore, pur di apparire qualche minuto in TV.
Siamo quindi il pubblico meno indicato per immedesimarci nei soldati di Clint Eastwood, che difendono fino all'ultima goccia di sangue l'isola di Iwo Jima dagli americani che vengono a prendersela.
La prova della nostra inadeguatezza come spettatori è lampante e dice tutto: riusciamo a identificarci soltanto nel soldatino che cerca di disertare per portare a casa la pelle. Ci riesce invece difficile partecipare alle angosce del generale comandante e non ci viene tanta voglia né di combattere né di seguirlo nelle gallerie scavate nella montagna. I dialoghi in lingua originale giapponese non ci aiutano, ma Eastwood non aveva scelta. Ve lo immaginate un soldato giapponese che poco prima di farsi saltare in aria prova a venderti un telefonino 3 con la voce di Claudio Amendola?
Parliamo degli attori. No, non parliamone perché non sappiamo bene chi siano. Chi sa distinguere le fattezze di Ryo Kase da quella di Shido Nakamura? Siamo dunque costretti a parlare ancora del regista, per ringraziarlo di averci dato, dopo "Mystic river" e "Million Dollar Baby", una nuova prova di come si fa il cinema. Se il suo film ci è piaciuto, ma non ci ha del tutto conquistati, non se la prenda, non è colpa sua. Siamo noi che siamo fatti così.
sabato 4 agosto 2007
Casino royale
“Anche se ti fossero rimasti solo gli occhi, il sorriso e il tuo dito mignolo, saresti più uomo di tutti gli uomini…" dice Vesper Lynd a 007. Vesper è la Bond girl di Casino Royale ed è interpretata da Eva Green. Ora, non so se avete presente chi è Eva Green. Eva Gaelle Green, Parigi 1980, è l’interprete femminile di “the dreamer” film del 2002 di Bernardo Bertolucci. A questo punto tutti i maschi che conosco e che hanno visto “the dreamer” stanno certamente ricordando le situazioni in cui hanno pensato a Eva Green, a come hanno onorato la sua immagine, dove, quante volte e se dopo si sono sentiti in colpa oppure no.
Gioite amici, perché Eva Green è tornata a far compagnia ai nostri sogni. Non a seno nudo come Bertolucci l’ha fatta, ma se possibile è ancora più bella. Quei 5 anni di più la torniscono ancora e da leggermente irresistibile quale ella era, diventa oggi totalmente devastante. Per dirla con la Nannini, qui c’è di nuovo da sentire l’America.
“Anche se ti fossero rimasti solo gli occhi, il sorriso e il tuo dito mignolo, saresti più uomo di tutti gli uomini…" dice dunque Vesper a James Bond in convalescenza dopo aver preso un sacco di botte. E 007 Daniel Craig cosa risponde? "Lo dici perché sai cosa posso fare con il dito mignolo".
Grande! Grande ed esplosiva come può essere una battutaccia greve e disgustosa se detta al momento giusto. Geniale come solo 007 e uno sceneggiatore in gamba possono pensare, piena zeppa di sano orgoglio come solo un maschio, sempre meno protagonista e sempre più in discussione può osare.
Gioite amici, perché Eva Green è tornata a far compagnia ai nostri sogni. Non a seno nudo come Bertolucci l’ha fatta, ma se possibile è ancora più bella. Quei 5 anni di più la torniscono ancora e da leggermente irresistibile quale ella era, diventa oggi totalmente devastante. Per dirla con la Nannini, qui c’è di nuovo da sentire l’America.
“Anche se ti fossero rimasti solo gli occhi, il sorriso e il tuo dito mignolo, saresti più uomo di tutti gli uomini…" dice dunque Vesper a James Bond in convalescenza dopo aver preso un sacco di botte. E 007 Daniel Craig cosa risponde? "Lo dici perché sai cosa posso fare con il dito mignolo".
Grande! Grande ed esplosiva come può essere una battutaccia greve e disgustosa se detta al momento giusto. Geniale come solo 007 e uno sceneggiatore in gamba possono pensare, piena zeppa di sano orgoglio come solo un maschio, sempre meno protagonista e sempre più in discussione può osare.
Deja vu
Se la finanziaria l’avesse scritta Terry Rossio sarei più tranquillo. Non perché Rossio sia un economista migliore di Padoa Schioppa, ma perché è uno sceneggiatore che non fa pasticci, non risponde alle telefonate di Mastella e lavora concentrato senza compromessi, senza imperfezioni, senza marce indietro. Lui i Suv non minaccia di tassarli per poi detassarli, li fa saltare in aria con la dinamite. Fa di più: riesce a farti accettare come realtà tecnologica il viaggio nel tempo, con la stessa credibilità di chi, vent’anni fa, profetizzava che in teoria, in un domani, ci sarebbe stato un congegno che sulla tua auto ti dice: volta di qua, volta di là.
Per gli stessi motivi, per la serietà di non aver concesso l’indulto a nessuno dei suoi attori, metterei Tony Scott al posto di Romano Prodi, perché se la bomba non esplode il merito è anche del regista. Il film parla di un attentato, ma il film stesso, per come è concepito, per la trama su cui si regge, è una grossa bomba innescata che può esplodere al minimo tentennamento: un’espressione sbagliata, un’inquadratura di troppo, una spiegazione non richiesta, una coincidenza inverosimile, un effetto non coerente con la sua causa. E così, tu, spettatore alleggerito dalle tasse e appesantito dal pranzo di Natale, corri due corse: la prima al fianco di Denzel Washington, insieme al quale cerchi di fermare il terrorista, la seconda contro il tempo: speri che il film finisca, e finisca bene, senza che esploda la bomba della delusione.
Alla fine i pezzi arrivano a casa e si incastrano nel rompicapo senza bisogno di martello, perché il lavoro di preparazione è stato perfetto. Assisti al raro evento in cui un thriller , proprio per la qualità assoluta dell’idea e della sua realizzazione diventa un film di categoria superiore, come “Il sesto senso” o “The Others”. L’opposizione potrebbe dire che non c’è una morale in questo film. Vero, ma non c’è neanche nella finanziaria, e soprattutto non ve n’è traccia nemmeno in “Natale a New York”, “Olè” o “Commedia Sex”i. Ma tra Dejà Vu e quelli c’è un abisso di qualità, di idee, di serietà e professionalità. Non ci credete? E allora io ci metto la fiducia.
Per gli stessi motivi, per la serietà di non aver concesso l’indulto a nessuno dei suoi attori, metterei Tony Scott al posto di Romano Prodi, perché se la bomba non esplode il merito è anche del regista. Il film parla di un attentato, ma il film stesso, per come è concepito, per la trama su cui si regge, è una grossa bomba innescata che può esplodere al minimo tentennamento: un’espressione sbagliata, un’inquadratura di troppo, una spiegazione non richiesta, una coincidenza inverosimile, un effetto non coerente con la sua causa. E così, tu, spettatore alleggerito dalle tasse e appesantito dal pranzo di Natale, corri due corse: la prima al fianco di Denzel Washington, insieme al quale cerchi di fermare il terrorista, la seconda contro il tempo: speri che il film finisca, e finisca bene, senza che esploda la bomba della delusione.
Alla fine i pezzi arrivano a casa e si incastrano nel rompicapo senza bisogno di martello, perché il lavoro di preparazione è stato perfetto. Assisti al raro evento in cui un thriller , proprio per la qualità assoluta dell’idea e della sua realizzazione diventa un film di categoria superiore, come “Il sesto senso” o “The Others”. L’opposizione potrebbe dire che non c’è una morale in questo film. Vero, ma non c’è neanche nella finanziaria, e soprattutto non ve n’è traccia nemmeno in “Natale a New York”, “Olè” o “Commedia Sex”i. Ma tra Dejà Vu e quelli c’è un abisso di qualità, di idee, di serietà e professionalità. Non ci credete? E allora io ci metto la fiducia.
Thank you for smoking
Un film che parla della lobby del tabacco e denuncia le manovre messe in atto da industria e politica per controllare il mercato e le scelte dei consumatori ha due possibilità per funzionare:
O punta a farti incazzare come Report, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, che ogni settimana ti fa vergognare persino di essere andato a votare.
Oppure sceglie di comunicare in un modo più sottile e indiretto, utilizzando la comicità, come fanno molti, a partire da Beppe Grillo.
"Thank you for smoking" sceglie decisamente la prima via e già a metà film sei incazzato per aver buttato via 6 euro (4 se abiti in provincia dove il film arriva dopo mesi in versione cineforum).
Ci sono due momenti, in particolare, che ti fanno venir voglia di uscire per accendere una sigaretta e le tende del cinema.
Il primo dura per tutto il film ed è la faccia del protagonista Aaron Eckhart. Non ti identificheresti in lui nemmeno se prendessi una tisana fatta con le sue cellule staminali. Non perché nel film deve interpretare un personaggio privo di qualsiasi scrupolo morale, ma perché non ci riesce. Ha la stessa espressività di Bondi e la credibilità di Schifani e, soprattutto, sembra che non creda in quello che legge sul copione. Probabilmente ha ragione, perché il film è scritto troppo male. Il che ci porta al secondo momento cult, nel quale Aaron non ha responsabilità. Questa va divisa in parti uguali tra il regista Jason Reitman e lo sceneggiatore Jason Reitman (questo spiega molte cose). In questa scena lavora il figlio del protagonista. Il giovane attore si chiama Cameron Bright, l'unico dodicenne che non ha più nulla da chiedere alla vita, dopo essere stato nella stessa vasca da bagno con Nicole Kidman in "Birth".
Il giovane, salendo in auto, dice una battuta che non dovrebbe. Non perché sia peggiore delle altre, ma perché tu, spettatore, ti sei accorto che il regista la sta preparando già da dieci minuti. Fino a un certo punto sospetti solamente che forse il ragazzo dirà quelle parole. Poi pensi "no, non lo farà" e la mente, che è sempre pronta a negare il peggio, cancella la paura. Così, quando la battuta esce fuori davvero, l'effetto è devastante. Da qual momento il film ti cola tra le mani come un cono al cioccolato e la speranza di poter vedere in Canavese qualcosa di meglio di "Vacanze di Natale" se ne va definitivamente in fumo.
O punta a farti incazzare come Report, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, che ogni settimana ti fa vergognare persino di essere andato a votare.
Oppure sceglie di comunicare in un modo più sottile e indiretto, utilizzando la comicità, come fanno molti, a partire da Beppe Grillo.
"Thank you for smoking" sceglie decisamente la prima via e già a metà film sei incazzato per aver buttato via 6 euro (4 se abiti in provincia dove il film arriva dopo mesi in versione cineforum).
Ci sono due momenti, in particolare, che ti fanno venir voglia di uscire per accendere una sigaretta e le tende del cinema.
Il primo dura per tutto il film ed è la faccia del protagonista Aaron Eckhart. Non ti identificheresti in lui nemmeno se prendessi una tisana fatta con le sue cellule staminali. Non perché nel film deve interpretare un personaggio privo di qualsiasi scrupolo morale, ma perché non ci riesce. Ha la stessa espressività di Bondi e la credibilità di Schifani e, soprattutto, sembra che non creda in quello che legge sul copione. Probabilmente ha ragione, perché il film è scritto troppo male. Il che ci porta al secondo momento cult, nel quale Aaron non ha responsabilità. Questa va divisa in parti uguali tra il regista Jason Reitman e lo sceneggiatore Jason Reitman (questo spiega molte cose). In questa scena lavora il figlio del protagonista. Il giovane attore si chiama Cameron Bright, l'unico dodicenne che non ha più nulla da chiedere alla vita, dopo essere stato nella stessa vasca da bagno con Nicole Kidman in "Birth".
Il giovane, salendo in auto, dice una battuta che non dovrebbe. Non perché sia peggiore delle altre, ma perché tu, spettatore, ti sei accorto che il regista la sta preparando già da dieci minuti. Fino a un certo punto sospetti solamente che forse il ragazzo dirà quelle parole. Poi pensi "no, non lo farà" e la mente, che è sempre pronta a negare il peggio, cancella la paura. Così, quando la battuta esce fuori davvero, l'effetto è devastante. Da qual momento il film ti cola tra le mani come un cono al cioccolato e la speranza di poter vedere in Canavese qualcosa di meglio di "Vacanze di Natale" se ne va definitivamente in fumo.
Lo stagno di fuoco
Istruttoria
La trama è questa: dopo il giudizio universale, Dio si ritira portando via con sé le anime dei giusti, lasciando i dannati a consumarsi all’inferno. E sulla terra? Sulla terra rimangono poche decine di persone, che per un motivo o per l’altro sono ingiudicabili, guidate da 3 angeli che, evidentemente, hanno sbagliato qualcosa. Per ritornare in stato di grazia dovranno compiere una pericolosa missione attraversando tutto l’inferno, tra anime dannate, Demoni Maggiori e Minori, Sottili, fino a Satana.
Con queste premesse uno corre a comprare il libro, perché l’idea di scrivere un remake della Divina Commedia è davvero buona. Il dubbio assale quando il libro lo vedi: 770 pagine. Beh, non vuol dire: ci sono libri che vorresti non finissero mai. Purtroppo da “lo stagno di fuoco”, invece, vorresti fuggire presto, perché è lento come una tradotta e, con un ritmo che farebbe addormentare un bradipo, ti trascina piano piano nel basso inferno dove diventa sempre più confuso, difficile. Come ulteriore supplizio nei confronti del lettore trattato alla stregua di un dannato qualsiasi, l’autore, Daniele Nadir scrive utilizzando più livelli narrativi, che ti spiazzano ulteriormente. Vogliamo dirla tutta: anche questa mania di scrivere le frasi e poi metterle in discussione subito dopo con un avverbio, stanca. Se questo romanzo fosse un itinerario, si potrebbe dire che per metà è strada asfaltata, per un po’ è sentiero e per il resto sono solamente tracce nella nebbia tra le quali ci si perde dopo un passo.
La parola alla difesa:
Finalmente! Dico che un libro non si può e non si deve leggere in tre mesi. Soprattutto non si deve leggere a letto, la sera, facendoselo franare sul naso dopo appena due pagine. Ma ti vedi? Con il libro che ondeggia e cade. E guarda che pesa! Ma va a dormire che è meglio! Maltrattato così si trasformerebbe in un flacone di Lexotan persino un romanzo di Stephen King.
Accusa: Stephen King non ha fatto mai dormire nessuno.
Difesa: Stephen King non ha mai nemmeno provato a inserire un messaggio nei suoi romanzi, te ne sei accorto? Sono pura letteratura d’evasione, per di più prodotta in serie.
Accusa: E Nadir sì? Quale messaggio ci offre?
Ecco il punto.
Sentenza:può darsi che nelle 50 pagine di epilogo (circa due settimane di lettura) si nasconda un messaggio importante. Quale occasione più ghiotta per un autore, poter prendere posizione sui misteri della fede o almeno per dare un senso al suo libro. Ma c’è un senso? E se c’è qual è? Se non lo so è colpa dell’autore che non ha saputo tenermi sveglio o colpa mia che mi sono addormentato? Qualcuno ha voglia di scoprirlo? Se alla fine non trovate niente, potete sempre mandarmi al diavolo.
Risposta di Daniele Nadir
Caro orudis, mi assumo la piena responsabilità di averti tediato per tanto tempo e qui ti porgo le mie scuse. Detto questo mi è capitato di chiacchierare molti lettori e per fortuna, con alti e bassi, gran parte di loro ha avuto modo di vivere con entusiasmo tanto la trama quanto la prosa de Lo Stagno di Fuoco. I tempi di lettura sono stati decisamente variabili, da ben più di tre mesi a tre giorni (cosa di cui non mi capacito).
Francamente, non ho nessun appello da presentare al tuo primo grado.
Se per arrivare alla fine della storia hai dovuto trascinarti per oltre 700 pagine di ‘prosa da bradipo’ è facile che il filo della storia sia andato perso per strada in un crescendo di incomprensione a cui è difficile rimediare con poche righe. E, sia chiaro, ritengo sia compito di un romanzo catturare chi legge, non viceversa. Quindi: mea culpa. Riguardo al finale, sono poco propenso a scriverne in modo esplicito (ma, avendomi fornito il tuo numero di telefono, in calce alla mail, sarò lieto di fornirti direttamente un dovuto chiarimento). Qui e ora posso dirti che in questa storia, come in molte altre, non c’è una morale della favola esplicita, da dimostrare, una verità ultima da porgere ai lettori. Questo, sia chiaro, non vuol dire che un romanzo non sia sorretto e animato da emozioni forti, idee precise. E in questi termini - e al di là della mia storia - non credo che King non abbia mai avuto messaggi da dare, nei suoi romanzi.
Ma torniamo a noi.
Quello che posso fare per essere un po’ più esplicito per chi legge queste righe (e che sarà giudice e giuria, incuriosito o ritratto di fronte a Lo Stagno di Fuoco) è chiamare a deporre un lettore che probabilmente, all’Inferno, ha perso ore di sonno invece di guadagnarne: Anselmo Cioffi, su carmillaonline, (http://www.carmillaonline.com/archives/2005/09/001508.html).
Posso inoltre chiamare a deporre direttamente l’imputato (è possibile leggerne alcuni capitoli sul sito www.stagnodifuoco.com) e, in ultimo, il mandante, in un’intervista che mi hanno fatto, tempo fa, sui contenuti del romanzo (da Stilos del 7/6/05, http://www.stagnodifuoco.com/intervistilos.htm).
Spero che il commento di Anselmo Cioffi e l’intervista possano dare, in parte, una risposta alle tue domande e, con buona pace dell’accusa (ma senza l’intento di costringerla a rileggere gli atti - a letto - una seconda volta, per carità), a marzo il romanzo uscirà in economica e questa seconda edizione è stata limata e resa più esplicita, soprattutto nella parte finale.
Un caro saluto.
Daniele Nadir
La trama è questa: dopo il giudizio universale, Dio si ritira portando via con sé le anime dei giusti, lasciando i dannati a consumarsi all’inferno. E sulla terra? Sulla terra rimangono poche decine di persone, che per un motivo o per l’altro sono ingiudicabili, guidate da 3 angeli che, evidentemente, hanno sbagliato qualcosa. Per ritornare in stato di grazia dovranno compiere una pericolosa missione attraversando tutto l’inferno, tra anime dannate, Demoni Maggiori e Minori, Sottili, fino a Satana.
Con queste premesse uno corre a comprare il libro, perché l’idea di scrivere un remake della Divina Commedia è davvero buona. Il dubbio assale quando il libro lo vedi: 770 pagine. Beh, non vuol dire: ci sono libri che vorresti non finissero mai. Purtroppo da “lo stagno di fuoco”, invece, vorresti fuggire presto, perché è lento come una tradotta e, con un ritmo che farebbe addormentare un bradipo, ti trascina piano piano nel basso inferno dove diventa sempre più confuso, difficile. Come ulteriore supplizio nei confronti del lettore trattato alla stregua di un dannato qualsiasi, l’autore, Daniele Nadir scrive utilizzando più livelli narrativi, che ti spiazzano ulteriormente. Vogliamo dirla tutta: anche questa mania di scrivere le frasi e poi metterle in discussione subito dopo con un avverbio, stanca. Se questo romanzo fosse un itinerario, si potrebbe dire che per metà è strada asfaltata, per un po’ è sentiero e per il resto sono solamente tracce nella nebbia tra le quali ci si perde dopo un passo.
La parola alla difesa:
Finalmente! Dico che un libro non si può e non si deve leggere in tre mesi. Soprattutto non si deve leggere a letto, la sera, facendoselo franare sul naso dopo appena due pagine. Ma ti vedi? Con il libro che ondeggia e cade. E guarda che pesa! Ma va a dormire che è meglio! Maltrattato così si trasformerebbe in un flacone di Lexotan persino un romanzo di Stephen King.
Accusa: Stephen King non ha fatto mai dormire nessuno.
Difesa: Stephen King non ha mai nemmeno provato a inserire un messaggio nei suoi romanzi, te ne sei accorto? Sono pura letteratura d’evasione, per di più prodotta in serie.
Accusa: E Nadir sì? Quale messaggio ci offre?
Ecco il punto.
Sentenza:può darsi che nelle 50 pagine di epilogo (circa due settimane di lettura) si nasconda un messaggio importante. Quale occasione più ghiotta per un autore, poter prendere posizione sui misteri della fede o almeno per dare un senso al suo libro. Ma c’è un senso? E se c’è qual è? Se non lo so è colpa dell’autore che non ha saputo tenermi sveglio o colpa mia che mi sono addormentato? Qualcuno ha voglia di scoprirlo? Se alla fine non trovate niente, potete sempre mandarmi al diavolo.
Risposta di Daniele Nadir
Caro orudis, mi assumo la piena responsabilità di averti tediato per tanto tempo e qui ti porgo le mie scuse. Detto questo mi è capitato di chiacchierare molti lettori e per fortuna, con alti e bassi, gran parte di loro ha avuto modo di vivere con entusiasmo tanto la trama quanto la prosa de Lo Stagno di Fuoco. I tempi di lettura sono stati decisamente variabili, da ben più di tre mesi a tre giorni (cosa di cui non mi capacito).
Francamente, non ho nessun appello da presentare al tuo primo grado.
Se per arrivare alla fine della storia hai dovuto trascinarti per oltre 700 pagine di ‘prosa da bradipo’ è facile che il filo della storia sia andato perso per strada in un crescendo di incomprensione a cui è difficile rimediare con poche righe. E, sia chiaro, ritengo sia compito di un romanzo catturare chi legge, non viceversa. Quindi: mea culpa. Riguardo al finale, sono poco propenso a scriverne in modo esplicito (ma, avendomi fornito il tuo numero di telefono, in calce alla mail, sarò lieto di fornirti direttamente un dovuto chiarimento). Qui e ora posso dirti che in questa storia, come in molte altre, non c’è una morale della favola esplicita, da dimostrare, una verità ultima da porgere ai lettori. Questo, sia chiaro, non vuol dire che un romanzo non sia sorretto e animato da emozioni forti, idee precise. E in questi termini - e al di là della mia storia - non credo che King non abbia mai avuto messaggi da dare, nei suoi romanzi.
Ma torniamo a noi.
Quello che posso fare per essere un po’ più esplicito per chi legge queste righe (e che sarà giudice e giuria, incuriosito o ritratto di fronte a Lo Stagno di Fuoco) è chiamare a deporre un lettore che probabilmente, all’Inferno, ha perso ore di sonno invece di guadagnarne: Anselmo Cioffi, su carmillaonline, (http://www.carmillaonline.com/archives/2005/09/001508.html).
Posso inoltre chiamare a deporre direttamente l’imputato (è possibile leggerne alcuni capitoli sul sito www.stagnodifuoco.com) e, in ultimo, il mandante, in un’intervista che mi hanno fatto, tempo fa, sui contenuti del romanzo (da Stilos del 7/6/05, http://www.stagnodifuoco.com/intervistilos.htm).
Spero che il commento di Anselmo Cioffi e l’intervista possano dare, in parte, una risposta alle tue domande e, con buona pace dell’accusa (ma senza l’intento di costringerla a rileggere gli atti - a letto - una seconda volta, per carità), a marzo il romanzo uscirà in economica e questa seconda edizione è stata limata e resa più esplicita, soprattutto nella parte finale.
Un caro saluto.
Daniele Nadir
il diavolo veste Prada
Quando in un film c’è Meryl Streep, la storia corre veloce, la trama ti prende, il ritmo è incalzante, i dialoghi sono serrati, le scene ben costruite, gli spettatori in sala si comportano con una certa civiltà, e nonostante tutto questo il film non ti piace, con chi te la prendi?
A. con David Frankel, il regista
B. con Aline Brosh Mckenna, la sceneggiatrice
C. con Lauren Weisbergen, l’autrice del libro da cui è tratto il film.
Chissà qual è la risposta giusta. Forse tutte e tre. Vediamo il problema, così se andate a vedere il film vi sarà più facile rimanerci male. Il problema è il finale. A dire il vero neanche la prima parte fa venir voglia di scambiare un segno di pace con il vicino di poltrona, soprattutto per la scelta dei personaggi di contorno, che sono presi tali e quali dai saldi di qualche telefilm che si girava negli studios accanto, e buttati sul set del nostro film per fare la parte di amici, amanti o fidanzati, con in bocca le stesse battute che avevano già imparato a memoria, così si risparmia tempo.
Ma il vero problema arriva all’89° quando, giunti al cosiddetto “climax”, la protagonista, Anne Hataway si trova di fronte ad un bivio: a sinistra va verso un finale amaro ma credibile, a destra fila a incrementare la cellulite immersa nel morale, americanissimo miele di acacia. Cosa fa? Naturalmente fa la scelta giusta. Ma è proprio questo che in un film intitolato “Il diavolo veste Prada” sembra diabolicamente sbagliato.
A. con David Frankel, il regista
B. con Aline Brosh Mckenna, la sceneggiatrice
C. con Lauren Weisbergen, l’autrice del libro da cui è tratto il film.
Chissà qual è la risposta giusta. Forse tutte e tre. Vediamo il problema, così se andate a vedere il film vi sarà più facile rimanerci male. Il problema è il finale. A dire il vero neanche la prima parte fa venir voglia di scambiare un segno di pace con il vicino di poltrona, soprattutto per la scelta dei personaggi di contorno, che sono presi tali e quali dai saldi di qualche telefilm che si girava negli studios accanto, e buttati sul set del nostro film per fare la parte di amici, amanti o fidanzati, con in bocca le stesse battute che avevano già imparato a memoria, così si risparmia tempo.
Ma il vero problema arriva all’89° quando, giunti al cosiddetto “climax”, la protagonista, Anne Hataway si trova di fronte ad un bivio: a sinistra va verso un finale amaro ma credibile, a destra fila a incrementare la cellulite immersa nel morale, americanissimo miele di acacia. Cosa fa? Naturalmente fa la scelta giusta. Ma è proprio questo che in un film intitolato “Il diavolo veste Prada” sembra diabolicamente sbagliato.
Profumo, storia di un assassino
Avevo letto il libro diversi anni fa e ricordo che all'ultima pagina mi ero domandato: "e allora?" Il quesito rimane senza risposta anche dopo 147 minuti di film. Quindi non è il film e non è nemmeno il libro: è proprio la storia di Jean Baptiste Grenouille che è troppo chiusa in se stessa per offrire qualcosa da esportare.
Nonostante il film sia molto ben confezionato, è davvero difficile trovare un motivo per consigliarvi di vederlo. I pubblicitari non troveranno nessuno spunto da citare nei loro spot e il catalogo di emozioni che offre agli spettatori è davvero troppo strano per essere interessante.
Il protagonista (Grenouille) è interpretato dal giovane Ben Whishaw. È molto convincente nell'interpretare l'uomo senza coscienza. Forse fin troppo abile nel mostrare una totale indifferenza per la vita. Impossibile identificarsi in lui. Non c'è niente di male ad ammazzare un sacco di persone se ciò ti serve, ma farlo senza passione, senza odio, senza ironia non è concepibile. Per questo Grenouille potrebbe risultare simpatico giusto al muratore di Parma Mario Alessi.
Non puoi identificarti nelle vittime perché stanno sullo schermo pochi secondi ciascuna. Non puoi identificarti in Dustin Hoffman, perché sparisce ben prima della metà del film, non nel padre dell'ultima vittima perché ha le guanciotte lunghe di Severus Piton, il professore di Harry Potter. Ma se non puoi identificarti in nessuno, che film è?
Bisogna essere abbastanza marci dentro per pensare di scrivere una storia come questa e avere dei problemi psicologici non risolti per metterla su pellicola. Tom Tykwer lo ha fatto. Regista tedesco, è il papà di (copio da internet) "Paris Je t'aime", "Heaven" "Lola corre", "La principessa e il guerriero".
Li avete visti? Neanche uno? Nemmeno un trailer? Ecco spiegate molte cose.
Se investirete i vostri 6 o 7 euro in un altro film non sbaglierete. Ma non sbaglierete nemmeno se li spenderete per Profumo, a patto che siate pronti, e accettiate, che la sua essenza non riuscirà a entrarvi dentro e, proprio per questo, il suo ricordo evaporerà già sulle scale del cinema, come profumo.
Nonostante il film sia molto ben confezionato, è davvero difficile trovare un motivo per consigliarvi di vederlo. I pubblicitari non troveranno nessuno spunto da citare nei loro spot e il catalogo di emozioni che offre agli spettatori è davvero troppo strano per essere interessante.
Il protagonista (Grenouille) è interpretato dal giovane Ben Whishaw. È molto convincente nell'interpretare l'uomo senza coscienza. Forse fin troppo abile nel mostrare una totale indifferenza per la vita. Impossibile identificarsi in lui. Non c'è niente di male ad ammazzare un sacco di persone se ciò ti serve, ma farlo senza passione, senza odio, senza ironia non è concepibile. Per questo Grenouille potrebbe risultare simpatico giusto al muratore di Parma Mario Alessi.
Non puoi identificarti nelle vittime perché stanno sullo schermo pochi secondi ciascuna. Non puoi identificarti in Dustin Hoffman, perché sparisce ben prima della metà del film, non nel padre dell'ultima vittima perché ha le guanciotte lunghe di Severus Piton, il professore di Harry Potter. Ma se non puoi identificarti in nessuno, che film è?
Bisogna essere abbastanza marci dentro per pensare di scrivere una storia come questa e avere dei problemi psicologici non risolti per metterla su pellicola. Tom Tykwer lo ha fatto. Regista tedesco, è il papà di (copio da internet) "Paris Je t'aime", "Heaven" "Lola corre", "La principessa e il guerriero".
Li avete visti? Neanche uno? Nemmeno un trailer? Ecco spiegate molte cose.
Se investirete i vostri 6 o 7 euro in un altro film non sbaglierete. Ma non sbaglierete nemmeno se li spenderete per Profumo, a patto che siate pronti, e accettiate, che la sua essenza non riuscirà a entrarvi dentro e, proprio per questo, il suo ricordo evaporerà già sulle scale del cinema, come profumo.
Pirati dei caraibi
Settembre. Tocca finire i tagliandi dell’abbonamento spettacoli che scade a fine mese. La scelta, per chi abita a Favria è tra: “Pirati dei Caraibi. La maledizione del forziere fantasma” (d’ora in avanti PDCLMDFF) all’Ambra di Valperga, “PDCLMDFF” al Margherita di Cuorgnè e “PDCLMDFF” anche al cinema Boaro di Ivrea. Per vedere qualcosa di diverso bisognerebbe spingersi fino a San Giusto dove si tiene la semifinale regionale della battaglia delle mucche.
A Cuorgnè, in galleria, c’è un bel posto vuoto nella fila davanti. Ideale per chi porta un figlio. Ma se Alberto ha la visuale libera, invece io ho davanti a me la parte superiore di una calotta cranica come se ne vedono solo nei documentari di SuperQuark dedicati ai primi passi dell’homo erectus. La testa è ricoperta da un fitto pelo, corto e nero, unto quanto basta per preservare dalla pioggia autunnale l’esemplare. Il collo è taurino, nascosto dietro una cascatella di lunghi riccioli che sgorgano come fusilli al nero di seppia dalla base del cranio. Base è una parola grossa perché non c’è soluzione di continuità tra testa e corpo.
Quando l’homo si alza in piedi per vedere, ma soprattutto per farsi vedere dai suoi simili in sala, scopro che non è nemmeno un uomo, ma un grasso cucciolo di elefante marino; denuncia 16 – 17 anni e un paio di pantaloni a vita bassa, così bassa che neanche il suo Q.I. scende tanto.
L’essere aspetta l’inizio del film per estrarre dalle bisacce delle brache un videotelefonino da 200 watt che nella sala buia emana un potente fascio di luce bianca all’indietro e verso l’alto, cioè verso di me. Un riflettore farebbe meno danni. Allora mi ricordo perché non andavo al cinema da tre mesi. La nuova moda qui nel Canavese (ma anche in città è così?) consiste nello scambiarsi SMS stando seduti al cinema. La chat va avanti per due, tre, quattro sessioni, finché oso: “scusa, potresti spegnere o diminuire la luminosità?”
L’essere non risponde. Non per maleducazione, ma perché la sua struttura celebrale non gli consente di centrare i tasti con la proboscide, aggiustarsi il pacco e recepire il senso di una frase, tutto nella stessa sera. Interviene il padre: “Ohu, e spengi che ci dai fastidio a tutti!”. Il padre è seccatissimo perché ho ripreso suo figlio, ma non può darlo a vedere. Guarda torvo il mio di figlio cercando qualche pretesto per pareggiare, ma Betto è preso da Johnny Depp, Orlando Bloom e Keira Knightley e non ha nemmeno le dita nel naso. Il film è lungo. 2 ore e 40 minuti sono un’eternità anche per pellicole più felici. Non mancano le idee e non manca la tensione. Gli effetti speciali sono da applauso. Ci scappa anche qualche risata ogni tanto, ma nel complesso a “PDCLMDFF” manca qualcosa. Manca l’anima del film. Oppure manca (o è scappata) la voglia di vederlo. O forse c’è qualcosa di troppo: il bue muschiato della fila davanti. Pensare che un giorno anche un sottoprodotto della cultura di Italia1 e degli spot Tim e Vodafone come lui si potrà riprodurre mi fa venire i brividi.
Alberto ha apprezzato molto il film. Prendetelo per buono perché si tratta di un giudizio sicuramente più sereno e attendibile del mio.
A Cuorgnè, in galleria, c’è un bel posto vuoto nella fila davanti. Ideale per chi porta un figlio. Ma se Alberto ha la visuale libera, invece io ho davanti a me la parte superiore di una calotta cranica come se ne vedono solo nei documentari di SuperQuark dedicati ai primi passi dell’homo erectus. La testa è ricoperta da un fitto pelo, corto e nero, unto quanto basta per preservare dalla pioggia autunnale l’esemplare. Il collo è taurino, nascosto dietro una cascatella di lunghi riccioli che sgorgano come fusilli al nero di seppia dalla base del cranio. Base è una parola grossa perché non c’è soluzione di continuità tra testa e corpo.
Quando l’homo si alza in piedi per vedere, ma soprattutto per farsi vedere dai suoi simili in sala, scopro che non è nemmeno un uomo, ma un grasso cucciolo di elefante marino; denuncia 16 – 17 anni e un paio di pantaloni a vita bassa, così bassa che neanche il suo Q.I. scende tanto.
L’essere aspetta l’inizio del film per estrarre dalle bisacce delle brache un videotelefonino da 200 watt che nella sala buia emana un potente fascio di luce bianca all’indietro e verso l’alto, cioè verso di me. Un riflettore farebbe meno danni. Allora mi ricordo perché non andavo al cinema da tre mesi. La nuova moda qui nel Canavese (ma anche in città è così?) consiste nello scambiarsi SMS stando seduti al cinema. La chat va avanti per due, tre, quattro sessioni, finché oso: “scusa, potresti spegnere o diminuire la luminosità?”
L’essere non risponde. Non per maleducazione, ma perché la sua struttura celebrale non gli consente di centrare i tasti con la proboscide, aggiustarsi il pacco e recepire il senso di una frase, tutto nella stessa sera. Interviene il padre: “Ohu, e spengi che ci dai fastidio a tutti!”. Il padre è seccatissimo perché ho ripreso suo figlio, ma non può darlo a vedere. Guarda torvo il mio di figlio cercando qualche pretesto per pareggiare, ma Betto è preso da Johnny Depp, Orlando Bloom e Keira Knightley e non ha nemmeno le dita nel naso. Il film è lungo. 2 ore e 40 minuti sono un’eternità anche per pellicole più felici. Non mancano le idee e non manca la tensione. Gli effetti speciali sono da applauso. Ci scappa anche qualche risata ogni tanto, ma nel complesso a “PDCLMDFF” manca qualcosa. Manca l’anima del film. Oppure manca (o è scappata) la voglia di vederlo. O forse c’è qualcosa di troppo: il bue muschiato della fila davanti. Pensare che un giorno anche un sottoprodotto della cultura di Italia1 e degli spot Tim e Vodafone come lui si potrà riprodurre mi fa venire i brividi.
Alberto ha apprezzato molto il film. Prendetelo per buono perché si tratta di un giudizio sicuramente più sereno e attendibile del mio.
Volver
Tre aggettivi per Volver, l’ultimo film di Pedro Almodovar: perdibile, deludente, sconsigliabile.
Ci siete rimasti male? Anch’io. Purtroppo i contenuti non bastano; serve anche il contenitore. Chiamala forma, chiamala regia o, semplicemente, qualità.
Una cosa è se ti inventi un personaggio come “Candela” in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” o il trans Agrado in “Tutto su mia madre”, lo costruisci nei dettagli, scrivi per lui dialoghi che persino la stampante ti applaude, (… mi chiamo Agrado perché per tutta la vita ho cercato di rendere piacevole quella degli altri...) lo fai interpretare da una attrice professionista e gli dai la voce di Veronica Pivetti. Un’altra è se prendi un puttanone e gli fai fare il puttanone. Viene fuori l’effetto telenovela, per non dire una puttanata.
Purtroppo in Volver l’odore di Telecupole e Retequattro salta fuori ad ogni scena. Personaggi che gesticolano troppo, dialoghi che spiegano troppo, attori che appaiono nell’inquadratura troppo a proposito, dettagli inutili e insignificanti, nessuna invenzione nella fotografia o nel racconto. Uno strazio.
Peccato perché i film di Almodovar non sono come i libri di Bruno Vespa che escono a raffica. Dovremo aspettare anni per rifarci la bocca.
Peccato perché con Volver, Almodovar racconta una nuova storia di donne, gli unici esseri viventi che, secondo lui, sono degni di essere raccontati. Le donne sono sempre protagoniste, mentre gli uomini sono comparse tristi. Non è un caso, perché Almodovar è un profeta. Ci sta dicendo che dopo due o tre millenni di sottovalutazione le donne stanno riprendendo il loro posto. Sono più veloci dei cambiamenti climatici e non le fermeremo mai, perché come Almodovar ci dimostra, sono più forti: amano, soffrono, vengono violentate, abusate. Lavorano, partoriscono, allattano e tornano a lavorare. E resistono. Sono capaci di accettare la vita come pochi uomini sanno fare. Forse così si spiega perché esistono grandi uomini e non grandi donne: perché le donne sono tutte grandi.
Ci siete rimasti male? Anch’io. Purtroppo i contenuti non bastano; serve anche il contenitore. Chiamala forma, chiamala regia o, semplicemente, qualità.
Una cosa è se ti inventi un personaggio come “Candela” in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” o il trans Agrado in “Tutto su mia madre”, lo costruisci nei dettagli, scrivi per lui dialoghi che persino la stampante ti applaude, (… mi chiamo Agrado perché per tutta la vita ho cercato di rendere piacevole quella degli altri...) lo fai interpretare da una attrice professionista e gli dai la voce di Veronica Pivetti. Un’altra è se prendi un puttanone e gli fai fare il puttanone. Viene fuori l’effetto telenovela, per non dire una puttanata.
Purtroppo in Volver l’odore di Telecupole e Retequattro salta fuori ad ogni scena. Personaggi che gesticolano troppo, dialoghi che spiegano troppo, attori che appaiono nell’inquadratura troppo a proposito, dettagli inutili e insignificanti, nessuna invenzione nella fotografia o nel racconto. Uno strazio.
Peccato perché i film di Almodovar non sono come i libri di Bruno Vespa che escono a raffica. Dovremo aspettare anni per rifarci la bocca.
Peccato perché con Volver, Almodovar racconta una nuova storia di donne, gli unici esseri viventi che, secondo lui, sono degni di essere raccontati. Le donne sono sempre protagoniste, mentre gli uomini sono comparse tristi. Non è un caso, perché Almodovar è un profeta. Ci sta dicendo che dopo due o tre millenni di sottovalutazione le donne stanno riprendendo il loro posto. Sono più veloci dei cambiamenti climatici e non le fermeremo mai, perché come Almodovar ci dimostra, sono più forti: amano, soffrono, vengono violentate, abusate. Lavorano, partoriscono, allattano e tornano a lavorare. E resistono. Sono capaci di accettare la vita come pochi uomini sanno fare. Forse così si spiega perché esistono grandi uomini e non grandi donne: perché le donne sono tutte grandi.
Il codice da Vinci
Il romanzo di Dan Brown comincia bene e dopo le prime pagine prende la velocità di un TGV, spingendosi fino a dove nessuno aveva mai osato. Peccato che nel finale lo scrittore aziona la rapida e si ferma prima di entrare in stazione. Brown sembra spaventato da ciò che ha scritto e nelle ultime 30 pagine ritratta tutto, proprio come il furbo che ti tampona, ammette la colpa, e il giorno dopo ti porta dodici testimoni pronti a giurare che sei stato tu a fare retromarcia.
Ron Howard (già regista di “A beautiful mind” e celebre per essere stato Richie Cunningham in Happy Days) costruisce la stessa storia, la rende molto meno avvincente, ma almeno arriva fino alla fine conservando idee e dignità. Per libro e film Gesù Cristo era sposato con Maddalena. I due ebbero dei figli, i cui discendenti sono arrivati fino ad oggi. Sempre secondo il film, la Chiesa avrebbe nascosto e custodito con ogni mezzo questo e altri segreti per duemila anni. Anche la divinità di Cristo sarebbe stata costruita a tavolino durante il Concilio di Nicea. Chi dice il vero? La Chiesa, che ha condannato il film, diffida tutti dall’andare a vederlo, organizza veglie di preghiera per esorcizzarlo e scaglia anatemi persino contro l’Acqua S.Anna che lo sponsorizza? O il regista, che insieme alla Sonypictures porta a casa miliardi di dollari da questa idea?
Parlando da spettatore, il Codice Da Vinci è un film mediocre. Preferiamo ricordarci Tom Hanks alla ricerca del soldato Ryan o in Forrest Gump. Audrey Tautou, la co-protagonista, possiamo anche non ricordarla ed è meglio per tutti se non conosciamo nemmeno il nome di chi la doppia in italiano. Manca del tutto la tensione, che invece è bella densa nel libro. Howard tira dritto e sintetizza molti concetti, trita le tesi storiche del romanzo, ma come già detto, ha il pregio di non rinnegare tutto prima della parola fine.
Da vedere? Se avete già letto il libro potete risparmiarvi il film.
Altrimenti sì, andate a vederlo. Non tanto per conoscere le tesi dell’autore, ma per comprendere il clima in cui il film è arrivato nelle sale, soprattutto in Italia, dove si è degni di stima e rispetto se si crede nel calcio, negli oroscopi, nei politici o nello Spirito Santo, ma si è oggetto di critiche e disprezzo se non si crede affatto.
Ron Howard (già regista di “A beautiful mind” e celebre per essere stato Richie Cunningham in Happy Days) costruisce la stessa storia, la rende molto meno avvincente, ma almeno arriva fino alla fine conservando idee e dignità. Per libro e film Gesù Cristo era sposato con Maddalena. I due ebbero dei figli, i cui discendenti sono arrivati fino ad oggi. Sempre secondo il film, la Chiesa avrebbe nascosto e custodito con ogni mezzo questo e altri segreti per duemila anni. Anche la divinità di Cristo sarebbe stata costruita a tavolino durante il Concilio di Nicea. Chi dice il vero? La Chiesa, che ha condannato il film, diffida tutti dall’andare a vederlo, organizza veglie di preghiera per esorcizzarlo e scaglia anatemi persino contro l’Acqua S.Anna che lo sponsorizza? O il regista, che insieme alla Sonypictures porta a casa miliardi di dollari da questa idea?
Parlando da spettatore, il Codice Da Vinci è un film mediocre. Preferiamo ricordarci Tom Hanks alla ricerca del soldato Ryan o in Forrest Gump. Audrey Tautou, la co-protagonista, possiamo anche non ricordarla ed è meglio per tutti se non conosciamo nemmeno il nome di chi la doppia in italiano. Manca del tutto la tensione, che invece è bella densa nel libro. Howard tira dritto e sintetizza molti concetti, trita le tesi storiche del romanzo, ma come già detto, ha il pregio di non rinnegare tutto prima della parola fine.
Da vedere? Se avete già letto il libro potete risparmiarvi il film.
Altrimenti sì, andate a vederlo. Non tanto per conoscere le tesi dell’autore, ma per comprendere il clima in cui il film è arrivato nelle sale, soprattutto in Italia, dove si è degni di stima e rispetto se si crede nel calcio, negli oroscopi, nei politici o nello Spirito Santo, ma si è oggetto di critiche e disprezzo se non si crede affatto.
Le false verità
Prima le buone o le cattive? Le cattive: il film.
Molti di quelli che l’hanno visto non lo confesseranno a nessuno e si vergogneranno per essersi fatti adescare dalla locandina con la schiena nuda della protagonista e da un titolo che è un ossimoro intrigante: “Le false verità”: “Where the Truth Lies” per chi ci segue dall’estero.
Un po’ come votare Forza Italia. Ad ammetterlo c’è il rischio di essere giudicati dei piccoli Emilio Fede e allora meglio tacere. Così Forza Italia si trova ad essere il primo partito senza che nessuno lo abbia votato e le false verità sale la classifica dei film più visti senza che nessuno abbia il coraggio di dire che è una boiata.
È una boiata perché è troppo complicato. Ci sono fulgidi esempi di film raccontati con linguaggi cinematografici difficili, anche molto più difficili di questo, ma che stanno su un altro sistema galattico.Un esempio per tutti: “L’uomo senza sonno”; non ci capisci niente fino alla fine, ma alla fine capisci perché non ci capivi niente e ti rendi conto che poter capire tutto insieme alla fine è la vera emozione che il regista ti regala. Nelle “false verità”, invece, oltre a non capire il film, non capisci neanche perché sei andato a vederlo. Una trama da mal di testa per scoprire, alla fine, che il colpevole è il maggiordomo? Segnatevi il nome del regista-sceneggiatore: Atom Egoyan e conservatelo nel portafoglio insieme al certificato delle vaccinazioni, così vi farete un richiamo ogni tanto ed eviterete di vedere per sbaglio il suo prossimo film.
Adesso le buone: le tette. Tante e belle. In Internet ce ne sono anche di più, ma al cinema sono diverse, non c’è niente da fare. Un’altra buona notizia è Kevin Bacon, un bravo attore che si vede, ma poco, in film di qualità come “Mystic River”, “Sleepers” e “Codice d’onore”.
Molti di quelli che l’hanno visto non lo confesseranno a nessuno e si vergogneranno per essersi fatti adescare dalla locandina con la schiena nuda della protagonista e da un titolo che è un ossimoro intrigante: “Le false verità”: “Where the Truth Lies” per chi ci segue dall’estero.
Un po’ come votare Forza Italia. Ad ammetterlo c’è il rischio di essere giudicati dei piccoli Emilio Fede e allora meglio tacere. Così Forza Italia si trova ad essere il primo partito senza che nessuno lo abbia votato e le false verità sale la classifica dei film più visti senza che nessuno abbia il coraggio di dire che è una boiata.
È una boiata perché è troppo complicato. Ci sono fulgidi esempi di film raccontati con linguaggi cinematografici difficili, anche molto più difficili di questo, ma che stanno su un altro sistema galattico.Un esempio per tutti: “L’uomo senza sonno”; non ci capisci niente fino alla fine, ma alla fine capisci perché non ci capivi niente e ti rendi conto che poter capire tutto insieme alla fine è la vera emozione che il regista ti regala. Nelle “false verità”, invece, oltre a non capire il film, non capisci neanche perché sei andato a vederlo. Una trama da mal di testa per scoprire, alla fine, che il colpevole è il maggiordomo? Segnatevi il nome del regista-sceneggiatore: Atom Egoyan e conservatelo nel portafoglio insieme al certificato delle vaccinazioni, così vi farete un richiamo ogni tanto ed eviterete di vedere per sbaglio il suo prossimo film.
Adesso le buone: le tette. Tante e belle. In Internet ce ne sono anche di più, ma al cinema sono diverse, non c’è niente da fare. Un’altra buona notizia è Kevin Bacon, un bravo attore che si vede, ma poco, in film di qualità come “Mystic River”, “Sleepers” e “Codice d’onore”.
Notte prima degli esami
Se fai qualche ricerca su Fausto Brizzi prima di andare al cinema, finisce che non ci vai.
Brizzi Fausto, nato a Roma nel 1968, è lo sceneggiatore di “Christmas in love”, “Vacanze a Miami”, “Natale sul Nilo” e “Natale in India”. Lo sceneggiatore è quello che immagina le situazioni e si inventa i dialoghi. Per cui Brizzi è quello che si inventa le gag dei film Di Neri Parenti e farcisce la bocca di Christian De Sica e Massimo Boldi con carriole di volgarità.
Andare di proposito a vedere un film di cui Brizzi è lo sceneggiatore è come votare per un partito il cui portavoce è Schifani. Ci vuole lo stesso stomaco.
Ma se non sai niente di tutto ciò e vai a vedere “La notte prima degli esami”, sceneggiato e diretto da Fausto Brizzi, alla fine ti devono staccare dalla sedia con qualche solvente, perché altrimenti resteresti lì seduto con un sorriso ebete sulla faccia, deciso a vederti anche il secondo spettacolo.
“La notte prima degli esami” non è un film, è una macchina del tempo che ti riporta indietro di anni. Quanti? La formula è: VE - 18 = X, dove VE sta per vostra età, qualunque essa sia. Il furbissimo Brizzi, che per quanto mi riguarda potrebbe prendere l’Oscar domani mattina, mette insieme un film che diverte, emoziona, commuove, produce malinconia e ti fa innamorare. Ma soprattutto ti fa ritornare con il sangue che ribolle nelle vene, tra ormoni risorti, globuli arrossati ed eroiche placche di colesterolo che fanno resistenza. Guardi la strada, ma vedi Cristiana Capotondi di cui ti sei innamorato, guidi la Multipla, ma vorresti avere il “Bravo” se dietro ci fosse seduta Lei, e gli effetti della sbornia emotiva te li porti anche a letto.
La storia ha la forza della semplicità e l’energia della sorpresa. Il finale è quello che non ti aspetti, ma che avresti dovuto immaginare se hai trascorso i tuoi 18 anni come si deve. Gli attori non recitano, interpretano il loro ruolo con naturalezza, perché è costruito davvero bene. Su tutti Giorgio Faletti, che da oggi è il mio nuovo mito.
Un commento esagerato per un filmetto che in fondo è impegnato come uno spot su ReteQuattro? Forse sì, ma lasciarsi andare ogni tanto alle emozioni “light” fa bene all’espressione del viso, e ritornare indietro di 27 anni fa bene al cuore, quasi come la lecitina di soia.
Brizzi Fausto, nato a Roma nel 1968, è lo sceneggiatore di “Christmas in love”, “Vacanze a Miami”, “Natale sul Nilo” e “Natale in India”. Lo sceneggiatore è quello che immagina le situazioni e si inventa i dialoghi. Per cui Brizzi è quello che si inventa le gag dei film Di Neri Parenti e farcisce la bocca di Christian De Sica e Massimo Boldi con carriole di volgarità.
Andare di proposito a vedere un film di cui Brizzi è lo sceneggiatore è come votare per un partito il cui portavoce è Schifani. Ci vuole lo stesso stomaco.
Ma se non sai niente di tutto ciò e vai a vedere “La notte prima degli esami”, sceneggiato e diretto da Fausto Brizzi, alla fine ti devono staccare dalla sedia con qualche solvente, perché altrimenti resteresti lì seduto con un sorriso ebete sulla faccia, deciso a vederti anche il secondo spettacolo.
“La notte prima degli esami” non è un film, è una macchina del tempo che ti riporta indietro di anni. Quanti? La formula è: VE - 18 = X, dove VE sta per vostra età, qualunque essa sia. Il furbissimo Brizzi, che per quanto mi riguarda potrebbe prendere l’Oscar domani mattina, mette insieme un film che diverte, emoziona, commuove, produce malinconia e ti fa innamorare. Ma soprattutto ti fa ritornare con il sangue che ribolle nelle vene, tra ormoni risorti, globuli arrossati ed eroiche placche di colesterolo che fanno resistenza. Guardi la strada, ma vedi Cristiana Capotondi di cui ti sei innamorato, guidi la Multipla, ma vorresti avere il “Bravo” se dietro ci fosse seduta Lei, e gli effetti della sbornia emotiva te li porti anche a letto.
La storia ha la forza della semplicità e l’energia della sorpresa. Il finale è quello che non ti aspetti, ma che avresti dovuto immaginare se hai trascorso i tuoi 18 anni come si deve. Gli attori non recitano, interpretano il loro ruolo con naturalezza, perché è costruito davvero bene. Su tutti Giorgio Faletti, che da oggi è il mio nuovo mito.
Un commento esagerato per un filmetto che in fondo è impegnato come uno spot su ReteQuattro? Forse sì, ma lasciarsi andare ogni tanto alle emozioni “light” fa bene all’espressione del viso, e ritornare indietro di 27 anni fa bene al cuore, quasi come la lecitina di soia.
il mio miglior nemico
La sala Ambra1 di Valperga - un grosso garage che ha ottenuto l’abilitazione a cinema - in questi giorni ospita “Il mio miglior nemico”, una commedia divertente e veloce, costruita su un’idea centrale così indovinata che le gag si innestano automaticamente, senza bisogno di fare la doppietta. Sarebbe già detto tutto, con tanto di garanzia “soddisfatti o rimborsati” per chi si recherà a vedere il film, magari in qualche sala di città con climatizzatore o almeno con il riscaldamento, ma prima di chiudere c’è da segnalare un Carlo Verdone attore e regista in gran forma e un giovane Silvio Muccino che in almeno due scene lascia capire qualche parola di quello che dice.
Sarebbe detto tutto, ma c’è da parlare della pubblicità. Due gli spot che vanno in onda durante il film: uno quasi invisibile, quello di Think Pad, che risulta essere un PC IBM, l’altro, quello che gioca nel ruolo di main sponsor, è Vodafone ed è davvero imbarazzante. Telefonini marchiati Vodafone ovunque, numeri che iniziano con 348, convention Vodafone nell’albergo dove lavora Verdone, video-telefonate con Vodafone, e in più una grossa novità: il servizio pubblicizzato non è solamente un marchio che passa più o meno sfacciatamente davanti alla macchina da presa, ma addirittura è il mezzo attraverso il quale il protagonista riesce a risolvere un problema. Un salto in avanti notevole per la pubblicità nei film. La domanda è: “un passo indietro per il cinema”? L’istinto da spettatore e consumatore frustrato risponde urlando “Sì!, Vergogna! Passo indietro! Passo indietro!” Ma in dieci secondi la parte razionale riprende il controllo e ti fa dire che alla fine lo sponsor rompe, ma non così tanto. Senza i soldi di Vodafone, chissà? Per risparmiare avrebbero potuto scritturare Iva Zanicchi al posto di Agnese Nano e Mariangela Fantozzi al posto di quella sconvolgente, inedita bellezza che è Ana Caterina Morariu. Tutto detto.
Sarebbe detto tutto, ma c’è da parlare della pubblicità. Due gli spot che vanno in onda durante il film: uno quasi invisibile, quello di Think Pad, che risulta essere un PC IBM, l’altro, quello che gioca nel ruolo di main sponsor, è Vodafone ed è davvero imbarazzante. Telefonini marchiati Vodafone ovunque, numeri che iniziano con 348, convention Vodafone nell’albergo dove lavora Verdone, video-telefonate con Vodafone, e in più una grossa novità: il servizio pubblicizzato non è solamente un marchio che passa più o meno sfacciatamente davanti alla macchina da presa, ma addirittura è il mezzo attraverso il quale il protagonista riesce a risolvere un problema. Un salto in avanti notevole per la pubblicità nei film. La domanda è: “un passo indietro per il cinema”? L’istinto da spettatore e consumatore frustrato risponde urlando “Sì!, Vergogna! Passo indietro! Passo indietro!” Ma in dieci secondi la parte razionale riprende il controllo e ti fa dire che alla fine lo sponsor rompe, ma non così tanto. Senza i soldi di Vodafone, chissà? Per risparmiare avrebbero potuto scritturare Iva Zanicchi al posto di Agnese Nano e Mariangela Fantozzi al posto di quella sconvolgente, inedita bellezza che è Ana Caterina Morariu. Tutto detto.
Margherita
15 giorni di Medals Plaza durante Torino 2006, 15 concerti con star della musica internazionale: Anastacia, Ricki Martin, Lou Reed, Paolo Conte, Avril LAvigne, Nek, Max Pezzali, e tanti altri. Quattro presentatrici: Luisa Corna, Alba Parietti, Simona Ventura e lei, Alena Seredova, così bella che gli esperti consigliano di guardarla attraverso un vetro affumicato, come durante le eclissi di sole. Così alta che chiunque si faccia fotografare vicino a lei non sa quel che fa.
Io c'ero, 18 ore su 24 a scrivere i testi per le 4 madrine. Con Simona Ventura, a saperlo, potevo anche stare a casa, perché improvvisa ed è brava.
Con Parietti e Corna sono gioie e dolori, ma con
lei, Alena, è poesia: lei è il vento e non sa che può far male. Provate a inserire "Seredova" su Google e cliccare su "immagini". Fatto? Anch'io, per straziarmi ancora un po'. Seredova che nel camerino, jeans slacciati, mi dice "Sono in ritardo, dammi i testi che li leggiamo mentre mi cambio!" e io che mi domando perché non ho combattuto meglio il colesterolo in questi anni. Seredova che è felice come una bambina quando le procuro una bandiera della Repubblica Ceca. Seredova che condisce le mie parole con il suo accento straniero. Seredova che lancia Max Pezzali e riscalda il cuore del pubblico zuppo di pioggia.
Resto nel backstage per 10 giorni, ma l'ultima sera, quando tocca a Cocciante scendo tra il pubblico, in prima fila con sopra la testa il palco più bello che abbia mai visto. Arriva "Bella senz'anima" e dopo un po' "Margherita". Tutta. Dal vivo. Adesso posso anche morire. E invece no. Cocciante è felice. È il primo concerto che tiene in Italia da otto anni. Si vede che è emozionato davvero e noi del pubblico che siamo veri bastardi lo facciamo volare alto con un'ovazione. Ci casca e ci chiede se vogliamo cantare Margherita insieme a lui. E noi figurati: "sì!!!!!!!!!!"
Si risiede al pianoforte e ricomincia. "Io non posso stare fermo..." Sento i capelli alzarsi sulla testa, un brivido mi percorre la nuca e stringe forte la gola. "...con le mani nelle mani..." Non riesco a cantare. Non passa il fiato. Si chiama emozione. Poi tutto finisce. Finisce Cocciante. Finiscono le Olimpiadi. Anche Alena Seredova finisce che se ne va. Ma prima mi cerca e mi saluta. Si china su di me, con le mani mi afferra il volto (per evitare sorprese da parte mia, suppongo) e mi dà due baci, uno a destra e uno a sinistra. Dai 140.000 watt del palco giungono ancora le note dell'inno olimpico di Baglioni. E io (fanculo al principe azzurro) mi sento Mammolo baciato da Biancaneve.
Io c'ero, 18 ore su 24 a scrivere i testi per le 4 madrine. Con Simona Ventura, a saperlo, potevo anche stare a casa, perché improvvisa ed è brava.
Con Parietti e Corna sono gioie e dolori, ma con
lei, Alena, è poesia: lei è il vento e non sa che può far male. Provate a inserire "Seredova" su Google e cliccare su "immagini". Fatto? Anch'io, per straziarmi ancora un po'. Seredova che nel camerino, jeans slacciati, mi dice "Sono in ritardo, dammi i testi che li leggiamo mentre mi cambio!" e io che mi domando perché non ho combattuto meglio il colesterolo in questi anni. Seredova che è felice come una bambina quando le procuro una bandiera della Repubblica Ceca. Seredova che condisce le mie parole con il suo accento straniero. Seredova che lancia Max Pezzali e riscalda il cuore del pubblico zuppo di pioggia.
Resto nel backstage per 10 giorni, ma l'ultima sera, quando tocca a Cocciante scendo tra il pubblico, in prima fila con sopra la testa il palco più bello che abbia mai visto. Arriva "Bella senz'anima" e dopo un po' "Margherita". Tutta. Dal vivo. Adesso posso anche morire. E invece no. Cocciante è felice. È il primo concerto che tiene in Italia da otto anni. Si vede che è emozionato davvero e noi del pubblico che siamo veri bastardi lo facciamo volare alto con un'ovazione. Ci casca e ci chiede se vogliamo cantare Margherita insieme a lui. E noi figurati: "sì!!!!!!!!!!"
Si risiede al pianoforte e ricomincia. "Io non posso stare fermo..." Sento i capelli alzarsi sulla testa, un brivido mi percorre la nuca e stringe forte la gola. "...con le mani nelle mani..." Non riesco a cantare. Non passa il fiato. Si chiama emozione. Poi tutto finisce. Finisce Cocciante. Finiscono le Olimpiadi. Anche Alena Seredova finisce che se ne va. Ma prima mi cerca e mi saluta. Si china su di me, con le mani mi afferra il volto (per evitare sorprese da parte mia, suppongo) e mi dà due baci, uno a destra e uno a sinistra. Dai 140.000 watt del palco giungono ancora le note dell'inno olimpico di Baglioni. E io (fanculo al principe azzurro) mi sento Mammolo baciato da Biancaneve.
Brokeback Mountain
Ad un tratto Ennis abbassa il cofano del camioncino di Jack, ma il cofano non si aggancia bene e rimane socchiuso. Nell'inquadratura successiva, quando Jack parte, il cofano è perfettamente chiuso. E questo è l'unico errore del film.
Non è un film lento come dice qualcuno. Probabilmente la sensazione di lentezza è generata dall'ansia in cui possono metterti certe scene. Ti identifichi nei personaggi, che sono omosessuali, e allora ti scoppia il problema: come la mettiamo con la nostra identità? Se mi immedesimo in uno di loro o in entrambi, sono gay anch'io? Così il sedile del cinema diventa molto scomodo e ti puoi sentire come quando devi fare una telefonata antipatica. Vuoi solo che sia breve.
Ma se l'argomento non ti imbarazza, se assistere ad una storia d'amore molto ben raccontata non ti crea problemi, se vai al cinema per farti travolgere dal racconto e se per caso ami anche la montagna, allora il film non è lento per niente: raggiunge subito un buon ritmo e lo mantiene fino alla fine.
Le scene d'amore tra i due cow boy sono convincenti. Due uomini come quelli interpretati da Jake Gyllenhaal e Heath Ledger non potrebbero avere una storia diversa da quella rappresentata dal regista Ang Lee. Anche l'altra protagonista, l'America degli anni '60 e 70, è perfettamente credibile. La peggiore America dei peggiori incubi, quella rurale della miseria, dell'ignoranza e delle sottoculture. Quella che in altri film è razzista, in altri ancora totalitarista, sempre pronta e compiaciuta di essere cafona. La stessa che oggi vota per la pena di morte e per Bush. Un'America, che tuttavia, è capace di leggersi, vedersi, raccontarsi e denunciarsi come nessun altro è capace di fare. Non è merito di chi la governa, ma dei grandi che fanno grande il suo cinema. God Bless America.
Non è un film lento come dice qualcuno. Probabilmente la sensazione di lentezza è generata dall'ansia in cui possono metterti certe scene. Ti identifichi nei personaggi, che sono omosessuali, e allora ti scoppia il problema: come la mettiamo con la nostra identità? Se mi immedesimo in uno di loro o in entrambi, sono gay anch'io? Così il sedile del cinema diventa molto scomodo e ti puoi sentire come quando devi fare una telefonata antipatica. Vuoi solo che sia breve.
Ma se l'argomento non ti imbarazza, se assistere ad una storia d'amore molto ben raccontata non ti crea problemi, se vai al cinema per farti travolgere dal racconto e se per caso ami anche la montagna, allora il film non è lento per niente: raggiunge subito un buon ritmo e lo mantiene fino alla fine.
Le scene d'amore tra i due cow boy sono convincenti. Due uomini come quelli interpretati da Jake Gyllenhaal e Heath Ledger non potrebbero avere una storia diversa da quella rappresentata dal regista Ang Lee. Anche l'altra protagonista, l'America degli anni '60 e 70, è perfettamente credibile. La peggiore America dei peggiori incubi, quella rurale della miseria, dell'ignoranza e delle sottoculture. Quella che in altri film è razzista, in altri ancora totalitarista, sempre pronta e compiaciuta di essere cafona. La stessa che oggi vota per la pena di morte e per Bush. Un'America, che tuttavia, è capace di leggersi, vedersi, raccontarsi e denunciarsi come nessun altro è capace di fare. Non è merito di chi la governa, ma dei grandi che fanno grande il suo cinema. God Bless America.
40 anni vergine
Leggero come una risata, probabile come una promessa di Berlusconi, evitabile come il canone Rai, “40 anni vergine” è un film perfetto: lo puoi vedere senza vergognarti e lo puoi perdere senza rimorsi. Inoltre tutta la storia - incipit, svolgimento, climax e conclusione - è genialmente riassunta nel titolo e quindi puoi immaginarlo senza vederlo.
Se però non lo vedi magari ti immagini il genere commedia erotica con volgarità stile Vanzina-Neri Parenti; non sarebbe un bello spettacolo e non sarebbe giusto. “40 anni vergine” è una produzione americana. Significa che insieme al film ti danno anche una dose di buoni sentimenti. Ecco allora che il quarantenne vergine Steve Carell, illibato anche come attore, manca una quantità di ottime occasioni con bionde, rosse e more perché vuole fare sul serio con Catherine Keener, nota a quel pubblico di voyeur che aspettavano la domenica sera per vedere “The L-World” su La7, dove L sta per “Lesbian”. Nel telefilm Catherine era l’affascinante Marina che insidiava le mogli degli altri.
In “40 anni vergine” Catherine è etero e per mestiere vende oggetti su ebay. Una trovata carina, ma ce ne sono parecchie altre distribuite lungo il film. Le ha pensate e scritte lo stesso attor vergine Steve Carell insieme con il regista, un altro che se non è casto, poco ci manca, dal momento che si chiama Judd Apatow e su di lui Google prima ti dice “forse cercavi qualcun altro” e se proprio insisti scuce una filmografia nella quale il titolo più famoso forse è “Prima o poi me lo sposo”, del 1998, che se prendi la VHS in noleggio probabilmente il distributore si rifiuta di riprenderla indietro il giorno dopo.
Ci sono altri attori nel cast di “40 anni vergine”, tutti bravi o bravini, tutti divertenti e tutti sconosciuti. Il ricambio fa piacere, ben venga il nuovo, ma mancano il conforto e la sicurezza che trovi in un volto famoso. Manca la garanzia dell’attore che stimi e che in qualche modo ti rassicura. Ecco, se il film non è una genialata assoluta (e 40 anni vergine non lo è) rischi di guardarlo con il freno a mano tirato e quindi di perderne una buona parte.
Da oggi Judd Apatow e Steve Carell sono famosi e, grazie soprattutto agli incassi record, la loro prima volta non se la scorderanno mai. Ma poiché non passeranno alla storia, noi li dimenticheremo. Con simpatia ma presto.
Se però non lo vedi magari ti immagini il genere commedia erotica con volgarità stile Vanzina-Neri Parenti; non sarebbe un bello spettacolo e non sarebbe giusto. “40 anni vergine” è una produzione americana. Significa che insieme al film ti danno anche una dose di buoni sentimenti. Ecco allora che il quarantenne vergine Steve Carell, illibato anche come attore, manca una quantità di ottime occasioni con bionde, rosse e more perché vuole fare sul serio con Catherine Keener, nota a quel pubblico di voyeur che aspettavano la domenica sera per vedere “The L-World” su La7, dove L sta per “Lesbian”. Nel telefilm Catherine era l’affascinante Marina che insidiava le mogli degli altri.
In “40 anni vergine” Catherine è etero e per mestiere vende oggetti su ebay. Una trovata carina, ma ce ne sono parecchie altre distribuite lungo il film. Le ha pensate e scritte lo stesso attor vergine Steve Carell insieme con il regista, un altro che se non è casto, poco ci manca, dal momento che si chiama Judd Apatow e su di lui Google prima ti dice “forse cercavi qualcun altro” e se proprio insisti scuce una filmografia nella quale il titolo più famoso forse è “Prima o poi me lo sposo”, del 1998, che se prendi la VHS in noleggio probabilmente il distributore si rifiuta di riprenderla indietro il giorno dopo.
Ci sono altri attori nel cast di “40 anni vergine”, tutti bravi o bravini, tutti divertenti e tutti sconosciuti. Il ricambio fa piacere, ben venga il nuovo, ma mancano il conforto e la sicurezza che trovi in un volto famoso. Manca la garanzia dell’attore che stimi e che in qualche modo ti rassicura. Ecco, se il film non è una genialata assoluta (e 40 anni vergine non lo è) rischi di guardarlo con il freno a mano tirato e quindi di perderne una buona parte.
Da oggi Judd Apatow e Steve Carell sono famosi e, grazie soprattutto agli incassi record, la loro prima volta non se la scorderanno mai. Ma poiché non passeranno alla storia, noi li dimenticheremo. Con simpatia ma presto.
match point
Per un campione di tennis, la fidanzata del vicino è più verde dell’erba di Wimbledon. E così Jonhatan Rhys-Meyers, già allenatore di calcio femminile in “Sognando Bechkam”, e ora insegnante di tennis in “Match Point”, si incasina la vita.
Per dirla tutta, Scarlett Johansson, la fidanzata altrui, ha le sue brave responsabilità nel portare il campione oltre la linea dell’out. Le donne con un coefficiente di sex appeal così alto dovrebbero essere vietate, oppure dovrebbe essere concessa, per legge, una dispensa speciale ai mariti, perché in casi come quello della Johansson (Lost in traslation) non si tratta di resistere ad una tentazione, ma di obbedire ad una legge fisica. Può il ferro, per quanto forte, opporsi all’attrazione di una potente calamita?
In verità Chris (Jonhatan Rhys-Meyers) non prova neanche a resistere, e il suo comportamento per quattro quinti del film è devastante per la psiche degli spettatori maschi, etero. Da una parte, infatti, ti identifichi nel personaggio perché ha tutto ed è tutto, ma soprattutto si rotola nelle lenzuola della Johansson, dall’altra tieni le distanze perché il suo comportamento è esattamente l’opposto di quello che cerchi di insegnare ai tuoi figli se proprio non sei coordinatore di Forza Italia.
Nell’ultima parte del film il processo di identificazione si frantuma e la storia prende finalmente una piega decisa. La tensione lascia il posto all’ansia e la commedia diventa un thriller che potrebbe essere di Hitchock. Il regista però è Woody Allen, ma non lo diresti mai. Manca tutto di Woody Allen. Intanto manca Woody Allen, che non riserva per sé neanche la parte di racchetta da tennis, poi mancano i dialoghi brillanti di Woody Allen, la sua pesante autoironia, i personaggi nevrotici. Fa un buon lavoro, mette insieme un film quadrato, e riesce persino a filmare al rallentatore la morale del suo film, avendo cura che anche lo spettatore più distratto, in ultima fila, la veda e la capisca. Tutto questo, però, non ha niente a che fare con il Woody Allen che conosciamo.
Probabilmente non ha avuto scelta. Anche se il pensionamento professionale si è spostato in avanti per tutti, a settant’anni l’auto-ironia è più che altro auto-commiserazione, il comico diventa grottesco e non sarebbe perdonabile. Allen lo sa, evita di esporre le sue rughe e da vecchio furbacchione, con questo passo indietro si assicura la possibilità di farne ancora molti in avanti.
Per dirla tutta, Scarlett Johansson, la fidanzata altrui, ha le sue brave responsabilità nel portare il campione oltre la linea dell’out. Le donne con un coefficiente di sex appeal così alto dovrebbero essere vietate, oppure dovrebbe essere concessa, per legge, una dispensa speciale ai mariti, perché in casi come quello della Johansson (Lost in traslation) non si tratta di resistere ad una tentazione, ma di obbedire ad una legge fisica. Può il ferro, per quanto forte, opporsi all’attrazione di una potente calamita?
In verità Chris (Jonhatan Rhys-Meyers) non prova neanche a resistere, e il suo comportamento per quattro quinti del film è devastante per la psiche degli spettatori maschi, etero. Da una parte, infatti, ti identifichi nel personaggio perché ha tutto ed è tutto, ma soprattutto si rotola nelle lenzuola della Johansson, dall’altra tieni le distanze perché il suo comportamento è esattamente l’opposto di quello che cerchi di insegnare ai tuoi figli se proprio non sei coordinatore di Forza Italia.
Nell’ultima parte del film il processo di identificazione si frantuma e la storia prende finalmente una piega decisa. La tensione lascia il posto all’ansia e la commedia diventa un thriller che potrebbe essere di Hitchock. Il regista però è Woody Allen, ma non lo diresti mai. Manca tutto di Woody Allen. Intanto manca Woody Allen, che non riserva per sé neanche la parte di racchetta da tennis, poi mancano i dialoghi brillanti di Woody Allen, la sua pesante autoironia, i personaggi nevrotici. Fa un buon lavoro, mette insieme un film quadrato, e riesce persino a filmare al rallentatore la morale del suo film, avendo cura che anche lo spettatore più distratto, in ultima fila, la veda e la capisca. Tutto questo, però, non ha niente a che fare con il Woody Allen che conosciamo.
Probabilmente non ha avuto scelta. Anche se il pensionamento professionale si è spostato in avanti per tutti, a settant’anni l’auto-ironia è più che altro auto-commiserazione, il comico diventa grottesco e non sarebbe perdonabile. Allen lo sa, evita di esporre le sue rughe e da vecchio furbacchione, con questo passo indietro si assicura la possibilità di farne ancora molti in avanti.
gas art
Prima di essere la G della GAS, Gagliardi Art System, Pietro Gagliardi è stato per più di 30 anni il punto G della pubblicità in Italia. Socio e fondatore della BGS, agenzia di pubblicità di prestigio internazionale, guru dei 30 secondi negli anni ’80 e ’90, si inventò, insieme ai soci Silvio Saffirio e Marco Silombria la tradizione di regalare a Natale opere d’arte invece di gianduiotti.
Chiusa la felice parentesi pubblicitaria, Gagliardi si è dedicato totalmente all’arte, è diventato gallerista e ha aperto la GAS, in Corso Vittorio Emanuele 90 a Torino, da non confondere con la vicina GAM, né, tanto meno, con la GAD.
Fino al 28 gennaio la galleria ospita 3 personali.
Quelle che si vedono anche senza entrare, attraverso le vetrine sotto i portici, sono le farfalle di Carlo Steiner. Metri cubi perfettamente impilati di farfalle fatte di farina e acqua nelle misure small, medium e large, tutte bianche come ostie. Si passa appena tra un muro e l’altro. Sono 300mila le farfalline che, disposte come sono nel salone, ricordano i vicoli di Micene, con le pietruzze da asporto turistico, tanto vietato quanto praticato. Finita l’acropoli c’è la classica collezione di farfalle inquadrate e appese alla parete, tutte allineate, tutte trafitte dal loro bravo spillone. Meglio di quelle vere, non hanno causato dolore o morte e possono servire come scusa per portarsi a casa qualcuno.
Il secondo artista è Gabriele Coi, che ha scaricato immagini da internet, come facciamo tutti, ma invece di pescare nelle categorie porno, ha scelto jpg di una città, impossibile sapere quale. Piace pensare che sia Montevideo, ma magari è Brescia. Le ha stampate, le ha virate in giallo acido e le ha ricomposte in collage, ricavandone dei quadri. Accanto ad ogni opera un piccolo altoparlante riproduce i suoni della via. Ma anche senza audio non si fa fatica a immaginare il sibilo dell’aria compressa delle porte del bus e il rombo del traffico nelle vie nascoste dietro ai palazzi. Coglie un po’ d’ansia al pensiero di dover attraversare quelle strade. Di sicuro la città non è Cuneo e gli automobilisti forse non si fermeranno alle strisce.
Il terzo artista è Carlo Galfione e forse è il più interessante. Il tema è la famiglia borghese. Sui volti dei personaggi, sotto il colore, appaiono i fregi e i motivi delle tappezzerie e dei tessuti damascati sui quali l’artista dipinge. Famiglie tutte casa e iper-mercato. Bambine madame, madame bambine, cani antropomorfi. Il supporto tappezzeria è una grande idea: rende bene il concetto di replica, di copia, di mancanza di personalità, di adattamento, conformismo, moda. Chi si mette in casa un quadro di Galfione (costa più di un TV color e meno di una Panda) è persona abbastanza evoluta da riconoscere i propri vuoti interiori. Può zittire i segnali cambiando auto o cellulare, oppure può amplificarli, guardandosi il suo quadro e magari può provare a riempirli.
Chiusa la felice parentesi pubblicitaria, Gagliardi si è dedicato totalmente all’arte, è diventato gallerista e ha aperto la GAS, in Corso Vittorio Emanuele 90 a Torino, da non confondere con la vicina GAM, né, tanto meno, con la GAD.
Fino al 28 gennaio la galleria ospita 3 personali.
Quelle che si vedono anche senza entrare, attraverso le vetrine sotto i portici, sono le farfalle di Carlo Steiner. Metri cubi perfettamente impilati di farfalle fatte di farina e acqua nelle misure small, medium e large, tutte bianche come ostie. Si passa appena tra un muro e l’altro. Sono 300mila le farfalline che, disposte come sono nel salone, ricordano i vicoli di Micene, con le pietruzze da asporto turistico, tanto vietato quanto praticato. Finita l’acropoli c’è la classica collezione di farfalle inquadrate e appese alla parete, tutte allineate, tutte trafitte dal loro bravo spillone. Meglio di quelle vere, non hanno causato dolore o morte e possono servire come scusa per portarsi a casa qualcuno.
Il secondo artista è Gabriele Coi, che ha scaricato immagini da internet, come facciamo tutti, ma invece di pescare nelle categorie porno, ha scelto jpg di una città, impossibile sapere quale. Piace pensare che sia Montevideo, ma magari è Brescia. Le ha stampate, le ha virate in giallo acido e le ha ricomposte in collage, ricavandone dei quadri. Accanto ad ogni opera un piccolo altoparlante riproduce i suoni della via. Ma anche senza audio non si fa fatica a immaginare il sibilo dell’aria compressa delle porte del bus e il rombo del traffico nelle vie nascoste dietro ai palazzi. Coglie un po’ d’ansia al pensiero di dover attraversare quelle strade. Di sicuro la città non è Cuneo e gli automobilisti forse non si fermeranno alle strisce.
Il terzo artista è Carlo Galfione e forse è il più interessante. Il tema è la famiglia borghese. Sui volti dei personaggi, sotto il colore, appaiono i fregi e i motivi delle tappezzerie e dei tessuti damascati sui quali l’artista dipinge. Famiglie tutte casa e iper-mercato. Bambine madame, madame bambine, cani antropomorfi. Il supporto tappezzeria è una grande idea: rende bene il concetto di replica, di copia, di mancanza di personalità, di adattamento, conformismo, moda. Chi si mette in casa un quadro di Galfione (costa più di un TV color e meno di una Panda) è persona abbastanza evoluta da riconoscere i propri vuoti interiori. Può zittire i segnali cambiando auto o cellulare, oppure può amplificarli, guardandosi il suo quadro e magari può provare a riempirli.
Broken flowers
In questi giorni “Natale a Miami” è come il libro di Bruno Vespa: lo trovi dappertutto, tanto che ti viene voglia di andarlo a vedere per parlarne male.
“Broken Flowers”, invece, è il regalo non richiesto nella letterina a Babbo Natale, quello non patteggiato, la sorpresa che ti cambia la serata. La sceneggiatura è di Jim Jarmusch, uno che sa scrivere, visto che il soggetto ha la forza della semplicità, i dialoghi sono credibili, le situazioni sempre sorprendenti, i personaggi dipinti in tinte acriliche.
L’attore protagonista è Bill Murray. Avete presente l’interprete di “Lost in traslation” o Jeff, l’amico di Dustin Hoffman in Tootsie? È lui. Sharon Stone e Jessica Lange sono due delle quattro donne di questo film, quattro ex fidanzate, perse di vista vent’anni prima. Don (Bill Murray) le va a cercare in giro per l’America perché pare che una di loro gli abbia dato un figlio che ora ha diciannove anni. Cosa sono diventate le sue ex? Forse una è gay. Forse. Una forse è infelice. Una ce l'ha con lui, ma non si sa perché. E poi: in quale città degli Stati Uniti vive Don? E in quali città vola con tutti gli aerei che prende? Quali contee visita con la Mondeo a noleggio? Non ci sono riferimenti certi, sicurezze sulle quali appoggiarsi. In altri casi aspetteresti solo l’intervallo per scappare, ma qui accetti di fare un atto di fede perché intanto il film ti piace.
Neri Parenti, Dio lo benedica, offrirebbe tutte le risposte a suon di rutti, ma il regista di Broken Flowers per fortuna è Jim Jarmush, che oltre a saper scrivere sa dirigere un film. Lo costruisce lento perché non è il montaggio serrato a creare la tensione, ma la delicatezza del narratore. Lo infarcisce di ripetizioni perché sa che può permetterselo. Lo lascia irrisolto, perché evidentemente vuole qualcosa da te.
Si comporta come il papà con il figlio che deve fare i compiti. “Quanto fa 64 diviso 8?” Non suggerisce la risposta, lascia che il bimbo ci arrivi da solo, così la prossima volta il bambino la saprà. Sbaglia: il bambino non si ricorderà la tabellina perché non ha voglia di impararla. Ma il risultato il papà e il regista lo ottengono ugualmente: il bambino scrive il numero esatto e tu, spettatore, sei costretto a ragionare.
“Broken Flowers”, invece, è il regalo non richiesto nella letterina a Babbo Natale, quello non patteggiato, la sorpresa che ti cambia la serata. La sceneggiatura è di Jim Jarmusch, uno che sa scrivere, visto che il soggetto ha la forza della semplicità, i dialoghi sono credibili, le situazioni sempre sorprendenti, i personaggi dipinti in tinte acriliche.
L’attore protagonista è Bill Murray. Avete presente l’interprete di “Lost in traslation” o Jeff, l’amico di Dustin Hoffman in Tootsie? È lui. Sharon Stone e Jessica Lange sono due delle quattro donne di questo film, quattro ex fidanzate, perse di vista vent’anni prima. Don (Bill Murray) le va a cercare in giro per l’America perché pare che una di loro gli abbia dato un figlio che ora ha diciannove anni. Cosa sono diventate le sue ex? Forse una è gay. Forse. Una forse è infelice. Una ce l'ha con lui, ma non si sa perché. E poi: in quale città degli Stati Uniti vive Don? E in quali città vola con tutti gli aerei che prende? Quali contee visita con la Mondeo a noleggio? Non ci sono riferimenti certi, sicurezze sulle quali appoggiarsi. In altri casi aspetteresti solo l’intervallo per scappare, ma qui accetti di fare un atto di fede perché intanto il film ti piace.
Neri Parenti, Dio lo benedica, offrirebbe tutte le risposte a suon di rutti, ma il regista di Broken Flowers per fortuna è Jim Jarmush, che oltre a saper scrivere sa dirigere un film. Lo costruisce lento perché non è il montaggio serrato a creare la tensione, ma la delicatezza del narratore. Lo infarcisce di ripetizioni perché sa che può permetterselo. Lo lascia irrisolto, perché evidentemente vuole qualcosa da te.
Si comporta come il papà con il figlio che deve fare i compiti. “Quanto fa 64 diviso 8?” Non suggerisce la risposta, lascia che il bimbo ci arrivi da solo, così la prossima volta il bambino la saprà. Sbaglia: il bambino non si ricorderà la tabellina perché non ha voglia di impararla. Ma il risultato il papà e il regista lo ottengono ugualmente: il bambino scrive il numero esatto e tu, spettatore, sei costretto a ragionare.
Mr & Mrs Smith
Uomini: avete esaurito fantasia e passione? Andate a vedere Mrs. Smith e vi costituirete una scorta di desiderio che durerà più della vostra prostata. Angelina Jolie è la compagna che non meritate, la moglie che non avete, la donna per la quale sareste disposti a vendere vostra figlia. Troppo? Allora vendete l’anima, tanto a che vi serve dopo? Giusto per capirci, il suo profilo evidenzia un design esclusivo con la curva perfetta della fronte, l’originale iperbole che definisce il naso, le labbra che non hanno bisogno di muoversi per comunicare, gli occhi che mettono in discussione la funzionalità della nostra valvola mitralica. Tra noi e Angelina Jolie Voight ci sono da superare un oceano e un tot di anni (Lei è del ‘75). Ma, quel che è peggio, da un po’ di tempo, c’è anche Brad Pitt.
Donne: Brad Pitt è l’altra attrazione del film. Capelli troppo corti, forse, ma evidentemente piace anche così: una specie di barbaresco del 1963 che frizza ancora. Nel 1994 la rivista People lo ha nominato uomo più sexi del mondo, e lo era. Il guaio è che lo è anche oggi, visto che nel frattempo si è anche sposato con Jennifer Aniston e, dopo aver girato Mr. e Mrs. Smith, ha colpito ancora con Angelina Jolie. Innamorarsi di lui è comprensibile, ma anche per voi c’è l’Atlantico di mezzo e sulla porta della villa di Hollywood troverete Angelina, pronta a difendere la sua ultima conquista, più armata di Lara Croft.
Spettatori: siete la categoria che ha meno da guadagnare a vedere questo film, una commedia thriller con sparatorie, azione, inseguimenti ed esplosioni gigantesche, ma dialoghi di piccolo calibro e gag con polveri bagnate. E poi citazioni a gogò. Le citazioni arricchiscono i film di valore, ma se un film è mediocre danno fastidio come un condomino che sale con voi in ascensore. Il regista si chiama Doug Liman e lo sceneggiatore Simon Kingberg. Più utile, forse, sapere che Sandro Mazzola e Luciano Moggi non avrebbero fatto né meglio né peggio. Infatti, se andrete a vedere questo film sarà solo per amore.
Donne: Brad Pitt è l’altra attrazione del film. Capelli troppo corti, forse, ma evidentemente piace anche così: una specie di barbaresco del 1963 che frizza ancora. Nel 1994 la rivista People lo ha nominato uomo più sexi del mondo, e lo era. Il guaio è che lo è anche oggi, visto che nel frattempo si è anche sposato con Jennifer Aniston e, dopo aver girato Mr. e Mrs. Smith, ha colpito ancora con Angelina Jolie. Innamorarsi di lui è comprensibile, ma anche per voi c’è l’Atlantico di mezzo e sulla porta della villa di Hollywood troverete Angelina, pronta a difendere la sua ultima conquista, più armata di Lara Croft.
Spettatori: siete la categoria che ha meno da guadagnare a vedere questo film, una commedia thriller con sparatorie, azione, inseguimenti ed esplosioni gigantesche, ma dialoghi di piccolo calibro e gag con polveri bagnate. E poi citazioni a gogò. Le citazioni arricchiscono i film di valore, ma se un film è mediocre danno fastidio come un condomino che sale con voi in ascensore. Il regista si chiama Doug Liman e lo sceneggiatore Simon Kingberg. Più utile, forse, sapere che Sandro Mazzola e Luciano Moggi non avrebbero fatto né meglio né peggio. Infatti, se andrete a vedere questo film sarà solo per amore.
Harry Potter e il calice di fuoco
Cinema Ambra 1 di Valperga, venerdì sera: 430 posti disponibili, 430 posti occupati. Qualcuno sta in piedi e qualcuno riproverà domani. Harry Potter unisce e aggrega.
Più trasversale dell’influenza, colpisce nella stessa misura adulti, giovani e bambini. Più Bipartisan della legge che aumenta lo stipendio ai deputati, unisce famiglie di Forza Italia e coppie di Rifondazione.
Quello che è chiaro, dopo anni di frequentazione, è che Harry Potter non è un personaggio, ma un mondo, un sistema alternativo. E nonostante sia un mondo pericoloso, nel quale tutti hanno paura anche solo di nominare Chi-sai-tu, a quanto pare è di gran lunga preferito a quest’altro, quello più o meno reale in cui viviamo. Non si spiegano diversamente il successo che continua ininterrotto da 5 libri e 4 film, e la fedeltà che tutti i fans dimostrano alla serie.
Ci sono due entrate per questo mondo. La porta principale di Hogwards passa per i libri e i veri maghi non ne riconoscono altre. Sembra che funzioni anche quella del cinema, visto che anche chi non legge viene catturato per sempre dalla magia di Harry, Ron, Ermione e dell’intera galleria di personaggi.
Ora, non c’è nulla di male nel credere in un mondo che non esiste. Ci si fa un po’ male quando se ne esce, perché la fine del libro o del film lascia un senso di vuoto, ma si sopravvive.
Sarebbe bello credere anche a “meno tasse per tutti”, alla "casa per chi non ce l’ha" e a "milioni di posti di lavoro", ma poiché tutto ciò richiederebbe, se non la bacchetta magica, almeno un po’ di onestà, crederci davvero o crederci ancora è un po’ stupido, no?
Più trasversale dell’influenza, colpisce nella stessa misura adulti, giovani e bambini. Più Bipartisan della legge che aumenta lo stipendio ai deputati, unisce famiglie di Forza Italia e coppie di Rifondazione.
Quello che è chiaro, dopo anni di frequentazione, è che Harry Potter non è un personaggio, ma un mondo, un sistema alternativo. E nonostante sia un mondo pericoloso, nel quale tutti hanno paura anche solo di nominare Chi-sai-tu, a quanto pare è di gran lunga preferito a quest’altro, quello più o meno reale in cui viviamo. Non si spiegano diversamente il successo che continua ininterrotto da 5 libri e 4 film, e la fedeltà che tutti i fans dimostrano alla serie.
Ci sono due entrate per questo mondo. La porta principale di Hogwards passa per i libri e i veri maghi non ne riconoscono altre. Sembra che funzioni anche quella del cinema, visto che anche chi non legge viene catturato per sempre dalla magia di Harry, Ron, Ermione e dell’intera galleria di personaggi.
Ora, non c’è nulla di male nel credere in un mondo che non esiste. Ci si fa un po’ male quando se ne esce, perché la fine del libro o del film lascia un senso di vuoto, ma si sopravvive.
Sarebbe bello credere anche a “meno tasse per tutti”, alla "casa per chi non ce l’ha" e a "milioni di posti di lavoro", ma poiché tutto ciò richiederebbe, se non la bacchetta magica, almeno un po’ di onestà, crederci davvero o crederci ancora è un po’ stupido, no?
Desperate housewives
Può capitare di essere lasciati da una donna. Ma farsi abbandonare contemporaneamente da 4 casalinghe, un lunedì sera, non è spiegabile neanche con l'alito cattivo. Purtroppo di spiegazioni la Rai non ne dà mai: quando tronca una storia, la chiude senza tanti preliminari e se ne frega se una sera scopri di punto in bianco che è finita, e te ne rimani lì, stupido, con il telecomando inclinato verso il basso, la mandibola cascante e il torcicollo, come quando ti addormenti sui sedili di Trenitalia.
Non lo sapevi? Non leggi Sorrisi e Canzoni? Allora piangi e taci.
Ma come? Ma lo sa la Rai che se ogni lunedì riuscivamo a sopravvivere all'ufficio prima e alle nostre famiglie dopo, era perché la sera ci trasferivamo in Wisteria Lane? E per la Rai, questi mesi non hanno significato nulla? Tutto lo share che le abbiamo dedicato, settimana dopo settimana, è stato portato via dallo sciacquone come quando avevamo tredici anni e passavamo i pomeriggi chiusi in bagno?
Avremmo dovuto renderci conto che il sentimento era a senso unico già quando la Rai ci ha dato il bidone con gli appuntamenti fissati "Oh, avevate capito martedì? No, no era lunedì"
Prendiamone atto. Non abbiamo mai contato niente e ha sempre avuto ragione Ferradini "dille che l'ami e sta sicuro che ti lascerà".
Il problema è che qui ne amavamo 4, e ciascuna in un modo speciale. E così ciascuna ci mancherà in un modo tutto suo.
Gabrielle, la signora Solis, che a vederla in guepiere ti sale la febbre esterna, interna e intermedia. Appenderemo il suo poster in casa e il suo volto sarà lo screen shot del pc, salvo passare alle bandierine di Windows all'arrivo di nostra moglie.
Bree Van de Kamp, così algida, così palesemente derivata del poliuretano, forse riusciremo a dimenticarla, ma non appena chiuderemo gli occhi, i suoi capelli ramati torneranno a colorarci le notti di malinconia.
Lynette non la dimenticheremo per due motivi: o perché ne abbiamo sposata una uguale e ce l'abbiamo in casa, o perché sarà lei a dimenticarsi di noi, totalmente divorata dalla sua famiglia.
E infine Susan. Susan non siamo disposti a lasciarla andare senza combattere. Potremo rivederla in qualche altra serie, ma non sarà la stessa cosa, perché qualche indegno regista la farà apparire diversa dalla cerbiatta in amore da proteggere e coccolare.
Ritorneranno? Forse tra un anno, così dicono molti su internet. In America ritorneranno sicuramente, ma in Rai? Saranno sufficienti gli ascolti registrati dalla serie quest'anno per i buyer della televisione italiana? Siamo stati mediamente in 3milioni e 100mila a seguire le donne più politicamente scorrette delle serie televisive, e dal momento che la Rai ragiona solamente con i numeri possiamo sperare bene, perché non siamo pochi. Però non siamo nemmeno così tanti da assicurare l'en-plein di entrate pubblicitarie.
Aspettiamo. Nel frattempo possiamo vedere e rivedere le cassette che abbiamo prudentemente registrato per saltare la pubblicità. (Eh sì!). E nello struggente ricordo, persino gli stacchetti con la mela che piomba giù ci faranno sentire un po' meno soli.
Non lo sapevi? Non leggi Sorrisi e Canzoni? Allora piangi e taci.
Ma come? Ma lo sa la Rai che se ogni lunedì riuscivamo a sopravvivere all'ufficio prima e alle nostre famiglie dopo, era perché la sera ci trasferivamo in Wisteria Lane? E per la Rai, questi mesi non hanno significato nulla? Tutto lo share che le abbiamo dedicato, settimana dopo settimana, è stato portato via dallo sciacquone come quando avevamo tredici anni e passavamo i pomeriggi chiusi in bagno?
Avremmo dovuto renderci conto che il sentimento era a senso unico già quando la Rai ci ha dato il bidone con gli appuntamenti fissati "Oh, avevate capito martedì? No, no era lunedì"
Prendiamone atto. Non abbiamo mai contato niente e ha sempre avuto ragione Ferradini "dille che l'ami e sta sicuro che ti lascerà".
Il problema è che qui ne amavamo 4, e ciascuna in un modo speciale. E così ciascuna ci mancherà in un modo tutto suo.
Gabrielle, la signora Solis, che a vederla in guepiere ti sale la febbre esterna, interna e intermedia. Appenderemo il suo poster in casa e il suo volto sarà lo screen shot del pc, salvo passare alle bandierine di Windows all'arrivo di nostra moglie.
Bree Van de Kamp, così algida, così palesemente derivata del poliuretano, forse riusciremo a dimenticarla, ma non appena chiuderemo gli occhi, i suoi capelli ramati torneranno a colorarci le notti di malinconia.
Lynette non la dimenticheremo per due motivi: o perché ne abbiamo sposata una uguale e ce l'abbiamo in casa, o perché sarà lei a dimenticarsi di noi, totalmente divorata dalla sua famiglia.
E infine Susan. Susan non siamo disposti a lasciarla andare senza combattere. Potremo rivederla in qualche altra serie, ma non sarà la stessa cosa, perché qualche indegno regista la farà apparire diversa dalla cerbiatta in amore da proteggere e coccolare.
Ritorneranno? Forse tra un anno, così dicono molti su internet. In America ritorneranno sicuramente, ma in Rai? Saranno sufficienti gli ascolti registrati dalla serie quest'anno per i buyer della televisione italiana? Siamo stati mediamente in 3milioni e 100mila a seguire le donne più politicamente scorrette delle serie televisive, e dal momento che la Rai ragiona solamente con i numeri possiamo sperare bene, perché non siamo pochi. Però non siamo nemmeno così tanti da assicurare l'en-plein di entrate pubblicitarie.
Aspettiamo. Nel frattempo possiamo vedere e rivedere le cassette che abbiamo prudentemente registrato per saltare la pubblicità. (Eh sì!). E nello struggente ricordo, persino gli stacchetti con la mela che piomba giù ci faranno sentire un po' meno soli.
La tigre e la neve
Ne “La tigre e la neve” Nicoletta Braschi guida un Ulysse e Roberto Benigni una Punto blu. Metallizzata. Pulitissima. Strano eh? Sarebbe strano anche se Benigni guidasse una Opel o una Toyota, ma su una Fiat ci sta proprio male, forse perché è troppo scontato vedere un’auto italiana in un film italiano, o forse perché Benigni è un poeta e trovare una rima per Fiat è veramente dura.
La premessa per dire che la pubblicità occulta dà fastidio ed è una forma di corruzione per la quale non c’è immunità naturale nemmeno per i grandi. Difficile chiudere il capitolo “difetti” perché l’Iraq ricostruito da Benigni è frutto di una scenografia che chiede molto all’immaginazione, e la recitazione della Braschi ha bisogno di molta clemenza. Per dirla tutta, le due ragazzine che interpretano il ruolo delle figlie di Attilio (Benigni) oltre a essere bruttine, non recitano: si muovono in modo scoordinato e dicono le loro battute con le inflessioni e i difetti di pronuncia di adolescenti prese a caso in una prima liceo. Possibile che Benigni non se ne sia accorto?
In realtà Benigni ha tutto sotto controllo. Sa quanto deve essere dettagliato uno scenario e come va pronunciata ogni sillaba. Tuttavia non se ne cura, perché con “La tigre e la neve” non sta girando un film, sta raccontando una favola, e nelle favole non ha importanza se ascolti seduto per terra o sulle ginocchia del nonno; conta solo il narratore, che decide le voci dei personaggi.
Appena capisci che sei invitato in una fiaba, riesci a perdonare le ragazzine racchie e ti sembra persino che la voce della Braschi mostri qualche tentativo di passione.
Difficile parlare bene di un film parlandone male, ma “La tigre e la neve” è così: imperfetto ma intenso, confuso ma geniale. Sì, geniale perché Benigni è riuscito a raccontare una delicata poesia d’amore prendendo in giro il pubblico dall’inizio alla fine. Quando ti accorgi che nell’apparente semplicità della storia in realtà non avevi capito niente, è ormai tardi. Il delicato imbroglio costruito dalla sceneggiatura di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami fa gol all’89°, quando ormai è impossibile pareggiare. E la sorpresa è talmente inaspettata che rimani lì a pensare se merita un altro Oscar. No, forse l’Oscar no, ma almeno un grazie, questo sì.
La premessa per dire che la pubblicità occulta dà fastidio ed è una forma di corruzione per la quale non c’è immunità naturale nemmeno per i grandi. Difficile chiudere il capitolo “difetti” perché l’Iraq ricostruito da Benigni è frutto di una scenografia che chiede molto all’immaginazione, e la recitazione della Braschi ha bisogno di molta clemenza. Per dirla tutta, le due ragazzine che interpretano il ruolo delle figlie di Attilio (Benigni) oltre a essere bruttine, non recitano: si muovono in modo scoordinato e dicono le loro battute con le inflessioni e i difetti di pronuncia di adolescenti prese a caso in una prima liceo. Possibile che Benigni non se ne sia accorto?
In realtà Benigni ha tutto sotto controllo. Sa quanto deve essere dettagliato uno scenario e come va pronunciata ogni sillaba. Tuttavia non se ne cura, perché con “La tigre e la neve” non sta girando un film, sta raccontando una favola, e nelle favole non ha importanza se ascolti seduto per terra o sulle ginocchia del nonno; conta solo il narratore, che decide le voci dei personaggi.
Appena capisci che sei invitato in una fiaba, riesci a perdonare le ragazzine racchie e ti sembra persino che la voce della Braschi mostri qualche tentativo di passione.
Difficile parlare bene di un film parlandone male, ma “La tigre e la neve” è così: imperfetto ma intenso, confuso ma geniale. Sì, geniale perché Benigni è riuscito a raccontare una delicata poesia d’amore prendendo in giro il pubblico dall’inizio alla fine. Quando ti accorgi che nell’apparente semplicità della storia in realtà non avevi capito niente, è ormai tardi. Il delicato imbroglio costruito dalla sceneggiatura di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami fa gol all’89°, quando ormai è impossibile pareggiare. E la sorpresa è talmente inaspettata che rimani lì a pensare se merita un altro Oscar. No, forse l’Oscar no, ma almeno un grazie, questo sì.
Good night and good luck
È la storia del celebre anchor man americano Edward R. Murrow, che negli anni ‘50 combatté e vinse una battaglia per la democrazia, contro la censura e la libertà di stampa, una storia importante che andava raccontata. Il regista George Clooney lo ha fatto e probabilmente non poteva fare meglio di così. Dal punto di vista dell’impegno politico e sociale è un capolavoro. Dal punto di vista dello spettatore, dipende: se deve ancora cenare è una pizza, se ha già mangiato è un Valium.
Il film tende dunque al grigio, non perché girato in bianco e nero, (bellissima la fotografia) ma perché interamente appoggiato sui dialoghi, ai quali bisogna prestare massima attenzione e concentrazione, altrimenti tanto vale aspettare fuori. Diciamolo: è un “quasi documentario”, tanto che le battute del protagonista sono tratte dalle registrazioni televisive di 50 anni prima. Novanta minuti di discorsi storici, poca tensione, nessun colpo di scena e sei alla fine. Qui giunto sei grato a Clooney per averti ricordato dei fatti seppelliti nella periferia della memoria. Ragioni sul film e sulle parole, ma ti chiedi se il tutto non poteva essere reso un po’ più spettacolare. Insomma gli applausi sarebbero fuori luogo e se muovi le braccia è per controllare se le chiavi della macchina sono ancora al loro posto.
Allora: “Good Night and Good Luck” è da vedere o no? Mettiamola così: se a scuola non ci andava di studiare storia perché la trovavamo una materia noiosa e faticosa, adesso non lamentiamoci se abbiamo qualche lacuna. Se oggi andiamo al cinema solo per vedere i film di Neri Parenti, poi non meravigliamoci se nel frattempo, anche in Italia, soprattutto in Italia, ci hanno tolto un po’ di libertà.
Il film tende dunque al grigio, non perché girato in bianco e nero, (bellissima la fotografia) ma perché interamente appoggiato sui dialoghi, ai quali bisogna prestare massima attenzione e concentrazione, altrimenti tanto vale aspettare fuori. Diciamolo: è un “quasi documentario”, tanto che le battute del protagonista sono tratte dalle registrazioni televisive di 50 anni prima. Novanta minuti di discorsi storici, poca tensione, nessun colpo di scena e sei alla fine. Qui giunto sei grato a Clooney per averti ricordato dei fatti seppelliti nella periferia della memoria. Ragioni sul film e sulle parole, ma ti chiedi se il tutto non poteva essere reso un po’ più spettacolare. Insomma gli applausi sarebbero fuori luogo e se muovi le braccia è per controllare se le chiavi della macchina sono ancora al loro posto.
Allora: “Good Night and Good Luck” è da vedere o no? Mettiamola così: se a scuola non ci andava di studiare storia perché la trovavamo una materia noiosa e faticosa, adesso non lamentiamoci se abbiamo qualche lacuna. Se oggi andiamo al cinema solo per vedere i film di Neri Parenti, poi non meravigliamoci se nel frattempo, anche in Italia, soprattutto in Italia, ci hanno tolto un po’ di libertà.
i giorni dell'abbandono
Essere sceneggiatore e regista di un film significa prendersene per intero la responsabilità: idee, credibilità della storia e degli attori, comprensibilità, ritmo, tensione narrativa, tutto. Roberto Faenza è il regista e sceneggiatore de "I giorni dell'abbandono".
A chi - dunque - chiedere indietro i soldi del biglietto? A Roberto Faenza. Alla cortese attenzione di chi spedire un invito per andare a quel paese? A Roberto Faenza. A quale nome fare attenzione, in futuro, per evitare di prendersi un'altra fregatura? A Roberto Faenza.
Nel film di Roberto Faenza, Margherita Buy fa la traduttrice per un editore e lavora a casa. Ora, con cosa elabora il suo testo la Buy? Con un PC? Con un Mac? No. Roberto Faenza le procura una macchina da scrivere. E allora, invece di seguire il filo della trama (sottile come neanche un ragno potrebbe tessere) ci si domanda perché mai una traduttrice debba pestare sui tasti invece di comporre con Word. Come passerà il lavoro all'impaginatore? Cosa ci vorrà dire Roberto Faenza con questa storia della macchina da scrivere? Non è una divagazione spiacevole, per lo meno per qualche minuto ti distrai e ti salvi dal film. Ma poiché lo schermo è l'unica cosa luminosa del cinema ecco che ricaschi nell'infelice vita della Buy, giusto in tempo per incrociare 5 o 6 volte una barbona davvero poco credibile, che vive sotto i cartoni in una prestigiosa via di Torino, e ti chiedi che cosa rappresenta. Ogni ipotesi è buona. È la donna che Margherita Buy vorrebbe essere? È un fantasma che solo lei può vedere? È una raccomandata a cui Roberto Faenza doveva per forza dare una parte? Alla fine rinunci a capire e non la vedi più. Ma c'è un'altra storia parallela, che viene a incrociarsi, ogni volta che non serve, con la vita sfigata della Buy: è quella di una donna annegata in mare. E di nuovo ti chiedi cosa rappresenta. Se stessa? La barbona? La nonna di Roberto Faenza? Alla fine rinunci a capire e non la vedi più. Poi c'è Luca Zingaretti, al quale Roberto Faenza riserva una parte che più brutta è veramente difficile. È un uomo che dall'oggi al domani lascia la moglie (la Buy), i figli e se ne va. Oddio, capita, e "non amare più non è una colpa" come fa dire Roberto Faenza a Zingaretti, ma certo Zingaretti non ne esce bene. Se sono queste le parti che lo aspettano, è meglio per tutti se continua a fare il commissario Montalbano. Un premio speciale della giuria anche per il tecnico del suono, che con la sua presa diretta riesce a confezionare una marmellata di voci e musiche mal mixate, che ti fanno perdere due parole su tre. (Forse è persino un bene). Alla fine rinunci anche ad ascoltare e fortuna che il film finisce perché non ne puoi più.
A chi - dunque - chiedere indietro i soldi del biglietto? A Roberto Faenza. Alla cortese attenzione di chi spedire un invito per andare a quel paese? A Roberto Faenza. A quale nome fare attenzione, in futuro, per evitare di prendersi un'altra fregatura? A Roberto Faenza.
Nel film di Roberto Faenza, Margherita Buy fa la traduttrice per un editore e lavora a casa. Ora, con cosa elabora il suo testo la Buy? Con un PC? Con un Mac? No. Roberto Faenza le procura una macchina da scrivere. E allora, invece di seguire il filo della trama (sottile come neanche un ragno potrebbe tessere) ci si domanda perché mai una traduttrice debba pestare sui tasti invece di comporre con Word. Come passerà il lavoro all'impaginatore? Cosa ci vorrà dire Roberto Faenza con questa storia della macchina da scrivere? Non è una divagazione spiacevole, per lo meno per qualche minuto ti distrai e ti salvi dal film. Ma poiché lo schermo è l'unica cosa luminosa del cinema ecco che ricaschi nell'infelice vita della Buy, giusto in tempo per incrociare 5 o 6 volte una barbona davvero poco credibile, che vive sotto i cartoni in una prestigiosa via di Torino, e ti chiedi che cosa rappresenta. Ogni ipotesi è buona. È la donna che Margherita Buy vorrebbe essere? È un fantasma che solo lei può vedere? È una raccomandata a cui Roberto Faenza doveva per forza dare una parte? Alla fine rinunci a capire e non la vedi più. Ma c'è un'altra storia parallela, che viene a incrociarsi, ogni volta che non serve, con la vita sfigata della Buy: è quella di una donna annegata in mare. E di nuovo ti chiedi cosa rappresenta. Se stessa? La barbona? La nonna di Roberto Faenza? Alla fine rinunci a capire e non la vedi più. Poi c'è Luca Zingaretti, al quale Roberto Faenza riserva una parte che più brutta è veramente difficile. È un uomo che dall'oggi al domani lascia la moglie (la Buy), i figli e se ne va. Oddio, capita, e "non amare più non è una colpa" come fa dire Roberto Faenza a Zingaretti, ma certo Zingaretti non ne esce bene. Se sono queste le parti che lo aspettano, è meglio per tutti se continua a fare il commissario Montalbano. Un premio speciale della giuria anche per il tecnico del suono, che con la sua presa diretta riesce a confezionare una marmellata di voci e musiche mal mixate, che ti fanno perdere due parole su tre. (Forse è persino un bene). Alla fine rinunci anche ad ascoltare e fortuna che il film finisce perché non ne puoi più.
Io uccido
Delitto, indagine, soluzione. Lo schema del genere "thriller" è semplice e sicuro, tanto che la maggioranza dei film e dei libri è pennellata di giallo. Giorgio Faletti, al suo esordio come autore nel 2002, non si è sprecato e ha seguito la ricetta. Un po' come se un cuoco decidesse di cimentarsi con un panino al salame.
Tuttavia una pagnotta con fette di cacciatorino è l'ideale per merenda e nella valigia delle vacanze un tomo bello spesso come "Io uccido" è altrettanto appetitoso.
"Io uccido" ha il grosso problema di iniziare molto bene. E quando un libro ti prende al primo morso purtroppo ha maggiori probabilità di deluderti nello sviluppo.
Il pepe c'è, perché i delitti del serial killer di Faletti sono cruenti al punto giusto, le vittime sono ben definite, gli omicidi sembrano inevitabili manovre del destino più che azioni pianificate da un pazzo assassino. L'ambientazione nel Principato di Monaco e il particolare ambiente di Radio Montecarlo sono indovinate e intelligenti. Indovinate perché mettono insieme e confondono in un romanzo, fiction e realtà, il tutto 3 anni prima di Dan Brown e del suo "Codice Da Vinci". Intelligenti perché con questo semplice trucco ti trascinano nelle pagine con una facilità disarmante: Montecarlo esiste, RMC la conosci bene, dunque scivoli con un sorriso sulla maionese e ti fai prendere dalla storia.
Purtroppo ci sono un po' di bucce nel panino. Faletti corre in bilico tra l'improbabile-ma-possibile e l'inverosimile e spesso casca dalla parte sbagliata, aiutando i suoi eroi con una serie esagerata di colpi di fortuna. Il racconto diventa persino gnecco, come pane tirato fuori dal frigo, quando Faletti ti fa perdere una vita (15 pagine, l'intero paragrafo 52) raccontando nei minimi dettagli la storia, il carattere, le aspirazioni, i progetti e i difetti di un insignificante Hudson McCormac per poi sopprimerlo subito dopo. Suggerimento: se leggete il libro inghiottite questo paragrafo senza masticare e passate oltre, perché per il resto il romanzo si mantiene gustoso fino alla fine. Chiusa l'ultima pagina probabilmente non sarete sazi. Nessun problema: in libreria c'è da tempo il secondo romanzo di Faletti: "Niente di vero tranne gli occhi". Chi lo assaggia?
Tuttavia una pagnotta con fette di cacciatorino è l'ideale per merenda e nella valigia delle vacanze un tomo bello spesso come "Io uccido" è altrettanto appetitoso.
"Io uccido" ha il grosso problema di iniziare molto bene. E quando un libro ti prende al primo morso purtroppo ha maggiori probabilità di deluderti nello sviluppo.
Il pepe c'è, perché i delitti del serial killer di Faletti sono cruenti al punto giusto, le vittime sono ben definite, gli omicidi sembrano inevitabili manovre del destino più che azioni pianificate da un pazzo assassino. L'ambientazione nel Principato di Monaco e il particolare ambiente di Radio Montecarlo sono indovinate e intelligenti. Indovinate perché mettono insieme e confondono in un romanzo, fiction e realtà, il tutto 3 anni prima di Dan Brown e del suo "Codice Da Vinci". Intelligenti perché con questo semplice trucco ti trascinano nelle pagine con una facilità disarmante: Montecarlo esiste, RMC la conosci bene, dunque scivoli con un sorriso sulla maionese e ti fai prendere dalla storia.
Purtroppo ci sono un po' di bucce nel panino. Faletti corre in bilico tra l'improbabile-ma-possibile e l'inverosimile e spesso casca dalla parte sbagliata, aiutando i suoi eroi con una serie esagerata di colpi di fortuna. Il racconto diventa persino gnecco, come pane tirato fuori dal frigo, quando Faletti ti fa perdere una vita (15 pagine, l'intero paragrafo 52) raccontando nei minimi dettagli la storia, il carattere, le aspirazioni, i progetti e i difetti di un insignificante Hudson McCormac per poi sopprimerlo subito dopo. Suggerimento: se leggete il libro inghiottite questo paragrafo senza masticare e passate oltre, perché per il resto il romanzo si mantiene gustoso fino alla fine. Chiusa l'ultima pagina probabilmente non sarete sazi. Nessun problema: in libreria c'è da tempo il secondo romanzo di Faletti: "Niente di vero tranne gli occhi". Chi lo assaggia?
La guerra dei mondi
Se siete già in vacanza o se siete troppo indaffarati, non preoccupatevi. Se anche vi perdete “La guerra dei mondi” non sarete tagliati fuori. Milioni di terrestri lo vedranno, ma nessuno potrà mettervi in imbarazzo citando una frase tratta dal film, perché i protagonisti urlano tanto e parlano poco; per trovare una frase d’effetto bisognerebbe inserirsi nelle comunicazioni tra extraterrestri, tradurre e poi ancora.
Testi a parte, non sentitevi in colpa nemmeno per il resto: non c’è la poesia di E.T. non ci sono i dialoghi di “Odissea 2001”, il terrore di “Alien” è tutt’altra cosa e manca la gloria di “Guerre Stellari”. Quello che non manca sono gli effetti speciali, realizzati talmente bene che quasi ti annoi e se ti annoi pensi ad altro e se pensi ad altro ti viene la nostalgia per i film in bianco e nero degli anni ‘50, quando la mancanza assoluta di elettronica faceva fare gli straordinari all’immaginazione e vedere un film di fantascienza era come leggere un Urania con il sonoro.
“Il pianeta proibito”, “L’astronave del dottor Quatermass”, “Il giorno dei trifidi” “Occhi bianchi sul pianeta terra”… pura ingenuità prodotta con pochi dollari, trame che spesso non stavano in piedi, attori sacrificabili e, soprattutto, nessuna campagna pubblicitaria. I produttori non si prendevano responsabilità. Se il film non ti piaceva, peggio per te: nessuno ti aveva detto di andarlo a vedere. Adesso, invece spendono in promozione quasi quanto spendono in produzione. I film come “La guerra dei mondi” non sono più film, ma eventi con fall out di marketing intorno. Tutto bene se le promesse vengono rispettate, ma se mi convinci a venire a vederti, poi non devi deludermi. E con “La guerra dei mondi” manca davvero poco al tradimento. C’è Tom Cruise che fa il suo lavoro, c’è Spielberg che non sbaglia e c’è tensione. Ma Tom Cruise ha fatto di meglio nella sua vita, Spielberg ha fatto molto di meglio e per quanto riguarda la tensione, tutto sommato ce n’è anche nello spot TV di Lycia doccia, quando ti chiedi se la modella svestita si girerà o non si girerà. Come dire che quasi quasi vale la pena stare a casa a guardare la TV. Comunque anch’io non mi prendo responsabilità: la modella non si gira.
Testi a parte, non sentitevi in colpa nemmeno per il resto: non c’è la poesia di E.T. non ci sono i dialoghi di “Odissea 2001”, il terrore di “Alien” è tutt’altra cosa e manca la gloria di “Guerre Stellari”. Quello che non manca sono gli effetti speciali, realizzati talmente bene che quasi ti annoi e se ti annoi pensi ad altro e se pensi ad altro ti viene la nostalgia per i film in bianco e nero degli anni ‘50, quando la mancanza assoluta di elettronica faceva fare gli straordinari all’immaginazione e vedere un film di fantascienza era come leggere un Urania con il sonoro.
“Il pianeta proibito”, “L’astronave del dottor Quatermass”, “Il giorno dei trifidi” “Occhi bianchi sul pianeta terra”… pura ingenuità prodotta con pochi dollari, trame che spesso non stavano in piedi, attori sacrificabili e, soprattutto, nessuna campagna pubblicitaria. I produttori non si prendevano responsabilità. Se il film non ti piaceva, peggio per te: nessuno ti aveva detto di andarlo a vedere. Adesso, invece spendono in promozione quasi quanto spendono in produzione. I film come “La guerra dei mondi” non sono più film, ma eventi con fall out di marketing intorno. Tutto bene se le promesse vengono rispettate, ma se mi convinci a venire a vederti, poi non devi deludermi. E con “La guerra dei mondi” manca davvero poco al tradimento. C’è Tom Cruise che fa il suo lavoro, c’è Spielberg che non sbaglia e c’è tensione. Ma Tom Cruise ha fatto di meglio nella sua vita, Spielberg ha fatto molto di meglio e per quanto riguarda la tensione, tutto sommato ce n’è anche nello spot TV di Lycia doccia, quando ti chiedi se la modella svestita si girerà o non si girerà. Come dire che quasi quasi vale la pena stare a casa a guardare la TV. Comunque anch’io non mi prendo responsabilità: la modella non si gira.
La morte sospesa
A Joe Simpson bisognerebbe sparare con un fucile calibro 12. Poi occorrerebbe cremare il corpo, quindi versare le ceneri in un vaso pieno di Viacal e riporle nello sterilizzatore a raggi U.V. del dentista. Ma anche così non avreste la certezza che l’alpinista Simpson sia effettivamente morto, perché il trattamento descritto è risibile rispetto all’avventura dalla quale è tornato nel 1985 e che ha prima raccontato nel suo libro “La morte sospesa”, Vivalda, I licheni, 1993 e poi sceneggiato e interpretato nel film omonimo uscito recentemente.
Il libro è da leggere? Sì, senza aspettare un minuto. Il film è da vedere? Sì, e se aspettate ancora un po’ non lo troverete più.
È un film di montagna, ma potrete apprezzarlo anche se le montagne vi fanno senso, perché è anche un film sulla vita dopo la morte. Infatti Simpson muore più di una volta nel corso della discesa dalla cima del Siula Grande, un seimila dell’America del sud e ha la sfiga di reincarnarsi ogni volta in se stesso, ferito, assiderato, disidratato, decomposto.
La tecnica del regista Kevin Macdonald prevede inserti con i reali protagonisti intervistati in studio. Una scelta narrativa che all’inizio spaventa un po’, perché pensi di aver beccato un documentario, ma poi si rivela sopportabile. Anzi, vedere il volto del Simpson di oggi, vivo e dotato di occhi, naso, orecchie e capacità di parlare, crea un interessante contrasto con il Simpson distrutto sulle Ande.
“La morte sospesa” è anche un film sul rapporto che lega due compagni di cordata, un rapporto che è fatto di atteggiamenti e sentimenti fuori moda come fiducia, amicizia, silenzi. È anche uno straordinario film fotografico, con riprese aeree che provocano vuoti di stomaco e endoscopie del fondo di crepacci che ti iniettano angoscia pura nelle vene. Un film che non ti strappa un sorriso che sia uno, ma che ti riempie lo zaino di emozioni e ti consente di ricominciare a respirare solo alla fine. “La morte sospesa” è uscito da poco, ma è già relegato nei cineforum. Una discriminazione verso il cinema di montagna? Certo che no. Se la montagna riempisse le casse dei cinema vedremmo solo cime e valli sullo schermo. Il problema della montagna è che al massimo riempie l’anima, che è un contenitore molto meno importante.
Il libro è da leggere? Sì, senza aspettare un minuto. Il film è da vedere? Sì, e se aspettate ancora un po’ non lo troverete più.
È un film di montagna, ma potrete apprezzarlo anche se le montagne vi fanno senso, perché è anche un film sulla vita dopo la morte. Infatti Simpson muore più di una volta nel corso della discesa dalla cima del Siula Grande, un seimila dell’America del sud e ha la sfiga di reincarnarsi ogni volta in se stesso, ferito, assiderato, disidratato, decomposto.
La tecnica del regista Kevin Macdonald prevede inserti con i reali protagonisti intervistati in studio. Una scelta narrativa che all’inizio spaventa un po’, perché pensi di aver beccato un documentario, ma poi si rivela sopportabile. Anzi, vedere il volto del Simpson di oggi, vivo e dotato di occhi, naso, orecchie e capacità di parlare, crea un interessante contrasto con il Simpson distrutto sulle Ande.
“La morte sospesa” è anche un film sul rapporto che lega due compagni di cordata, un rapporto che è fatto di atteggiamenti e sentimenti fuori moda come fiducia, amicizia, silenzi. È anche uno straordinario film fotografico, con riprese aeree che provocano vuoti di stomaco e endoscopie del fondo di crepacci che ti iniettano angoscia pura nelle vene. Un film che non ti strappa un sorriso che sia uno, ma che ti riempie lo zaino di emozioni e ti consente di ricominciare a respirare solo alla fine. “La morte sospesa” è uscito da poco, ma è già relegato nei cineforum. Una discriminazione verso il cinema di montagna? Certo che no. Se la montagna riempisse le casse dei cinema vedremmo solo cime e valli sullo schermo. Il problema della montagna è che al massimo riempie l’anima, che è un contenitore molto meno importante.
Sin City
Per chiunque, francesi e manager giapponesi a parte, è più economico riconoscere la superiorità altrui piuttosto che sbatterci contro. Ecco perché dal 1° giugno la Torcia Umana, Mister Fantastic e la Cosa stanno usando i loro super poteri per convincere quelli della Fox a bloccare l’uscita de “I Fantastici Quattro” prevista per settembre. Vogliono evitare che venga comparato con Sin City. Hanno immediatamente realizzato che nessuna opera del filone “da fumetto a film”, del passato del presente o del futuro, è in grado di reggere il confronto con Sin City.
Superman, Batman e Uomo Ragno stanno a Sin City come il Subbuteo sta a Pro Evolution soccer 4 per Play Station2. (Prova a segnare un gol in rovesciata con il Subbuteo e a rivederlo da 5 angolazioni diverse se sei capace).
Se a questo punto resta poco spazio per parlare del film è perché il film è da vedere. Con l’avvertenza che è crudo come il sushi e che non lascia in pace lo stomaco fino alla fine. Quasi in bianco e nero, (ma che bianco e nero!) in Sin City gli attori sono disegnati dalla tripla regia di Robert Rodriguez, Frank Miller (che è l’autore dei fumetti di Sin City, la città del peccato) e Quentin Tarantino che non può mancare dove il sangue cola bianco come neve. La mano di Tarantino è persino riconoscibile qua e là, ad esempio quando un lupo fa un certo tipo di pasto. Gli attori, per quel che servono, sono perfetti. Elijah Wood, molto più noto come Frodo nel Signore degli Anelli, merita applausi anche se non cambia mai espressione. Mickey Rourke, invece, è talmente truccato che la sua parte poteva essere tranquillamente affidata a Christian De Sica, che non avrebbe sfigurato. Bellissima Jessica Alba, (ci si potrebbe accontentare di essere la sua pedicure) oltre che furbissima. Infatti in Sin City è la ragazzina protetta dal detective Hartigan, (il Bruce Willis che hai sempre sognato) mentre nei Fantastici Quattro, Jessica è la donna invisibile.
Grande anche Clive Owen, recentemente incontrato in “Closer”. Ma là faceva la figura del pesce persico, mentre in Sin City sono tutti eroi straffichi, anche i cattivi. C’è da chiedersi perché il super cattivo Yellow Bastard assomigli così tanto a Quark di Star Trek, ma durante il film non ci pensi due volte perché la tensione generata è tale che le pagine si sfogliano troppo veloci. Come quando trovi in edicola il tuo fumetto preferito, Sin City lo assumi per immagini e solo quando la sete di emozioni è placata ti permetti di ricominciare leggendo i testi. Pare che Rodriguez sia già al lavoro per realizzare il seguito. Se è vero, aspettiamolo. Sin City 2 sarà l’unico termine di paragone per Sin City.
Superman, Batman e Uomo Ragno stanno a Sin City come il Subbuteo sta a Pro Evolution soccer 4 per Play Station2. (Prova a segnare un gol in rovesciata con il Subbuteo e a rivederlo da 5 angolazioni diverse se sei capace).
Se a questo punto resta poco spazio per parlare del film è perché il film è da vedere. Con l’avvertenza che è crudo come il sushi e che non lascia in pace lo stomaco fino alla fine. Quasi in bianco e nero, (ma che bianco e nero!) in Sin City gli attori sono disegnati dalla tripla regia di Robert Rodriguez, Frank Miller (che è l’autore dei fumetti di Sin City, la città del peccato) e Quentin Tarantino che non può mancare dove il sangue cola bianco come neve. La mano di Tarantino è persino riconoscibile qua e là, ad esempio quando un lupo fa un certo tipo di pasto. Gli attori, per quel che servono, sono perfetti. Elijah Wood, molto più noto come Frodo nel Signore degli Anelli, merita applausi anche se non cambia mai espressione. Mickey Rourke, invece, è talmente truccato che la sua parte poteva essere tranquillamente affidata a Christian De Sica, che non avrebbe sfigurato. Bellissima Jessica Alba, (ci si potrebbe accontentare di essere la sua pedicure) oltre che furbissima. Infatti in Sin City è la ragazzina protetta dal detective Hartigan, (il Bruce Willis che hai sempre sognato) mentre nei Fantastici Quattro, Jessica è la donna invisibile.
Grande anche Clive Owen, recentemente incontrato in “Closer”. Ma là faceva la figura del pesce persico, mentre in Sin City sono tutti eroi straffichi, anche i cattivi. C’è da chiedersi perché il super cattivo Yellow Bastard assomigli così tanto a Quark di Star Trek, ma durante il film non ci pensi due volte perché la tensione generata è tale che le pagine si sfogliano troppo veloci. Come quando trovi in edicola il tuo fumetto preferito, Sin City lo assumi per immagini e solo quando la sete di emozioni è placata ti permetti di ricominciare leggendo i testi. Pare che Rodriguez sia già al lavoro per realizzare il seguito. Se è vero, aspettiamolo. Sin City 2 sarà l’unico termine di paragone per Sin City.
Star Wars episodio III
“Mando, ti è piaciuto?”
“…”
“Allora ti è piaciuto sì o no?”
“Ma se mi sono addormentato!”
Ad Armando non è piaciuto molto. Per un bambino di sette anni, 141 minuti di film, dei quali almeno la metà lenti, bui, e pieni di dialoghi (che in confronto andare a scuola è come partecipare a Zelig) sono davvero troppi.
Per Alessandro e Alberto le cose vanno meglio. Non hanno dormito e hanno capito tutto.
Anch’io ho capito una cosa: che il destino esiste e non puoi opporti. Anakin Skywalker in verità si impegna e ci prova, ma poiché deve per forza diventare il temibile e potente Darth Vader, (o Dart Fener) non ha nessuna possibilità di scelta tra bene e male. È già tutto scritto. Non nelle stelle, che tra l’altro sono richiamate in guerra, e nemmeno nella storia, ma nella sceneggiatura di George Lucas uscita da una stampante ad aghi nel 1976.
Evidentemente ad un film così chiuso tra un passato da sviluppare e un futuro sul quale sono pronti a giurare milioni di testimoni, manca uno degli aspetti più interessanti, “il come andrà a finire”, che non è poco. Sai praticamente tutto. Mancano alcuni particolari e alcune conferme che Lucas distribuisce bene nelle due ore e un pezzo. Peccato che per i dialoghi si sia fatto aiutare da quelli di Beautiful. Non mancano gli effetti speciali e resta il piacere di vedere Natalie Portman, la star bella come il Sole, Alpha Centauri e Proxima Centauri messe insieme, ma che, per qualche oscuro motivo (forse la Forza), quando è la principessa Padmé Amidala non smuove divisioni di ormoni come in altre occasioni. Resta il piacere di esserci e di poter dire “sono sopravvissuto a guerra fredda, torri gemelle, AIDS, malattie e altro (mica tutti ci sono riusciti) e sono qui a vedere il cerchio che si chiude”. Questo è bello. Ma soprattutto è bello correre a casa per aprire qualche vecchio scatolone, trovare la VHS di Guerre Stellari, e correre indietro di trent’anni per vedere il futuro con nostalgia.
“…”
“Allora ti è piaciuto sì o no?”
“Ma se mi sono addormentato!”
Ad Armando non è piaciuto molto. Per un bambino di sette anni, 141 minuti di film, dei quali almeno la metà lenti, bui, e pieni di dialoghi (che in confronto andare a scuola è come partecipare a Zelig) sono davvero troppi.
Per Alessandro e Alberto le cose vanno meglio. Non hanno dormito e hanno capito tutto.
Anch’io ho capito una cosa: che il destino esiste e non puoi opporti. Anakin Skywalker in verità si impegna e ci prova, ma poiché deve per forza diventare il temibile e potente Darth Vader, (o Dart Fener) non ha nessuna possibilità di scelta tra bene e male. È già tutto scritto. Non nelle stelle, che tra l’altro sono richiamate in guerra, e nemmeno nella storia, ma nella sceneggiatura di George Lucas uscita da una stampante ad aghi nel 1976.
Evidentemente ad un film così chiuso tra un passato da sviluppare e un futuro sul quale sono pronti a giurare milioni di testimoni, manca uno degli aspetti più interessanti, “il come andrà a finire”, che non è poco. Sai praticamente tutto. Mancano alcuni particolari e alcune conferme che Lucas distribuisce bene nelle due ore e un pezzo. Peccato che per i dialoghi si sia fatto aiutare da quelli di Beautiful. Non mancano gli effetti speciali e resta il piacere di vedere Natalie Portman, la star bella come il Sole, Alpha Centauri e Proxima Centauri messe insieme, ma che, per qualche oscuro motivo (forse la Forza), quando è la principessa Padmé Amidala non smuove divisioni di ormoni come in altre occasioni. Resta il piacere di esserci e di poter dire “sono sopravvissuto a guerra fredda, torri gemelle, AIDS, malattie e altro (mica tutti ci sono riusciti) e sono qui a vedere il cerchio che si chiude”. Questo è bello. Ma soprattutto è bello correre a casa per aprire qualche vecchio scatolone, trovare la VHS di Guerre Stellari, e correre indietro di trent’anni per vedere il futuro con nostalgia.
Le crociate
Ridley Scott possiede una carta di credito revolving con un fido sconfinato: Alien, Blade Runner, Thelma & Louise, Il gladiatore, Black Hawk Down… per questo, se anche sbaglia un film, ha credito a sufficienza per rimanere un Grande. In realtà non ha sbagliato nemmeno “Le Crociate”. Però lo ha mancato. Aveva l’occasione per fare chiarezza e lanciare qualche verità storica, magari non piacevole per la Chiesa, ma l’ha insabbiata nel deserto della Palestina. Oliver Stone o Michel Moore avrebbero forse colto l’occasione per dire qualcosa di nuovo, per costruire uno di quei film che ti fanno incazzare perché senti l’arroganza del potere che soffoca l’intelligenza come “Insider” di Michael Mann, con Al Pacino e Russel Crowe, per esempio.
Insomma, questi crociati erano santi o assassini? Combattevano per la religione o per il potere? Anche se si tratta di delitti di mille anni fa non è detto che non ci riguardino. Invece dopo il film ne sappiamo quanto prima. Ridley Scott sceglie la modalità “spettacolo” e mette in scena una storia basata su rancori e amori, eroi e strategia bellica, sfiorando i temi politici e senza prendere posizione tra indiani e cow-boy. Il personaggio principale non aiuta a chiarire i dubbi: Baliano è un cavaliere fortemente sfigato che diventa un eroe. Lo interpreta Orlando Bloom, che fu già l’elfo Legolas nel Signore degli Anelli, allegro come un sarcofago sia qua che là. C’è anche la donna del vincitore, la principessa Sibilla, (Eva Green) che non serve assolutamente a niente nella storia, ma esce bene nelle locandine. Vere protagoniste sono comunque le battaglie. Tante, lunghe, cruente, spettacolari, sanguinose e confuse come vere, autentiche battaglie. Peccato che mancasse quella per la verità.
Insomma, questi crociati erano santi o assassini? Combattevano per la religione o per il potere? Anche se si tratta di delitti di mille anni fa non è detto che non ci riguardino. Invece dopo il film ne sappiamo quanto prima. Ridley Scott sceglie la modalità “spettacolo” e mette in scena una storia basata su rancori e amori, eroi e strategia bellica, sfiorando i temi politici e senza prendere posizione tra indiani e cow-boy. Il personaggio principale non aiuta a chiarire i dubbi: Baliano è un cavaliere fortemente sfigato che diventa un eroe. Lo interpreta Orlando Bloom, che fu già l’elfo Legolas nel Signore degli Anelli, allegro come un sarcofago sia qua che là. C’è anche la donna del vincitore, la principessa Sibilla, (Eva Green) che non serve assolutamente a niente nella storia, ma esce bene nelle locandine. Vere protagoniste sono comunque le battaglie. Tante, lunghe, cruente, spettacolari, sanguinose e confuse come vere, autentiche battaglie. Peccato che mancasse quella per la verità.
Gioco di donna
Il titolo originale è “Head in the Clouds” che non sarebbe male, equivale al nostro “La testa fra le nuvole”. Perché allora l’italiano “gioco di donna”, che suona così diverso? Un’altra domanda: avete visto il trailer in TV, quello con la voce fuori campo, che presenta il film come una intensa storia d’amore tra due donne? Ecco, la risposta è tutta lì: i furbacchioni del marketing della Moviemax e lo scaltro distributore italiano hanno pensato bene di pescare nel laghetto delle trote d’allevamento dove sguazzano banchi di consumatori perennemente affamati di .mpg categoria “lesbian”. Il gioco è facile: prendi l’amo Penelope Cruz, ci attacchi l’esca Charlize Theron (è la modella Martini di qualche anno fa, quella che si alzava da una sedia e un filo del suo miniabito la denudava per 30 secondi) e tiri su quintali di boccheggianti avanotteri con il mouse in mano e la memoria di Explorer farcita di url imbarazzanti.
Fin qui tutto bene, perché quando la promessa è una meraviglia come la Charlize Theron naufragare è più che dolce. Il brutto arriva quando, a tre quarti di film, capisci che non di “lesbian” si tratta e nemmeno di “teen” o “brunette”. “Gioco di donna” è un film che parla di una donna con la testa tra le nuvole, una che correttamente pensa a se stessa prima che agli altri, che poi si pente e decide di dedicare la propria vita ad una causa. E l’intensa storia d’amore tra due donne dov’è? C’è, ma è tutta in una frase detta in un pagliaio da Penelope Cruz a quella bella faccia da Girarrosto Santa Rita di Stuart Townsend: “Sai che siamo state amanti?”
Sai che siamo state amanti? Sai che siamo state amanti? Ma dillo a tua sorella! che se il film fosse piratato sarebbe solo una fregatura, ma avendo pagato il biglietto è un reato, per la precisione una truffa! Non si può promettere una cosa in pubblicità e poi consegnarne un’altra.
Se uno lo sapesse, prenderebbe la strada fino a fino a Ivrea per vedere un film lungo, lento e mal fatto sui capricci di una giovane donna e sulla resistenza francese? Ma non finisce qui. La vendetta è parlarne male, ma così male che le sale risultino deserte, le casse dei cine vadano in rosso e la carrozzeria dell’auto del distributore italiano - speriamo che qualcuno sappia dove la tiene - finisca rigata.
Fin qui tutto bene, perché quando la promessa è una meraviglia come la Charlize Theron naufragare è più che dolce. Il brutto arriva quando, a tre quarti di film, capisci che non di “lesbian” si tratta e nemmeno di “teen” o “brunette”. “Gioco di donna” è un film che parla di una donna con la testa tra le nuvole, una che correttamente pensa a se stessa prima che agli altri, che poi si pente e decide di dedicare la propria vita ad una causa. E l’intensa storia d’amore tra due donne dov’è? C’è, ma è tutta in una frase detta in un pagliaio da Penelope Cruz a quella bella faccia da Girarrosto Santa Rita di Stuart Townsend: “Sai che siamo state amanti?”
Sai che siamo state amanti? Sai che siamo state amanti? Ma dillo a tua sorella! che se il film fosse piratato sarebbe solo una fregatura, ma avendo pagato il biglietto è un reato, per la precisione una truffa! Non si può promettere una cosa in pubblicità e poi consegnarne un’altra.
Se uno lo sapesse, prenderebbe la strada fino a fino a Ivrea per vedere un film lungo, lento e mal fatto sui capricci di una giovane donna e sulla resistenza francese? Ma non finisce qui. La vendetta è parlarne male, ma così male che le sale risultino deserte, le casse dei cine vadano in rosso e la carrozzeria dell’auto del distributore italiano - speriamo che qualcuno sappia dove la tiene - finisca rigata.
Sahara
Bisognerebbe parlare male di questo film che non fa neanche venire sete. Basta sapere che è tratto da un romanzo di Clive Cussler. Spero che nessuno sappia chi è. Io, che da perfetto ignorante spesso scelgo un libro sulla base della copertina, ho purtroppo letto 2 - dico 2 - romanzi del su menzionato. In entrambi e in altri 5 o 6 che non leggerò, il protagonista è Dirk Pitt, il figlio nato dalla fecondazione assistita, dopo matrimonio omosessuale tra James Bond e Indiana Jones, con Rambo donatore di riserva.
Anche in “Sahara”, Dirk Pitt è un eroe bello, simpatico, ricco, coraggioso, fortunato e americano, che si occupa di portare a casa missioni impossibili. Dirk Pitt è sempre accompagnato da Al Giordino, che nel film ti strappa qualche sana risata. Interpretato da Steve Zhan ha il pregio di un’espressività notevole e ti fa ridere anche se vuoi tenere il broncio.
Bisognerebbe parlar male di questo film che non fa venir sete, ma poiché non si prende sul serio, si fa perdonare di esistere. Diversamente dai seriosi eroi che si muovono nelle pagine di Clive Cussler, nel film i personaggi affermano e vengono smentiti immediatamente, fanno cose impossibili, che gli vanno male, dicono assurdità, ma non ci credono nemmeno loro. Il merito credo vada attribuito a Breck Eisner, il regista, che ha messo nella macchina da presa una overdose di ironia.
Dick Pitt è Matthew McConaughey, un’ottima scelta: una bella faccia che abbiamo già visto qualche anno fa vice comandante del sommergibile U-571. Penelope Cruz nelle vesti di un medico dell’O.M.S. è lì solo perché la produzione è spagnola. Perfino la Bellucci avrebbe lasciato un’impronta più spessa nella sabbia. Bisognerebbe parlar male di questo film che tenta anche di proporre un argomento serio come l’inquinamento da scorie tossiche, ma non sarebbe giusto accanirsi. In fondo ti regala due ore di tensione di buona qualità, lo capisci perché non sapresti dire se lo schienale della tua poltroncina è di legno o è imbottito. Più che parlar male di questo film bisognerebbe vederne degli altri e parlare di quelli, ma qui in provincia aspettare che arrivi qualche pellicola un po’ più su di Sahara è un vero miraggio.
Anche in “Sahara”, Dirk Pitt è un eroe bello, simpatico, ricco, coraggioso, fortunato e americano, che si occupa di portare a casa missioni impossibili. Dirk Pitt è sempre accompagnato da Al Giordino, che nel film ti strappa qualche sana risata. Interpretato da Steve Zhan ha il pregio di un’espressività notevole e ti fa ridere anche se vuoi tenere il broncio.
Bisognerebbe parlar male di questo film che non fa venir sete, ma poiché non si prende sul serio, si fa perdonare di esistere. Diversamente dai seriosi eroi che si muovono nelle pagine di Clive Cussler, nel film i personaggi affermano e vengono smentiti immediatamente, fanno cose impossibili, che gli vanno male, dicono assurdità, ma non ci credono nemmeno loro. Il merito credo vada attribuito a Breck Eisner, il regista, che ha messo nella macchina da presa una overdose di ironia.
Dick Pitt è Matthew McConaughey, un’ottima scelta: una bella faccia che abbiamo già visto qualche anno fa vice comandante del sommergibile U-571. Penelope Cruz nelle vesti di un medico dell’O.M.S. è lì solo perché la produzione è spagnola. Perfino la Bellucci avrebbe lasciato un’impronta più spessa nella sabbia. Bisognerebbe parlar male di questo film che tenta anche di proporre un argomento serio come l’inquinamento da scorie tossiche, ma non sarebbe giusto accanirsi. In fondo ti regala due ore di tensione di buona qualità, lo capisci perché non sapresti dire se lo schienale della tua poltroncina è di legno o è imbottito. Più che parlar male di questo film bisognerebbe vederne degli altri e parlare di quelli, ma qui in provincia aspettare che arrivi qualche pellicola un po’ più su di Sahara è un vero miraggio.
Amore senza fine
Amazon ce l’ha nella versione originale “Endless love”. In libreria, invece, non ho trovato traccia di “Amore senza fine” di Scott Spencer, Mondatori 1980, e la commessa, che mi dice con orgoglio di non averlo mai sentito nominare, ha l’aria di una che dell’amore non ha visto neppure l’inizio. Pare che sia fuori catalogo. Le possibilità di procurarselo sono dunque legate alla disponibilità nelle biblioteche comunali. Io l’ho trovato in casa e mi sono preso la cotta passando nei pressi della libreria del soggiorno. Un titolo del genere avrebbe dovuto tenermi alla larga, ma l’ho aperto ugualmente ed è stata l’ultima cosa che ho fatto nella mia vita da cinico. Procuratevelo e provate anche voi, è facile: CTRL X e ti taglia via dalla tua vita; CTRL V e ti incolla in quella di David, il protagonista del romanzo, quello che a diciassette anni incendia la casa della fidanzata per apparire poi come il suo salvatore. Durante la lettura non c’è modo di fare ESC. Vale a dire che non si può smettere di essere l’ombra di David. Spencer ha una scrittura che definirei grassa, quella che ti spiega un concetto in modo chiarissimo, esemplare, poi però non si accontenta del risultato, che è la comprensione, e ti condisce i fatti con alcuni, piccoli, burrosi particolari, che ti toccano dove sei sensibile e ti fanno capire che il libro sta parlando proprio con te.
E così ritrovi sentimenti che avevi dimenticato nel congelatore, passioni di cui avevi perso memoria e ricordi che vivevano sbiaditi in attesa di resurrezione.
Zeffirelli ha pensato di trarne un film nel 1981, con Brooke Shields nella parte di Jade. Non ne so niente, ma le recensioni che ho trovato in rete consigliano di starne alla larga. Invece se capita lo vedrò, perché il bisogno di rientrare ancora in quel mondo, dal quale l’ultima pagina con la parola fine mi ha espulso, è ancora forte una settimana dopo.
Anche il sesso non manca. In“Amore senza fine” ce ne sono almeno dieci pagine consecutive, nelle quali Spencer non risparmia nessun particolare e che, a differenza di tutte le pagine erotiche che ho incontrato - tranne forse quelle di Henry Miller in Tropico del Cancro - non imbarazzano per la banalità delle situazioni e lo squallore delle parole utilizzate. Qui il sesso è nudo, ma tu, lettore, ti senti a tuo agio perché Spencer, Dio lo benedica, a letto ti ci porta dopo 300 pagine di preliminari, quando non ne puoi più. E qui si misura l’abilità dello scrittore: Spencer non ti assegna la triste parte del voyeur, bensì quella del glorioso protagonista. Accettarla è obbligatorio e quando il libro finisce, soffrire è automatico.
E così ritrovi sentimenti che avevi dimenticato nel congelatore, passioni di cui avevi perso memoria e ricordi che vivevano sbiaditi in attesa di resurrezione.
Zeffirelli ha pensato di trarne un film nel 1981, con Brooke Shields nella parte di Jade. Non ne so niente, ma le recensioni che ho trovato in rete consigliano di starne alla larga. Invece se capita lo vedrò, perché il bisogno di rientrare ancora in quel mondo, dal quale l’ultima pagina con la parola fine mi ha espulso, è ancora forte una settimana dopo.
Anche il sesso non manca. In“Amore senza fine” ce ne sono almeno dieci pagine consecutive, nelle quali Spencer non risparmia nessun particolare e che, a differenza di tutte le pagine erotiche che ho incontrato - tranne forse quelle di Henry Miller in Tropico del Cancro - non imbarazzano per la banalità delle situazioni e lo squallore delle parole utilizzate. Qui il sesso è nudo, ma tu, lettore, ti senti a tuo agio perché Spencer, Dio lo benedica, a letto ti ci porta dopo 300 pagine di preliminari, quando non ne puoi più. E qui si misura l’abilità dello scrittore: Spencer non ti assegna la triste parte del voyeur, bensì quella del glorioso protagonista. Accettarla è obbligatorio e quando il libro finisce, soffrire è automatico.
Million dollar baby
Bisognerebbe vedere solo film della mutua, perché scrivere di film che meritano è molto più difficile. Per “Million dollar baby”, infatti, mancano i termini. “Bello”? “Consigliabile”? “Commovente”? “Ben fatto”? “Ohhhhh”? Come si fa a descrivere con le parole un film che si vede con la pancia? Proviamoci, ma senza contarci molto. Cominciamo dalle luci. In genere le luci basse, che nascondono angoli di scenografia fanno pensare più a un direttore della fotografia diplomato alla scuola Radio Elettra che a una scelta artistica. Invece in Million dollar baby la luce fredda e avara è un segnale che ti dice: “Guarda che sei ancora in tempo a cambiare sala, di là sta per cominciare “Manuale d’amore” con la Litizzetto”.
Potrebbe essere un buon consiglio perché la differenza tra le due sale è divertirsi o soffrire. Anche la palestra governata da un vecchio Norman Freeman (oscar), squallida e mal tenuta ti induce a tenerti alla larga. Ma tu scegli di entrare e sei accontentato. Clint Eastwood (oscar) ti prende sulle ginocchia ossute da 37 anni ciascuna e comincia a incantarti come un suonatore di piffero. Perché è bella la storia che racconta., la stravolgente Hilary Swank (oscar) è Maggie, una ragazza che vuole diventare campionessa di boxe. Ne abbiamo visti tanti di sogni americani in pellicola, che siamo in grado di giudicare se funzionano. Ma Million dollar baby non è un sogno normale. Improvvisamente Eastwood devia dalla strada senza mettere la freccia e parte di corsa in salita, Sei andato a vedere “Manuale d’amore”? No? Allora beccati questo Nightmare senza Mister Kruger. Non puoi nemmeno andartene, perché nel frattempo ti sei innamorato (come amante o come padre, non so) di Maggie. Se la abbandoni sei un verme. E poi devi sapere come andrà a finire. Sullo schermo finisce come dicono nelle pagine di spettacolo dei giornali. In platea finisce con gli occhi umidi e con un gran vuoto allo stomaco. Se fossi a teatro te ne libereresti con un applauso da far male alle mani. Ma al cinema guardi lo schermo nero e te lo tieni tutto dentro.
Potrebbe essere un buon consiglio perché la differenza tra le due sale è divertirsi o soffrire. Anche la palestra governata da un vecchio Norman Freeman (oscar), squallida e mal tenuta ti induce a tenerti alla larga. Ma tu scegli di entrare e sei accontentato. Clint Eastwood (oscar) ti prende sulle ginocchia ossute da 37 anni ciascuna e comincia a incantarti come un suonatore di piffero. Perché è bella la storia che racconta., la stravolgente Hilary Swank (oscar) è Maggie, una ragazza che vuole diventare campionessa di boxe. Ne abbiamo visti tanti di sogni americani in pellicola, che siamo in grado di giudicare se funzionano. Ma Million dollar baby non è un sogno normale. Improvvisamente Eastwood devia dalla strada senza mettere la freccia e parte di corsa in salita, Sei andato a vedere “Manuale d’amore”? No? Allora beccati questo Nightmare senza Mister Kruger. Non puoi nemmeno andartene, perché nel frattempo ti sei innamorato (come amante o come padre, non so) di Maggie. Se la abbandoni sei un verme. E poi devi sapere come andrà a finire. Sullo schermo finisce come dicono nelle pagine di spettacolo dei giornali. In platea finisce con gli occhi umidi e con un gran vuoto allo stomaco. Se fossi a teatro te ne libereresti con un applauso da far male alle mani. Ma al cinema guardi lo schermo nero e te lo tieni tutto dentro.
Neverland
Puoi commuoverti al cinema e poi dire che il film vale niente? Non puoi. E allora anche se uomo, anche se adulto, anche se laico e sufficientemente cinico, ammetti che Neverland ti ha fatto venire gli occhi lucidi.
C’è da chiedersi se procurare lacrime sia un valore per un film. Lo è? Se al cinema ci vai per consumare pop corn no, ma se cerchi emozioni la risposta è sì. Le lacrime valgono quanto le risate o la paura, l’ansia o la tensione. Puoi persino distinguere tra lacrime di gusto e lacrime di cortesia. Le prime sono quelle spontanee e copiose che ti prendono alla sprovvista, che non puoi neanche dire se il fim ti è piaciuto o no e ti limiti a muovere la testa per annuire (lentamente, se no cascano giù) e sono lacrime riservate per certi capolavori; butto lì: “luci della città”. Per le seconde il cinema è invece un’ottima occasione di cui approfittare per sbarazzarsi senza vergogna e al buio di certi dolori personali.
Non saprei dire il grado di potenza lacrimogena di Neverland, e passerei al film. Vediamo se c’è qualcosa che non va. Sì, c’è: Dustin Hoffman. Perché scomodare il maratoneta laureato per una parte piccola piccola? Niente da dire sulla sua interpretazione, ma bastava Pippo Franco. Chiunque avrebbe potuto recitare con qualità quelle poche battute che il copione riserva al personaggio.
Per tutto il resto non si può che dire bene. Bene i 4 bambini protagonisti, in particolare benissimo il piccolo Peter. Finalmente un bambino brutto sullo schermo dopo la figlia di Fantozzi. Si chiama Freddie Highmore e ha orecchie ed espressione imbarazzanti. Eppure forse proprio perché bruttino (ma certamente anche perché bravino) è il catalizzatore che ti fa inumidire gli occhi alla fine. Le donne sono due: Rhada Mitchell, la moglie uscente del protagonista, bona, e Kate Winslet, madre dei 4 brutti anatroccoli e aspirante nuova moglie del protagonista, nonché “Rose” di Titanic. Molto bona anche lei.
Il protagonista è Johnny Depp (molto bravo Johnny Deep. Piaci, anche se hai superato i 40 e quindi svegliarsi accanto a te la mattina, senza il trucco forse non è un’esperienza stupenda per la tua signora). In Neverland, Deep impersona J.M.Barrie, l’autore della commedia Peter Pan e il film è proprio la genesi della sua opera. Una trama debole debole, detta così e ti chiedi se davvero non ci si può sforzare di più per mettere insieme un’idea decente. Ma se non date retta a tutte queste sciocchezze e andate a vedere il film senza essere prevenuti potrete giudicare
C’è da chiedersi se procurare lacrime sia un valore per un film. Lo è? Se al cinema ci vai per consumare pop corn no, ma se cerchi emozioni la risposta è sì. Le lacrime valgono quanto le risate o la paura, l’ansia o la tensione. Puoi persino distinguere tra lacrime di gusto e lacrime di cortesia. Le prime sono quelle spontanee e copiose che ti prendono alla sprovvista, che non puoi neanche dire se il fim ti è piaciuto o no e ti limiti a muovere la testa per annuire (lentamente, se no cascano giù) e sono lacrime riservate per certi capolavori; butto lì: “luci della città”. Per le seconde il cinema è invece un’ottima occasione di cui approfittare per sbarazzarsi senza vergogna e al buio di certi dolori personali.
Non saprei dire il grado di potenza lacrimogena di Neverland, e passerei al film. Vediamo se c’è qualcosa che non va. Sì, c’è: Dustin Hoffman. Perché scomodare il maratoneta laureato per una parte piccola piccola? Niente da dire sulla sua interpretazione, ma bastava Pippo Franco. Chiunque avrebbe potuto recitare con qualità quelle poche battute che il copione riserva al personaggio.
Per tutto il resto non si può che dire bene. Bene i 4 bambini protagonisti, in particolare benissimo il piccolo Peter. Finalmente un bambino brutto sullo schermo dopo la figlia di Fantozzi. Si chiama Freddie Highmore e ha orecchie ed espressione imbarazzanti. Eppure forse proprio perché bruttino (ma certamente anche perché bravino) è il catalizzatore che ti fa inumidire gli occhi alla fine. Le donne sono due: Rhada Mitchell, la moglie uscente del protagonista, bona, e Kate Winslet, madre dei 4 brutti anatroccoli e aspirante nuova moglie del protagonista, nonché “Rose” di Titanic. Molto bona anche lei.
Il protagonista è Johnny Depp (molto bravo Johnny Deep. Piaci, anche se hai superato i 40 e quindi svegliarsi accanto a te la mattina, senza il trucco forse non è un’esperienza stupenda per la tua signora). In Neverland, Deep impersona J.M.Barrie, l’autore della commedia Peter Pan e il film è proprio la genesi della sua opera. Una trama debole debole, detta così e ti chiedi se davvero non ci si può sforzare di più per mettere insieme un’idea decente. Ma se non date retta a tutte queste sciocchezze e andate a vedere il film senza essere prevenuti potrete giudicare
Il dolore perfetto
È Mondadori, ma sembra un Einaudi, con quel bianco stanco interrotto da una foto d’epoca, molto bella, che invita alla riflessione e ad una lettura attenta. Anche il modo di impaginare il titolo sa tanto di Einaudi. Il titolo stesso è ingannevole: “Il dolore perfetto” e così credi di avere in mano uno Struzzo, ma lo struzzo sei tu. L’autore è Ugo Riccarelli e la sua foto in bianco e nero nel risvolto di copertina è l’icona dello scrittore tipico: consapevole, infelice e insoddisfatto. Strano, perché con questo libro ha vinto il premio Strega 2004, che significa un sacco di copie vendute.
L’incipit è irresistibile e anche se lo leggi in piedi nel reparto libri dell’Ipercoop decidi che puoi regalarlo a persone intelligenti senza paura di sbagliare. Sarà poi noioso? Forse, ma è un Einaudi e uno spessore ce l’ha per forza.
Poi lo trovi in biblioteca e lo prendi in prestito. Ahia! Poche pagine e ti viene su una sensazione di dejà vu. Cosa ricorda? Garcia Marquez e i suoi cent’anni di solitudine, ecco cosa ricorda! Tutta la saga dei Buendia, ingarbugliati nei nomi, nelle parentele e negli incroci, li ritrovi tradotti da Riccarelli. Gli Aureliano e gli Arcadio qui si chiamano Ideale e Sole mentre Macondo da noi fa “Colle Alto”. Altro non saprei citare perché cent’anni di solitudine è lettura di almeno vent’anni fa. Ma la magia, la semina oculata di avvenimenti prodigiosi, l’atmosfera sospesa di cui sono sapientemente pervase le pagine di Riccarelli sono esattamente quelle di Marquez. O quelle di Jorge Amado nella sua “Guerra alla fine del mondo” o di Isabelle Allende in tutte le sue novelle, o di Osvaldo Soriano, o di Julio Cortazar… La lista potrebbe essere di qualche imbarazzo per Riccarelli il quale, a quasi cinquant’anni, scopre l’America (del sud) e tutti gli autori cari a chi leggeva un libro alla settimana ai tempi del colera. Ecco, diciamo che l’idea del “dolore perfetto” non è un’ invenzione che Riccarelli potrebbe brevettare. È comunque una storia molto ben scritta, che racconta la vita di due famiglie dall’inizio del secolo fino al dopoguerra, sull’argine del paludoso fiume Padule Lungo, nome tanto poetico da dar fastidio. Ma ha quel retrogusto amarognolo, tanto che se fosse ricotta comprata stamattina ti farebbe tornare dal lattaio di corsa per riavere i soldi e dirgliene quattro.
E così ti chiedi come la prenderà la persona intelligente a cui avevi regalato il libro a Natale. Forse non lo leggerà mai, perché -persona acuta- si accorgerà per tempo dell’inganno e facendo 2 + 2 non presterà fede ad una copertina che fa finta di essere un’altra.
L’incipit è irresistibile e anche se lo leggi in piedi nel reparto libri dell’Ipercoop decidi che puoi regalarlo a persone intelligenti senza paura di sbagliare. Sarà poi noioso? Forse, ma è un Einaudi e uno spessore ce l’ha per forza.
Poi lo trovi in biblioteca e lo prendi in prestito. Ahia! Poche pagine e ti viene su una sensazione di dejà vu. Cosa ricorda? Garcia Marquez e i suoi cent’anni di solitudine, ecco cosa ricorda! Tutta la saga dei Buendia, ingarbugliati nei nomi, nelle parentele e negli incroci, li ritrovi tradotti da Riccarelli. Gli Aureliano e gli Arcadio qui si chiamano Ideale e Sole mentre Macondo da noi fa “Colle Alto”. Altro non saprei citare perché cent’anni di solitudine è lettura di almeno vent’anni fa. Ma la magia, la semina oculata di avvenimenti prodigiosi, l’atmosfera sospesa di cui sono sapientemente pervase le pagine di Riccarelli sono esattamente quelle di Marquez. O quelle di Jorge Amado nella sua “Guerra alla fine del mondo” o di Isabelle Allende in tutte le sue novelle, o di Osvaldo Soriano, o di Julio Cortazar… La lista potrebbe essere di qualche imbarazzo per Riccarelli il quale, a quasi cinquant’anni, scopre l’America (del sud) e tutti gli autori cari a chi leggeva un libro alla settimana ai tempi del colera. Ecco, diciamo che l’idea del “dolore perfetto” non è un’ invenzione che Riccarelli potrebbe brevettare. È comunque una storia molto ben scritta, che racconta la vita di due famiglie dall’inizio del secolo fino al dopoguerra, sull’argine del paludoso fiume Padule Lungo, nome tanto poetico da dar fastidio. Ma ha quel retrogusto amarognolo, tanto che se fosse ricotta comprata stamattina ti farebbe tornare dal lattaio di corsa per riavere i soldi e dirgliene quattro.
E così ti chiedi come la prenderà la persona intelligente a cui avevi regalato il libro a Natale. Forse non lo leggerà mai, perché -persona acuta- si accorgerà per tempo dell’inganno e facendo 2 + 2 non presterà fede ad una copertina che fa finta di essere un’altra.
The aviator
La storia del cinema abbonda di grandi uomini, per lo più americani, come il grande Tuker o Howard Hughes. Individui geniali che coltivano sogni immensi. Grandi imprenditori che fanno girare il mondo e riescono a far lavorare gli altri con entusiasmo, fede e forza di volontà.
Anche se non sarebbe del tutto sbagliato abbatterli allo stadio placentare e disperderne le cellule staminali nel Seveso, taluni registi si ispirano a queste grandi Figure per girare film. Martin Scorsese, ad esempio, racconta la storia di Howard Hughes in “Aviator”, una pizza (leggi pellicola) farcita di bellissimi attori bravissimi, lungo appena 3 ore. Di Caprio fa bene quel che può, ma non è credibile con quella faccia da bambino naufrago. Nel cast fa un sacco piacere rivedere Alan Alda, il buon vecchio chirurgo protagonista dei telefilm “Mash”, nonché il perfido e sempre più adiposo Alec Baldwin. Qualcuno potrebbe intuire da queste note che il film è così così, ma non è vero: è solo lungo una mezza giornata di troppo. Sullo schermo vedi Di Caprio che delira nel buio per venti minuti e ti chiedi cosa hai fatto di male e cosa sia successo durante il montaggio. Allora immagini Martin Scorsese che deve fare i tagli al film e non ci riesce. Un po’ come se dovesse scolare la pasta: non trova le presine e quando le trova squilla il telefono e quando finalmente qualcuno mette la parola fine è tutto scotto.
Eppure grande successo in America dove “Aviator” ha vinto 3 golden globe e altri premi. Ottima critica anche in Italia dove viene raccomandato con 4 palline. In verità due palle sono più che sufficienti.
Anche se non sarebbe del tutto sbagliato abbatterli allo stadio placentare e disperderne le cellule staminali nel Seveso, taluni registi si ispirano a queste grandi Figure per girare film. Martin Scorsese, ad esempio, racconta la storia di Howard Hughes in “Aviator”, una pizza (leggi pellicola) farcita di bellissimi attori bravissimi, lungo appena 3 ore. Di Caprio fa bene quel che può, ma non è credibile con quella faccia da bambino naufrago. Nel cast fa un sacco piacere rivedere Alan Alda, il buon vecchio chirurgo protagonista dei telefilm “Mash”, nonché il perfido e sempre più adiposo Alec Baldwin. Qualcuno potrebbe intuire da queste note che il film è così così, ma non è vero: è solo lungo una mezza giornata di troppo. Sullo schermo vedi Di Caprio che delira nel buio per venti minuti e ti chiedi cosa hai fatto di male e cosa sia successo durante il montaggio. Allora immagini Martin Scorsese che deve fare i tagli al film e non ci riesce. Un po’ come se dovesse scolare la pasta: non trova le presine e quando le trova squilla il telefono e quando finalmente qualcuno mette la parola fine è tutto scotto.
Eppure grande successo in America dove “Aviator” ha vinto 3 golden globe e altri premi. Ottima critica anche in Italia dove viene raccomandato con 4 palline. In verità due palle sono più che sufficienti.
Cuochi, artisti, visionari
Se la vostra libreria ha uno scaffale dedicato alla montagna, potete riporre lì questo “Cuochi Artisti Visionari” di Paolo Paci. Paci presenta i monti che incontra lungo la strada, dalla Grigna fino al Badile, come se fossero compagni di scuola, una confidenza che deriva dall’averli visitati, arrampicati, accarezzati. Se però spostate il libro tra quelli dedicati alla cultura eno-gastronomica non sbagliate, perché quello è il posto suo: il libro è tutto ricerche, interviste, indagini, domande indiscrete e assaggi, soprattutto assaggi. Questi sono raccontati con una sorta di maliziosa cattiveria nei confronti del lettore: tra un pizzocchero e una brisaola, un quartirolo e una trotella di fiume preceduta da gnocchetti di Chiavenna, sembra proprio che l’autore parli con la bocca piena e questo per chi, a casa, apre il frigo e ci trova solo uno yogurt magro, non è simpatico.
Potete allora spostare il volume al piano dedicato alla storia e immergervi nel tragico (e quindi affascinante) destino di Piuro, paese ricco di denari e arti, sepolto da un’immane frana sul far del ‘600, una Pompei delle Alpi centrali, che conserva ancora tutto il suo mistero al riparo dei soffi dei croti. Il viaggio prosegue in Svizzera, mentre il libro si sposta nella storia dell’arte, per raggiungere i luoghi di Segantini e Giacometti. Ma non finisce nemmeno qui. Paci riesce a trovare spazio persino per la sua famiglia e per i suoi amici e lo fa con una delicatezza tale che gli perdoni facilmente le digressioni. Solo che non sai più dove conservare il suo libro e allora decidi che forse l’unico posto è tenerlo a portata di mano, tra i libri che servono a qualcosa.
Potete allora spostare il volume al piano dedicato alla storia e immergervi nel tragico (e quindi affascinante) destino di Piuro, paese ricco di denari e arti, sepolto da un’immane frana sul far del ‘600, una Pompei delle Alpi centrali, che conserva ancora tutto il suo mistero al riparo dei soffi dei croti. Il viaggio prosegue in Svizzera, mentre il libro si sposta nella storia dell’arte, per raggiungere i luoghi di Segantini e Giacometti. Ma non finisce nemmeno qui. Paci riesce a trovare spazio persino per la sua famiglia e per i suoi amici e lo fa con una delicatezza tale che gli perdoni facilmente le digressioni. Solo che non sai più dove conservare il suo libro e allora decidi che forse l’unico posto è tenerlo a portata di mano, tra i libri che servono a qualcosa.
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